La zuppa e il pan bagnato. Il referendum sulle trivellazioni marine e la condanna di Verdini: se non è l’una cosa, è l’altra ad agitare le acque in casi dei democratici. È indubbio che le sfide più importanti del 2016, da cui dipenderà il prosieguo della legislatura, siano le elezioni amministrative prima, il referendum costituzionale poi. E però ogni giorno ha la sua pena, e ieri a far penare il Pd sono state prime le trivelle, poi le disavventure giudiziarie del senatore toscano.
Vediamo. Ad aprile si vota sulla possibilità di rinnovare le concessioni alle piattaforme petrolifere già in attività al largo delle coste italiane. I nove consigli regionali che hanno preso l’iniziativa referendaria avevano proposto anche altri, più ampi quesiti, ma il governo li ha disinnescati introducendo modifiche alla legislazione vigente, e così la Consulta ha ammesso un unico referendum. Siccome i punti principali della strategia energetica del Paese non sono toccati dal referendum in questione, è chiaro, e lo ammettono anche i proponenti, che la consultazione ha un significato eminentemente politico. Ma se la minoranza del Pd la cavalca diviene anche una cartina di tornasole dei nodi irrisolti nel rapporto del partito democratico con la base dei propri iscritti e militanti, e con l’opinione pubblica.
Se vincessero i sì, il voto verrebbe immediatamente tradotto dalle associazioni ambientaliste in un perentorio invito a tagliare in modo drastico l’uso dei combustibili fossili. Ora, non è che tale invito, col voto o senza il voto di aprile, possa essere preso a cuor leggero. La conferenza di Parigi, conclusasi recentemente, ha affermato che il cambiamento climatico rappresenta una minaccia «urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta», e non è possibile fronteggiare una simile minaccia senza una progressiva decarbonizzazione dell’economia. Quasi duecento Paesi hanno sottoscritto queste conclusioni (che attendono però le ratifiche nei parlamenti nazionali). E però, se la direzione di marcia è tracciata, resta il dovere dei governi di ragionare realisticamente sul modo in cui conseguire gli obiettivi indicati a Parigi. Dall’affermazione di principio all’implementazione delle politiche il passo non è affatto breve. E siamo al punto. Perché il partito democratico è incalzata da una rigida coscienza ambientalista, assai diffusa presso la sua base, per la quale qualunque scostamento dal principio è un inaccettabile cedimento morale. Se il paragone non urtasse le sensibilità degli uni e degli altri si potrebbe dire: anche l’elettore di sinistra, non solo quello cattolico, è cresciuto in questi vent’anni a pane e valori non negoziabili. È cresciuto cioè in una forma larvata di grillismo morale, impastata di intransigenza e indignazione puramente verbale, che si traduce in una crescente insofferenza verso ogni forma di mediazione politica fra gli interessi in gioco. A volte si tratta del più schietto interesse nazionale altre volte di interessi privati (le compagnie petrolifere, in effetti, esistono), ma in un caso o nell’altro ci si scontra sempre con il rifiuto di comporre le spinte ideali con le esigenze materiali. Sta qui, d’altra parte, la crisi e anzi l’inconsistenza dei partiti politici italiani, il cui compito di mediazione viene rifiutato quasi a priori, come se il solo fatto di tenere in considerazione anche il piano dell’interesse equivalesse di per sé a un inaccettabile cedimento morale.
Così le minoranze di sinistra, fuori e dentro il partito democratico, possono sempre far sponda, per imbarazzare il governo, con un’opinione pubblica, che da venti e passa anni ha imparato a sospettare per principio dell’attività politica, e a cui non si può mai dire fino in fondo come stanno le cose, cosa si può o non si può fare.
Lo si vede bene se solo si pensa alle furibonde polemiche sollevate in questi giorni da Bersani e compagnia sull’eredità dell’Ulivo, che Renzi avrebbe dilapidato snaturando il Pd. Ora però, se vi è un campione dell’ulivismo questi è Prodi. E a Prodi le trivelle non dispiacciono affatto, anzi è presumibile che, fosse al governo, non si barcamenerebbe molto diversamente. L’Adriatico di Prodi non sarebbe diverso, insomma, da quello di Renzi: come la mettiamo?
Poi, nello stesso giorno in cui ci si vergogna dell’astensione del Pd al referendum, arriva pure la condanna di Denis Verdini, ed è come agitare il panno rosso dinanzi al toro sempre imbufalito dell’indignazione morale. Di nuovo il rumore di fondo del grillismo democratico cresce. Come si fa a governare con Verdini? Probabilmente, lo si fa né più né meno come lo si faceva ieri con Berlusconi, quando, a causa della mancanza dei numeri in Parlamento, si formava il governo Letta. La qual cosa potrà certo meritarsi un giudizio negativo, sui risultati dell’azione di governo, ma un conto è non condividere il jobs act, oppure la legge elettorale, un altro è provare a costruire pregiudiziali morali grandi come macigni. La cui conseguenza è nell’immediato, qualche difficoltà supplementare per chi è al governo, ma nel lungo periodo è la condanna della politica a un permanente stato di minorità. Quanto convenga alla democrazia italiana vivere sempre sotto questa permanente ipoteca dallo sgradevole sapore moralistico non è dato sapere. Però va così.
(Il Mattino, 18 marzo 2016)