Archivi del mese: aprile 2016

Lo sguardo perplesso del Principino che saluta Obama

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Siccome c’è stata la Dichiarazione di indipendenza, nel 1776, a piegarsi sulle ginocchia per stringere la mano al principe George non è un suddito di sua maestà, ma il Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama. Il quale, dopo otto anni alla Casa Bianca, ha già un book fotografico di tutto rispetto, compresi gli scatti che lo ritraggono disteso sul pavimento dello studio ovale, mentre tiene sollevata una bambina in ghingheri. Gli mancava, però, la foto con George, il rampollo di casa Windsor, terzo nella linea di successione al trono, dopo il nonno Carlo e il padre William. George è in vestaglia, già compreso nel suo ruolo di principe, assai incerto però sui quarti di nobiltà che può vantare quel mezzo keniota di Obama: così lo ha infatti apostrofato il sindaco di Londra, Boris Johnson, al quale proprio non va giù che Obama scoraggi la Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Baby George non sembra, nella foto, pensarla esattamente alla stessa maniera, ma è comunque perplesso e palesemente non capisce come mai il padre e la famiglia e il Regno abbiano una «special relationship» con l’uomo nero.

Del resto, baby George non è nuovo alle smorfie: dopo tutto, è solo un bambino. Ma in rete c’è tutto un filone ispirato al piccolo principe (no, non quello di Antoine Saint-Exupery). George imbronciato che dice: «se neanche stavolta mi regalano la Scozia faccio un macello», oppure George che guarda lontano e alla madre dice: «sento puzza di povero».

L’ironia si basa ogni volta sul serissimo contegno del principino, a cui si presta la capacità di tenere i comuni mortali a distanza regale da lui. E anche quando tra quei mortali c’è l’uomo più potente della terra, l’istituzione monarchica riesce ancora a incarnare, sia pure in forma di parodia, tutto l’aristocratico distacco che un nobile può esercitare nei confronti del popolo. Fuori tempo massimo? Certo, fuori tempo massimo. Anche in Gran Bretagna, dove pure la corona gode di ottima salute (e non solo per i novant’anni di Queen Elizabeth), anche lì sanno bene che i re e le regine sono cose di un altro tempo e di un’altra storia. Però ci sono affezionati e non ci rinunciano. Se tuttavia sorridiamo pure noi, che delle teste coronate non conserviamo un buonissimo ricordo, è perché anche noi, come tutti, sappiamo cogliere il contrasto fra l’età del piccolino ed il suo manto principesco, fra le comuni faccine di un bimbo e i privilegi di Kensington Palace.

E va bene: sorridiamo pure, con tutta la leggerezza del caso. Non si tratta mica di prendere partita fra la vecchia, aristocratica Europa e la giovane, democratica America; fra le forme compassate del vecchio continente e i ritmi decisamente più swing d’oltreoceano; fra l’etichetta dell’antica aristocrazia e la democrazia dei ramponieri americani.

Ma una cosa manca. Manca l’essenza stessa del potere. Che non è né la forza né la violenza. Ha i suoi codici, i suoi segni, i suoi simboli. E questa è una cosa che fa meno ridere. Certo, non si può più esercitare in veste da camera, ma stabilisce comunque un certo dislivello. Noi forse pensiamo che sia una roba sorpassata, o che la superiamo di slancio con un filo d’ironia. In realtà, i principini passano, il potere resta.

(Il Messaggero, 24 aprile 2016)

Il coraggio di avere paura della santa intolleranza

DAVIGO

Due punti, virgolette: «si fa come con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta». Così parlò Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, intervistato ieri dal Corriere della Sera. Ieri, ma poteva essere anche dieci o vent’anni fa. Anzi no, perché oggi è diverso, «oggi la situazione è peggio» che all’epoca di Mani Pulite, del cui pool Davigo fece parte. E tutta l’intervista svolge quest’unico tema, la corruzione della politica, i politici che rubano, i corrotti più forti di prima, i delinquenti in carcere che sono troppo pochi. E infine i governi che, di destra e di sinistra, agiscono sempre allo stesso modo: quando va bene prendono provvedimenti inutili; quando va male favoriscono la corruzione. E tutti, tutti sono senza vergogna, rubano senza vergogna, parlano senza vergogna.

Nel suo santo furore contro la corruzione politica che infesta il nostro Paese, Piercamillo Davigo non si prende nemmeno una volta il tempo di spiegare in cosa consiste il diritto di difesa, oppure la presunzione di innocenza, o la funzione democratico-rappresentativa dei partiti. Non sospetta un uso distorto della custodia cautelare, non conosce comportamenti abusivi del pubblico ministero, respinge la logica della responsabilità civile dei magistrati. E dice almeno un paio di cose di una gravità difficile da sottovalutare.

La prima: alla domanda se davvero avesse detto in passato che «non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti» risponde che, certo, lo ha detto e lo conferma, con riferimento a un certo contesto ambientale, che prova a descrivere. Ma in quale contesto giuridico può mai esser vera un’enormità simile? Dal punto di vista dello stato di diritto, non è mai vero che non esistono innocenti: in nessun contesto, neanche nel più degradato, nel più compromesso, nel più corrotto dei contesti possibili. Neppure tra i trafficanti di droga e gli spacciatori di materiale pedopornografico a cui Davigo paragona con squisita gentilezza i politici: neanche lì la legge può considerare di avere dinanzi solo colpevoli di cui non si sia potuto ancora dimostrare la colpevolezza. C’è solo un contesto in cui questo può accadere, ma non ha a che vedere con la legge e con il diritto, bensì con l’abito mentale dell’inquisitore. Davigo è del resto convinto che «male non fare paura non avere», come ha ricordato ancora di recente. Il che si traduce in due non piccole conseguenze: la prima, che il pubblico ministero è di fatto autorizzato a incutere paura, dal momento che dall’altra parte si spaventerà solo il cittadino disonesto; la seconda, che la vera difesa dell’indagato, o dell’imputato, contro cui preme il martello dell’inquisitore, non è nel diritto, nelle garanzie e nelle regole del processo, bensì solo nella morale e nella onestà personale. Difficile compiere più rapidamente tanti passi indietro dal punto di vista del garantismo penale.

C’è poi l’altra enormità che Davigo si spinge a dire, quando rievoca i fasti di Tangentopoli. Perché traccia il bilancio di quella stagione contando non il numero dei processi o delle condanne, ma quello dei partiti che crollarono sotto i colpo delle inchieste. Li conta: furono cinque, «tra cui quello di maggioranza relativa», cioè la Dc, ma non crollarono tutti. Infatti: «dovemmo interrompere la cura a metà». Anche in questo caso è evidentemente all’opera la stessa antigiuridica presunzione di colpevolezza di prima: i partiti che non crollarono resistettero solo perché i magistrati non arrivarono fino a loro. Ma soprattutto l’attività della magistratura prende in queste parole uno smaccato significato politico. Non è più questione, infatti, di reati da scoprire, ma di partiti da demolire.

Ora, è vero che il vice Presidente del CSM, Legnini, ha preso le distanze dalle parole di Davigo, ma resta la preoccupazione per una magistratura associata che si esprime in questi termini: non per chiedere di discutere questo o quell’aspetto della riforma della giustizia, non per dialogare sui temi in discussione in Parlamento, ma per gettare nel totale discredito l’interlocutore politico con cui pure dovrebbe intrattenere rapporti certo anche ruvidi, se necessario, ma pur sempre di reciproco rispetto.

E invece non c’è una sola parola nell’intervista che lasci pensare che per Davigo la politica italiana sia altra cosa che un grande latrocinio. Così peraltro pensava sant’Agostino dei regni e degli Stati. Ma appunto era un santo a pensarlo, uno che cioè prendeva a metro e misura degli uomini la giustizia di Dio. È possibile accettare che il Presidente dell’Anm nutra la stessa, santa intolleranza?

È questa la cultura giuridica liberale di cui ha bisogno il Paese? Oppure ha davvero ragione Davigo, e allora non si tratta di processi o di garanzie, ma di riattivare il mito fondativo di Mani Pulite, per resettare daccapo la classe politica del Paese? Dalla crisi della politica deve dunque venire la santa Repubblica dei giudici, con i Cinquestelle che, entusiasti delle parole del magistrato, si candidano fin d’ora a guardiani della rivoluzione? C’è di che aver paura. E bisognerà avere pure il coraggio di avere paura, quando qualcuno vi dirà beffardo che hanno paura solo i corrotti.

(Il Mattino, 23 aprile 2016)

A teatro: chi ci va, e perché ci va

LW

Propongo un paio di estratti dalla conversazione che ho avuto con Donald Sassoon. La si legge nell’ultimo fascicolo di Left Wing, dedicato al teatro, che presentiamo questa sera a Salerno, alle ore 18, presso la Libreria Imagine’s Book:

M.A.: Vi sono però anche cambiamenti, comportati dalle innovazioni tecnologiche, e in particolare dalla diffusione della rete, che hanno o possono avere riflessi addirittura antropologici. Penso per esempio al , grado di attenzione o di concentrazione che noi prestiamo ai diversi prodotti culturali ai quali siamo esposti, gradi che variano a seconda delle modalità di fruizione, e che incidono anche sul tipo di produzione. Se cambiano le abitudini di consumo, cambiano anche i tipi di prodotto offerti. Le pratiche di lettura o di consumo della musica, ad esempio, sono state cambiate profondamente dall’uso del computer e anche qui c’è chi lancia il grido d’allarme, come se noi sperimentassimo non solo un cambiamento ma una perdita irreparabile: un abbassamento delle soglie dell’attenzione, una diminuzione della capacità di concentrazione. Questo avrebbe dei riflessi sul sistema generale della cultura e sulla «cultura alta» in particolare. Credo di rappresentare così una preoccupazione tipica delle élites che lei descriveva, e sulla quale di nuovo, vorrei chiederle se la condivide, se descriverebbe questi cambiamenti più o meno necessari nei termini di una perdita di peso o di valore.

D.S.: Io vorrei conoscere la base empirica (difficilissima da scoprire e da sviluppare) su cui poggiano queste affermazioni. Non c’è un paragone su cui ci si possa basare. La gente che legge libri come quelli di Dan Brown o di Harry Potter cent’anni fa semplicemente non leggeva. Dunque, il loro livello d’attenzione non è una cosa di cui si possa discutere. Non leggevano, non andavano a scuola, o se ci andavano imparavano appena a firmare con il proprio nom. Lavoravano 10/15 ore al giorno, non avevano i week end, non avevano le vacanze, morivano a 50 anni: non capisco bene, insomma, che cosa può importare il loro livello di attenzione quando queste sono le condizioni con cui andrebbero raffrontata la situazione attuale. Come si può paragonare un piccolo impiegato che vive nei paesi europei mediamente fino a 75 anni, va al cinema, va in vacanza, legge libri e riviste, ascolta musica, con quel mondo passato? Come si può dire che è finito un il «bel mondo antico»? Devo dire che queste sono affermazioni che in Italia si sentono ancora. Ma le stesse cose io non le ho sentite in Gran Bretagna. C’è gente che dice di non amare la musica pop, ma francamente nemmeno a me piace la musica pop. E allora?

M.A.: Mi riporto ad un dato che trovo nel libro di Sinibaldi, Un millimetro in là. INtervista sulla cultura. Una ricerca del 2013 dell’Eurobarometro, condotta su scala europea, analizza la partecipazione culturale. Nella classifica generale dei ventisette Stati dell’Unione europea, l’Italia è ventitreesima. Il 62% degli europei dichiara di non partecipare ad alcuna attività culturale e tra gli italiani la percentuale sale addirittura all’80%. Sinibaldi sottolinea che il dato riguarda comunque una delle nazioni più ricche e tradizionalmente colte del mondo. I numeri sono drammatici. Io non avrei mai immaginato che fosse così ristretto il numero di coloro i quali dichiara di condividere, partecipare ad una esperienza culturale. Sinibaldi lega la situazione italiana all’egemonia che ha avuto la tv commerciale. Ricorda lo slogan della prima tv commerciale, canale 5: “torna a casa in tutta fretta, c’è un Biscione che ti aspetta!”. Era forse un modo per allontanare i cittadini dalla condivisione dell’esperienza culturale, relegandoli nel focolaio domestico? Non credo che le cose stiano così, ma allora come?

D.S.: La prima osservazione che avrei rivolto a chi ha condotto tali ricerche è questa: se chiedo a qualcuno se ha partecipato ad un’esperienza culturale, devo sapere che idea della cultura ha quella persona. Se per quella persona “cultura» vuol dire Dante e Petrarca, mi darà un certo tipo di risposta; se, invece, ha una visione più larga, antropologica, della cultura e per quella persona «cultura» è la televisione, il cinema, i libri, allora darà un altro tipo di risposta. I dati delle ricerche dell’Eurobarometro che lei mi cita sono strani. Secondo me, indicano che quando la gente parla di cultura, ha un’idea molto ristretta di quello che la cultura è. È un’idea molto vicina a quella di “élite culturale” di cui abbiamo parlato prima. Per me, dal punto di vista dello storico, Dan Brown è cultura, un tipo di cultura che a me non piace, ma fa parte della cultura moderna. La gente a cui viene chiesto e ha partecipato ad un’esperienza culturale probabilmente penserà che Dan Brown non è cultura. Noi purtroppo abbiamo la parola «cultura» che vale due cose: “alta cultura” (Dante, Shakespeare …) e un termine generico che utilizziamo per dire ad esempio «cultura gastronomica»,  «cultura delle comunicazioni», «cultura di massa» … . Quando un antropologo va in un villaggio primitivo, non sarebbe un buon antropologo se al suo ritorno dicesse che i primitivi non hanno cultura perché non hanno l’equivalente di Dante e Shakespeare.

Ora il coraggio di una politica per l’energia

energia-alternativa-ambiente-pulito-65482261Previsioni rispettate: niente quorum, niente abrogazione. La legge rimane così com’è. E due lezioni si possono tirare da questa sfida referendaria. Una, la più evidente, riguarda la vittoria dell’astensionismo. E siccome Renzi aveva sposato in maniera del tutto esplicita il partito del non voto, la vittoria di Renzi. O forse meglio la sconfitta dei suoi avversari, Michele Emiliano in testa. Che ovviamente ha subito preso a dire che, nelle urne, si è formato «il più grande gruppo europeo per un nuovo modello industriale/energetico», ma lo dice per mantenere il ruolo di sfidante di Renzi, non certo perché gli bastava inventarsi il grande gruppo, quorum o non quorum.

D’altra parte, la prima delle partite del 2016 era obiettivamente la più difficile: con le amministrative di primavera e il referendum costituzionale in autunno, la leadership di Matteo Renzi sarà senz’altro messa a più dura prova. E però Emiliano – e l’arcipelago della sinistra-sinistra, e l’ecologismo fondamentalista grillino – ci avevano sperato. E pure a destra s’era fatta sentire qualche voce, con il medesimo obiettivo di fare uno sgambetto al Presidente del Consiglio. Non è andata così, e in fondo c’era da aspettarselo. Troppe volte gli italiani hanno disertato le urne, nelle ultime occasioni di consultazioni referendarie, per sperare questa volta di invertire il trend.

Emiliano e gli altri confidavano forse nel terreno scelto, quello dell’ambiente, del mare pulito, dell’orizzonte sgombro di trivelle e piattaforme. Confidavano nelle risorse di una coscienza ambientalista che è oggi difficile contraddire apertamente, senza passare per irresponsabili. Come una volta si marciava per la pace nel mondo, così oggi si marcia per l’ambiente e la natura. Sia pure; ma il referendum riguardava, com’è noto, non il mondo intero bensì un aspetto molto particolare della politica energetica del nostro Paese. I promotori, però, hanno voluto che assumesse un significato simbolico, che esprimesse in maniera inequivocabile il rifiuto integrale di un’economia fondata sul petrolio, e il passaggio prossimo venturo a un mondo finalmente «carbon free». Non a caso, si è discusso molto poco dell’unica questione sensata, e di merito, che il quesito sollevava: se cioè sia ragionevole – ragionevole dal punto di vista della razionalità economica, non dal punto di vista dell’ideologia verde – che un paese, che certo non ha grande abbondanza di idrocarburi, rilasci concessioni a tempo indeterminato. Materia troppo tecnica, che avrebbe affossato ulteriormente la partecipazione popolare? Può darsi, ma l’impressione più generale è che in materia di ambiente e sviluppo sostenibile il nostro paese non dia un grande esempio di discussioni di merito, condotte in maniera razionale, con una valutazione attenta di costi e benefici. Crescono i comportamenti ispirati a una corretta educazione ambientale, ed è un bene; ma non cresce affatto, nell’opinione pubblica, una valutazione più matura dei problemi legati all’approvvigionamento energetico e al futuro industriale del Paese. Perciò la specifica materia del contendere è finita nel dimenticatoio, e si è discusso di trivelle sì e di trivelle no come se dall’esito del referendum dipendesse l’ingresso nella nuova era dell’Acquario.

E qui cade la seconda lezione che viene da questo referendum. Perché diciamo la verità: l’astensione rientra certamente tra le possibilità che ha l’elettore, e l’invito all’estensione fa parte anzitutto della libertà di opinione e di propaganda, in prossimità di un voto. Ma rimane un comportamento ispirato da motivazioni tattiche, legate alla possibilità di avere più facilmente ragione dei sostenitori del sì appoggiandosi alla quota fisiologica (a quanto pare in aumento) di coloro che disertano le urne.  L’astensione dal voto non è però il voto contrario all’abrogazione: non lo era per i padri costituenti, che vollero il quorum ma respinsero un emendamento che si proponeva l’esplicita equiparazione fra non voto e voto contrario; e non lo è neppure per la Corte costituzionale, che ha in passato ritenuto legittima la riproposizione di un quesito che non aveva superato il quorum. Il che significa che l’astensione non contiene per la suprema Corte l’espressione di una volontà giuridicamente rilevante.

Fuori dalla difficile materia giuridica, questo significa pure un’altra cosa: che a Renzi arride senz’altro la vittoria politica, perché quelli che «Renzi è un usurpatore» a sinistra continuano a prosperare; ma, pur avendo colto una vittoria sonante, egli non l’ha conseguita provando a bucare il pallone ideologico che porta in quota l’ambientalismo del no «senza se e senza ma». Così, dentro quel pallone, continuano a vagolare le nostre teste svagate. E certo non è il massimo, per un Paese che di problemi ambientali ne ha fin sopra i capelli, ma che come ogni Paese serio ha bisogno pure di una vera strategia energetica nazionale. E soprattutto di qualcuno che abbia il coraggio di spiegarla agli italiani.

(Il Mattino, 18 aprile 2016)

Nudi sulla rete, altro che privacy

Acquisizione a schermo intero 16042016 082121.bmpRaccontiamola un’altra volta, la sorte che ci capita in rete e i rischi che corriamo, perché, dopo le rimostranze di Apple contro l’FBI, ora è Microsoft che fa causa al Dipartimento di Giustizia dell’Amministrazione americana, colpevole di ficcare troppo spesso il naso nei profili online e autorizzare violazioni della privacy con troppa disinvoltura. È la mossa più aggressiva finora compiuta da Bill Gates contro il governo federale.

Dunque vediamo: se navigate online, lasciate tracce. Ovunque. Non basta eliminare file, cancellare la cronologia, svuotare le cartelle, proseguire la navigazione in incognito, usare password e falsi account: tutte le operazioni ordinarie che un utente normale esegue non sono sufficienti. Le tracce rimangono e sono captate. E non finiscono sotto la pacata bonomia o l’acume intellettuale degli investigatori da romanzo, con la pipa e la lente d’ingrandimento. No, finiscono dentro enorme banche dati fisicamente dislocate chissà dove, in cui, traccia dopo traccia, si deposita tutta la vostra vita.

Non vi capita già che Facebook vi ricordi i vostri ricordi più personali, che voi però non ricordavate più? Ebbene, voi non li ricordate, ma Facebook sì. I baroni della Rete conservano memoria di ogni cosa, e decidono loro cosa farne. All’ingresso, all’atto della registrazione, ciascuno di noi accetta distrattamente la policy dell’azienda, che leggiamo come leggiamo libretti d’uso e licenze: saltando all’ultima riga. Mettiamo la crocetta e, in un clic, accettiamo che siano le grandi aziende dell’hi tech a scrivere riga dopo riga l’edizione completa del libro del nostro destino.

La vera protezione che abbiamo, forse l’unica, è che a nessuno interessi leggere proprio quel libro: il nostro. Certo, i nostri dati verranno trattati statisticamente, e su di noi pioveranno pubblicità e proposte commerciali sempre più mirate, targettizzate, personalizzate, grazie ad algoritmi sempre più potenti. (Regoletta elementare: se gli algoritmi sono molto potenti, chi li adopera detiene molto potere). E naturalmente ci prendono, ma almeno ci prendono nel mucchio, e soprattutto in maniera del tutto anonima. È a macchine, insomma, che dobbiamo la cortesia dell’ultima offerta last minute, o del nuovo, imperdibile libro di Pinco Pallo.

Ma che succede se, dall’altra parte dello schermo, tra i circuiti dei nostri smartphone entra il Federal Bureau of Investigation? Microsoft ha fatto causa al governo nazionale degli Stati Uniti perché queste intrusioni accadono sempre più spesso, accadono senza che la persona sottoposta a indagine ne sappia nulla, accadono senza neppure che sia fissato un termine temporale a queste palesi violazioni dalla privacy.

In nome della sicurezza, ovviamente, della minaccia terroristica e delle necessarie attività di intelligence. Ma il risultato è un drastico abbassamento della soglia di protezione dei nostri dati personali.  E ciò accade non solo perché in rete, sul nostro conto, si trova ormai più roba di quanta ce ne sia nella nostra stessa testa, ma anche perché vengono meno le garanzie che un’idea illuministica e liberale del diritto ci aveva abituato a considerare intangibili. Pensavamo cioè di non poter finire più in un processo kafkiano, in cui non è chiaro chi indaga sul tuo conto e perché. E pensavamo pure che sotto lo scrutinio degli apparati di sicurezza, con il permesso dell’autorità giudiziaria, si potesse finire solo per un tempo determinato, e in forza di esigenze chiare, circoscritte e ben motivate. La denuncia della Microsoft ci toglie questa ingenua confidenza.

Alle prese con la dose di cavallo delle intercettazioni che i quotidiani ci regalano un giorno sì e l’altro pure, e sotto il pressante invito ad allungare il più possibile i termini della prescrizione (accompagnato da pesanti sanzioni morali per chi pensasse di non accoglierlo), la causa intentata da Microsoft potrebbe farci sorridere.

E invece si tratta di una questione centrale delle società contemporanee, che ha davvero a che fare con le nostre libertà. Ora però, se ho raccontato tutta quella storia, è per sottolineare un paio di altre cose, che una volta che avremo preso partito per il gigante buono contro il poliziotto cattivo rischiamo di trascurare.

E cioè che dobbiamo difendere la privacy con le unghie e coi denti, ma è meglio che ci dimentichiamo proprio di avere una vita privata, se per vita privata intendiamo uno spazio in cui abbiamo accesso solo noi e chi vogliamo noi. Perché quando decidiamo di entrare in rete (e non possiamo non entrarvi), varchiamo un cancello di cui non deteniamo più le chiavi. Chattiamo magari da casa nostra, ma non stiamo più a casa nostra. Poi, certo, la chiave abbiamo deciso di darla a Microsoft, Apple o Facebook e non al governo, ma né Microsoft né gli altri sono il nostro vicino di casa. Ci ispirano più fiducia, ma solo perché la fiducia è parte fondamentale del loro stesso business, di cui sono ovviamente gelosissimi.

E anche perché qui da noi, come in tutto il mondo, dei poteri pubblici diffidiamo, a torto o a ragione, sempre di più.

(Il Mattino, 15 aprile 2016)

Il profeta e l’incompiuta

o-CASALEGGIO-facebook.jpgCome Mosè, Casaleggio se ne va prima di raggiungere la terra promessa, prima di veder realizzata l’utopia tecnologica della democrazia diretta (e magari, nel frattempo, vedere conquistata la Capitale).

Nell’ultima intervista alla Stampa, del novembre scorso, Casaleggio sosteneva che il M5S non ha leader, che l’unico leader è il Movimento stesso, ma ovviamente sapeva che non è così, e non può essere così. In nessuna organizzazione politica al mondo, men che meno in quelle che si vogliono rivoluzionarie. Sapeva Casaleggio che le decisioni fondamentali le prendevano lui e Grillo, e che dalle candidature alle espulsioni, dalla gestione dei gruppi parlamentari alla formazione del Direttorio, tutto passava per le mani sue e del suo amico Beppe. Sicché, insieme al dolore per la perdita di un uomo che ha sicuramente cambiato le regole politiche del Paese, nelle file dei Cinquestelle serpeggia inevitabilmente la domanda: e adesso? Adesso che Casaleggio non c’è più, a chi tocca? Anche Beppe Grillo aveva detto tempo fa di essere «un po’ stanchino», dichiarazione che  anticipava la presentazione di un nuovo simbolo senza il nome del fondatore, e frontman, del Movimento, e apriva quasi ufficialmente la lotta per la successione. «Quasi», perché la retorica della trasparenza, dello streaming e dell’«uno vale uno» impedisce di metterla nero su bianco, e provoca anzi, per inevitabile contrappasso, un soprassalto, persino un’ossessione di segretezza.

Ma, a meno che non si faccia avanti il figlio di Casaleggio, Davide, tutto porta a pensare che saranno Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista a contendersi la leadership del Movimento. O forse a condividerla, finché una coabitazione sarà possibile, e le ambizioni e la linea politica dell’uno non cozzeranno con quella dell’altro.

Perché ambizione i due ne hanno da vendere, com’è naturale che sia. Chi non ne avrebbe, dopo aver compiuto il grande balzo in avanti delle scorse elezioni politiche? Luigi Di Maio è arrivato alla vice-Presidenza della Camera dei Deputati. Ha dato un tono istituzionale ai suoi interventi pubblici, che possono voler dire una maggiore disponibilità alla mediazione e al compromesso, ma possono anche significare un più duro esercizio del potere. Di Battista invece incarna l’ala più movimentista e idealista del grillismo, ed ha un capitale di simpatia che l’altro non riesce a conquistare. L’uno e l’altro interpretano il disgustoper la politica tradizionale, fatta sinonimo di ruberie e malversazioni, ma lo fanno in due modi diversi. L’uno con l’aria impettita del primo della classe, che perciò denuncia più volentieri l’incompetenza di quelli che ci governano; l’altro con quella dell’ultimo della classe, che dei professori contesta anzitutto l’autorità. A volere usare la storia per costruire qualche paragone iperbolico, Di Battista rappresenta, nella linea di successione al fondatore, la corrente calda, la via trotzkijsta della rivoluzione permanente; Di Maio, invece,la corrente fredda, lo sbocco staliniano. La normalizzazione.

Ma l’uno e l’altro sono confortati dai sondaggi. Che non mostrano segni di cedimento: la possibilità che i Cinquestelle arrivino a Palazzo Chigi, a dar retta ai numeri di queste settimane, rimane concreta. Molto ancora può cambiare, di qui alle elezioni politiche. Ma il fatto che un quarto dell’elettorato rimane stabilmente ancorato alle posizioni grilline dimostra che l’intuizione di Grillo e Casaleggio lascerà dei tratti permanenti nella vita politica del Paese. Perché le tradizioni ideali nazionali non tengono più, perché il mix di tecnologia e ecologismo, di futuro avveniristico e richiamo alla grande madre terra esercita un indubbio fascino, con il progressivo esaurirsi delle sintesi storico-politiche. Perché infine la costruzione di una cittadinanza fondata non sull’esercizio del potere ma sul suo rifiuto rappresenta una tentazione reale. Anzi: tanto più reale, quanto più si accorcia il raggio, la forza e il senso della decisione politica. Un movimento di esodo dalla politica, dunque, dalle sue contraddizioni e dalle sue brutture. Non a caso, nei suoi saggi insieme ironici e apocalittici, Casaleggio collocava il mondo che verrà dopo fratture epocali, guerre e altri cataclismi naturali. Perché non ai grillini tocca dire come arrivare fin lì. Accadrà. Loro sono quelli che vengono dopo, che erediteranno il mondo quando tutto sarà finito. E non è la prima volta che al profeta che indica la via non è dato, purtroppo, di raggiungere la meta.

(Il Mattino, 13 aprile 2016)

Perché il centrodestra a pezzi non finirà nelle mani della Lega

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Può vincere le elezioni in Italia uno schieramento di centrodestra che dà del venduto al Presidente della Repubblica? Le parole che ieri Matteo Salvini ha rivolto all’indirizzo di Mattarella hanno suscitato un’ondata di polemiche. Parlando ad una manifestazione in cui si trattava del vino nostrano e della capacità delle aziende italiane di imporsi sui mercati mondiali, Mattarella ha detto che il futuro del nostro Paese sta nel superamento delle frontiere e non nel loro ripristino. Salvini vi ha colto un’allusione al fenomeno migratorio, ed è partito lancia in resta. Superare le frontiere significa far entrare tutti, forse il Presidente non ha parlato da sobrio, e se invece era sobrio allora è complice della rovina dell’Italia.

Ma, ci fosse o no nelle intenzioni del Capo dello Stato un velato riferimento ad un tema davvero cruciale per il futuro dell’Unione europea, che la Lega usa però con grande disinvoltura, per alimentare paure e ossessioni, la reazionedecisamente sopra le righe del leader del Carroccio ci porta alla domanda di prima: c’è qualcuno più «unfit», più inadatto di Salvini a guidare il Paese?

Eppure la decomposizione del centrodestra italiano, e l’assenza di una leadership di segno diverso dopo il tramonto ormai irreversibile di Berlusconi, rischia davvero di consegnare a Matteo Salvini la guida dello schieramento. Con probabilità piuttosto basse di farne una maggioranza di governo.

Se si guarda un po’ in giro – e non c’è bisogno di arrivare fino a Trump, in America – si troverà che in molti paesi del continente avanzano idee xenofobe, cresce il sentimento anti-europeo, e torna con forza la voglia di rinserrarsi dentro gli spazi nazionali. Un po’ ovunque sono in difficoltà le famiglie politiche del socialismo e del popolarismo, cioè letradizioni politiche e ideali responsabili della costruzione comunitaria. Ma leforze moderate non sono affatto scomparse, e la leadership rimane ancora appannaggio di personaggi come Angela Merkel o Cameron (Panama papers permettendo).

La storia italiana ha poi una delle sue chiavi principali nella tenuta offerta per quarant’anni dalla Democrazia Cristiana, che ha avuto ben pochi cedimenti verso la destra estrema, fascista e post-fascista, riuscendo a governare il Paese dal centro, con una classe dirigente saldamente ancorata dentro i valori della Costituzione. Nel ventennio successivo alla fine della prima Repubblica, Berlusconi ha compiuto un’operazione analoga, attraendo la destra di Gianfranco Fini nello spazio di governo, non certo subendone l’attrazione. Alla fine di questo secondo arco della storia nazionale, però, dopo gli ultimi rovesci di Forza Italia e il rompete le righe, il panorama che offre il centrodestra è desolante: non si vede più nessuno che sia capace di fare quello che han fatto la DC prima, il Cavaliere poi. A tenere la scena sono le sparate di Salvini: al momento, non c’è altro.

Lo spettacolo che offre Roma da questo punto di vista è esemplare. La candidatura di Guido Bertolaso, proposta da Berlusconi, è solo una fra le tante che compongono il bouquet del centrodestra. C’è Bertolaso, e poi c’è Giorgia Meloni. C’è Giorgia Meloni, e poi c’è Alfio Marchini. C’è Alfio Marchini, e poi c’è Francesco Storace. Se questi quattro pezzi del centrodestra stessero insieme, sarebbero probabilmente maggioranza. Ma sono profondamente divisi, ed è probabile, allo stato, che nessuno di loro arrivi al ballottaggio.

In altre realtà il quadro non è frammentato allo stesso modo, ma la fisionomia del centrodestra rimane comunque indecisa. E aumenta la voglia di contarsi da parte di liste, partiti e partitini che fluttuano in quello spazio come satelliti usciti fuori da qualunque orbita.

Eppure vi sarebbero due buoni ragioni per provare a rimettere insieme tutti questi cocci. La prima attiene alla debolezza oggettiva dell’infrastruttura culturale della sinistra. Non vi sono molti dubbi sul fatto che a dettare l’agenda europea sono stati in questi anni temi che parlano molto più a una cultura di stampo moderato, che non alla tradizione socialista e socialdemocratica. Dall’austerity all’elogio del merito, dalla flessibilità sul mercato del lavoro alle riforme del welfare, passando per i temi della sicurezza e dell’immigrazione, il  set di idee diffuse e circolanti nell’opinione pubblica si acquartiera molto più facilmente a destra che a sinistra. Ma in Italia non c’è una classe dirigente all’altezza, in grado di chiudere queste idee in una sintesi che non catturi solo l’elettorato più estremista, o forse semplicemente più deluso e frustrato, spaventato dalla globalizzazione, ma che si rivolga alla generalità del Paese.

La seconda ragione, più banale ma non meno incisiva, è la legge elettorale nazionale. Che col premio di lista dovrebbe spingere alla ricomposizione. Era, in realtà, la ragione per cui Forza Italia ha rinunciato al premio di coalizione, finché ha creduto di poter tenere tutti insieme.

Ora le cose non stanno più così, e la tendenza al minoritarismo, che prima abitava stabilmente a sinistra, si è trasferita dall’altra parte del campo.

Così ognuno fa i suoi calcoli. Salvini li fa alla grossa, e insulta il Capo dello Stato. Gliene viene bene forse a lui, che cerca così di togliere qualche voto ai Cinquestelle. Ma che sia questa la strada per diventare maggioranza nel Paese, riducendo al silenzio le forze moderate e di centro, è politicamente e storicamente assai improbabile.

 

(Il Mattino, 11 aprile 2016)

Una risposta in nome della verità

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Il ritiro dell’ambasciatore italiano dal Cairo, Maurizio Massari, è un atto grave, che l’Italia non compie a cuor leggero, ma che d’altra parte non poteva non essere compiuto, al punto al quale sono giunte le cose. Trascorrono infatti le settimane, e nessun progresso sostanziale viene raggiunto sul caso Regeni. L’unica cosa chiara è che l’Italia non può accontentarsi di versioni di comodo, per giunta cucite assai male. L’incontro a Roma fra gli inquirenti egiziani e quelli italiani si è concluso sostanzialmente con un nulla di fatto, non solo sul versante delle risultanze investigative, ma anche sul soddisfacimento delle richieste presentate dall’Italia, per far luce sulle ultime ore di Giulio Regeni. Non è forse sbagliato supporre che la reticenza delle autorità cairote è direttamente proporzionale alla portata del coinvolgimento di pezzi dell’apparato di sicurezza egiziano. Si tratta solo di una congettura, ma di una congettura che i silenzi, i depistaggi e le reticenze autorizzano abbondantemente. E dunque: a meno di non voler gettare alle ortiche la dignità nazionale, occorreva dare una risposta ferma, che dimostrasse in maniera inequivocabile la ferma determinazione del governo italiano a perseguire la verità sul rapimento, la tortura e l’assassinio di Giulio Regeni.

In realtà, le ragioni per trovare una via d’uscita diplomatica sono molte, perché molti sono gli interessi in gioco. Interessi anzitutto economici, legate all’esportazione italiane in Egitto e alle risorse energetiche di quel Paese, ma interessi soprattutto di carattere geo-politico, per i quali gli occidentali cercano almeno dai tempi di Anwar Al Sadat di mantenere rapporti amichevoli con il primo Stato arabo che è riuscito a fare pace con Israele. Il regime autoritario di al-Sisi, instauratosi dopo un triennio di fortissima instabilità, rappresenta per l’Italia uno dei pochi punti fermi nello scenario mediorientale. E anche in Libia il ruolo del generale egiziano nel riportare ordine e sicurezza, contenendo le spinte islamisteradicali, può essere fondamentale.

In fondo si tratta di un ritorno al passato, dopo le burrasche disordinate delle primavere arabe: sulle sponde non europee del Mediterraneo, è sempre stato più facile cercare appoggi fra le fila laiche degli eserciti nazionali, dai quali proviene al-Sisi (come prima di lui Mubarak, come prima di lui Sadat). Anche altrove, con il colonnello Gheddafi o con Saddam Hussein, l’Occidente ha mantenuto a lungo rapporti amichevoli: in cambio del contenimento dell’estremismo islamico, si chiudeva un occhio sui metodi sin troppo autoritari impiegati con gli oppositori interni.

In una fase di crisi delle relazioni internazionali, di recrudescenza terroristica, di relativo disimpegno americano, di guerra tanto a Ovest, nel territorio libico, quanto più a est, fra Siria e Iraq, poter contare sulla forza stabilizzatrice del regime egiziano è dunque importante.

Ma se muore un giovane ricercatore italiano è importante anche la dignità nazionale.

Che non è soltanto un valore morale, un punto di principio al quale non si può rinunciare. Certamente è anche questo, e dopo avere ascoltato la madre di Giulio chiedere di fare luce sull’uccisione del figlio con la più grande fermezza di carattere è soprattutto questo. Del resto, tutta l’opinione pubblica italiana non capirebbe un atteggiamento diverso del governo, e bene ha fatto dunque Matteo Renzi a richiamare in patria il nostro ambasciatore. Ma la dignità è anche, dicevo, un valore politico, un elemento di credibilità del paese. Riuscire a tenere ferma la domanda di verità è, in fondo, una dimostrazione di forza. Indica una certa maniera di far valere la propria sovranità nelle relazione fra gli Stati. Per un Paese spesso accusato di essere troppo accomodante, di tenere condotte compromissorie, di usare astuzie levantine per non avere guai in casa, di trattare e pagare riscatti per risolvere i rapimenti e di non volere mai esporsi veramente, la crisi diplomatica che si apre con l’Egitto di al-Sisi è una prova di maturità. Può darsi che l’Egitto non possa permettersi di svelare cosa sia veramente accaduto al povero Regeni, perché le conseguenze politiche sul regime sarebbero troppo serie. Può darsi che anche le più pressanti richieste italiane rimarranno, dunque, inevase. Può darsi, anzi è probabile: di questa pasta sono fatte le relazioni internazionali. Così è probabile che, finché sarà possibile, l’Italia ribadirà l’amicizia con il popolo egiziano. Ma appunto: ritirando l’ambasciatore, l’Italia dice agli amici egiziani che non tutto è possibile al nostro Paese. È bene che lo sappiano, e che si regolino di conseguenza.

(Il Mattino, 9 aprile 2016)

Il tramonto del talk show

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Il figlio terzogenito di Totò Riina, condannato per associazione mafiosa, che parla dal primo canale della televisione pubblica e promuove il suo libro: Riina family life (una cosa andrebbe detta pure sul confidenziale titolo in inglese, ma questa è un’altra storia). Salvo Riina che nel salotto televisivo più autorevole della Rai, «Porta a Porta», racconta com’è vivere, guardare la tv e mangiare biscotti in casa del capo dei capi della mafia e quanto bene lui volesse al padre e – immagino – quanto bene il padre volesse a lui.

Chi la mette così non concede attenuanti a Bruno Vespa: la trasmissione di ieri non s’aveva da fare. Chi invece riporta l’intervista e le domande del giornalista, e anche i suoi silenzi abbastanza sbigottiti ad ogni risposta reticente di Salvo Riina, che si tiene per sé ogni giudizio sugli omicidi e gli ergastoli del padre –  lasciando intendere che sì, insomma, d’accordo, ma cosa c’entra l’affetto di un figlio? – chi la mette in quest’altro modo ha tutto il motivo di ricordare la prima regola del giornalismo, che è quella di dare la notizia, e dunque di mettere il microfono dovunque vi sia una storia da raccontare e far conoscere all’opinione pubblica.

Nel primo caso Riina parla; nel secondo, invece, risponde. Nel primo caso Riina si prende i riflettori e la scena e fa pubblicità alla sua immane fatica letteraria; nel secondo, la luce gli finisce addosso per capire come sia possibile raccontare la domestica felicità di una famiglia mafiosa, lasciando fuori dalla porta di casa le stragi di Capaci, di via d’Amelio e tutte le altre vittime della mafia. Nel primo caso è soltanto spettacolo; nell’altro è autentico giornalismo.

Dove sta la verità? Vorrei prendere questa domanda alla lettera: vorrei soffermarmi sul «dove», cioè sul luogo, sullo studio, sul format. Non penso infatti che sia in discussione l’accuratezza dell’intervista. Nei commenti seguenti alla messa in onda, non ho trovato riprovazione per il tenore delle domande. Non direi nemmeno che si possa trattare della mancanza di un adeguato contraddittorio. Le parole più belle mi sono parse le prime pronunciate del figlio di Vito Schifani, uno degli agenti uccisi a Capaci, subito dopo la fine dell’intervista: povero lui, ha in sostanza detto Antonio Emanuele Schifani, povero lui, Salvo, che non ha potuto avere un’adolescenza normale e libera, come quella che ho potuto invece avere io. Che è come dire: anche quando la mafia vinceva in realtà perdeva, stava perdendo, e chi ha vinto sono io, in tutti questi anni ho vinto io per la vita che ho avuto e pure questa sera vinco io, perché non sono costretto a parlare a mezza bocca come Salvo Riina.

Di cosa si tratta allora? Di due cose, credo: della bardatura istituzionale che la trasmissione di Bruno Vespa si è data e anzi si è conquistata nel corso degli anni, e della stessa natura del talk show. Per l’una e per l’altra ragione è difficile ascoltare le parole del figlio di Totò Riina come le si può eventualmente leggere su un giornale, o magari in rete, su un qualunque canale video. Non è la stessa cosa: non c’è infatti, in questi ultimi casi, alcun supplemento di legittimazione ulteriore, che venga regalato all’intervistato. Faccio un esempio, per chiarire il punto: cosa si direbbe se Salvo Riina andasse come ospite in studio al Tg1 delle 20? Non sarebbe un po’ troppo? Eppure, se bastasse rilevare che di notizia si tratta in ogni caso, e anzi persino di uno scoop, non vi sarebbe ragione per non riservargli anche uno spazio del genere. A lui o magari al padre. E invece gli spazi – anche quelli televisivi – non sono affatto sedi neutrali; sono anzi spazi qualificati, connotati anzitutto dalla loro storia e dalla loro funzione. Qui non è in questione, io credo, la natura di servizio pubblico: una notizia è una notizia anche per la tv di Stato. Penso invece che si tratti di un vincolo meno formale ma non per questo meno robusto, per cui Porta a Porta ha potuto essere il luogo quasi ufficiale in cui Berlusconi firmava il contratto con gli italiani, o dove giungeva in diretta la telefonata diPapa Wojtyla. Poi, certo, anche quello dei racconti dei tanti delitti di cronaca nera, ma per l’appunto: non si può derubricare la mafia a un episodio in cronaca, da raccontare magari con qualche morbosità.

C’è poi la questione dei talk show. Questione che si è posta già con i Casamonica in studio, qualche mese fa. Anche in quel caso, veniva fatto di chiedersi se la normalità di una chiacchierata in un salotto televisivo non avesse dei limiti intrinseci: invece dell’inchiesta, il dibattito. Dove tutti prendono la parola allo stesso titolo, con pari educazione ed eleganza – altre volte dandosi invece sulla voce – senza che però si riesca a bucare per davvero la scena allestita. È l’ambiguità di ogni rappresentazione, che corre sempre il rischio di velare, invece di far vedere, la realtà rappresentata. Ma ci siamo talmente abituati a questa forma di intrattenimento televisivo, che abbiamo quasi perso memoria di altre forme di giornalismo, più scabrose, meno confezionate, più votate al reportage e meno al siparietto, più interessate alle voci che provengono dalla realtà e meno preoccupate di sé.  Se le polemiche di queste ore servissero a spingere la Rai in questa direzione, forse non sarebbero del tutto inutili.

(Il Mattino, 8 aprile 2016)

Sul crocevia del futuro ora  è vietato fermarsi

ImmagineL’arrivo a Napoli del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, in occasione della riunione della cabina di regia su Bagnoli, non ha il significato di una visita soltanto rituale. L’opera di bonifica e rigenerazione urbana dell’area riparte infatti per impulso del governo. Dalla nomina del Commissario Nastasi ad oggi sono stati fatti passi avanti: i primi, dopo un periodo di immobilismo e inazione lungo un quarto di secolo. Bisognerà naturalmente che l’opinione pubblica segua anche i prossimi passi, perché nulla è scontato e tutto può fermarsi ancora una volta, ma il senso della giornata di oggi è chiaro, e Renzi ne ha parlato anche nella direzione del partito democratico di lunedì: sbloccare l’Italia, far ripartire le opere pubbliche, e – aggiungiamo pure – restituire un po’ di fiducia nella capacità della politica di misurarsi con i problemi reali del Paese.

Questa sfida assume una rilevanza ancora maggiore nel Mezzogiorno, dove c’è da recuperare un divario drammatico con il resto del Paese, divario che negli ultimi anni, anziché ridursi, è venuto allargandosi. E prende un significato ancora più determinato a Bagnoli: perché si tratta di un sito dalle straordinarie potenzialità, che può davvero rilanciare non solo l’immagine della città ma anche la sua vocazione turistica e culturale, e perché i venti e passa anni di inconcludenza hanno finito con il costituire un giudizio senza appello sulla classe dirigente partenopea, incapace di immaginare un nuovo futuro per Napoli oltre quella fabbrica e la sua storia, oltre la prima Repubblica e gli involutissimi conati della Seconda, e, in definitiva, finalmente ben oltre il Novecento.

L’enorme complesso industriale dell’Italsider non c’è più. Ma oltre la dismissione finora non c’è stato nulla.

Matteo Renzi ha l’intelligenza e anche l’astuzia di appropriarsi di quei luoghi che si trovano al crocevia fra il passato ed il futuro. Spazi vuoti che nessuno ha saputo riempire. Sono luoghi che gli consentono di ribadire una differenza, una distanza, una discontinuità: la cifra della sua avventura politica, dalla rottamazione in poi. Luoghi che esemplificano in maniera evidente il mantra renziano: così è stato in passato, adesso però non è più così. Ma per la città, non solo per Renzi, questa è davvero una notizia e una scommessa: vuol dire che anche per il governo, finalmente, Napoli può fare la differenza.

Al presidente del Consiglio, com’è giusto che sia, non si fanno sconti: tutto quello che è retorica, narrazione, comunicazione deve essere sottoposto al vaglio della critica e misurato sui fatti. Anche perché Renzi è bravo: sa effettivamente come lanciare un messaggio, come far passare un’idea. Ma anche da questo punto di vista non è affatto trascurabile che nella retorica del Presidente del Consiglio Napoli, e per estensione il Sud, non entrino più solo come le occasioni per esercitare il malcontento verso la politica, il malaffare, il clientelismo, la corruzione o la camorra. Vi entrano ora come il terreno sul quale mettersi alla prova: per indicare degli obiettivi e dimostrare di saperli (o non saperli) raggiungere. Si vedrà.

Finora, la storia di Bagnoli è stata una storia di fallimenti, più o meno clamorosi. E più o meno costosi. A questa lunga scia da ultimo ha dato il suo contributo l’attuale sindaco De Magistris. Che ha scelto, dopo aver sostanzialmente portato la società di gestione al fallimento, di trasformare Bagnoli in un terreno di scontro ideologico con il Presidente del Consiglio. Scontro frontale e irriducibile, che trasforma in simboli tutto ciò che tocca, e che così facendo rifiuta di fatto l’unico terreno sul quale ci si attende da un’amministrazione che operi: quello concreto, realistico ed effettivo della trasformazione urbana della città. Anche l’idea che ci sia qui un governo nazionale che scavalca bellamente i poteri locali funziona forse ai fini di una certa retorica democraticistica radicale, ma mostra ormai la corda, perché l’unica cosa che c’è da scavalcare è l’inazione di questi anni. Nella città più giovane d’Italia, c’è un’intera generazione che non ha mai visto Bagnoli com’era prima – prima di essere abbandonata, prima che i poteri pubblici smarrissero il filo nei meandri di un’endemica litigiosità: a questa generazione bisognerebbe solo spiegare ora che cosa se ne vuol fare. Cosa si vuole fare perché Bagnoli torni ad essere un luogo vivo, capace di generare lavoro, innovazione, ricchezza.

Tutto il resto sono chiacchiere. Non capire che si tratta di reinventare Napoli e il suo futuro, significa mancare l’unica rivoluzione che vale la pena di fare.

(Il Mattino, 6 aprile 2016)

Cosentino, se la giustizia getta le chiavi

33770279-un-concetto-di-immagine-di-un-corridoio-misterioso-in-una-prigione-a-celle-di-un-carcere-notte-mostrNicola Cosentino è colpevole. È meglio, molto meglio che lo sia. Che le accuse che gli sono state mosse siano tutte fondate, tutte vere, tutte irrefutabili. Perché la sua custodia cautelare, che dura ininterrottamente da due anni, trova difficilmente spiegazione in principi di giustizia. E mettere qualche data aiuta forse a capirlo.

La prima richiesta di custodia cautelare, per l’ipotesi di reato più grave, il concorso esterno in associazione camorristica, risale al 2009: sette anni fa. In quella richiesta sono contestati fatti che risalgono a prima del 2004: dodici anni fa. La seconda richiesta è del 2011: cinque anni fa. La condotta contestata risale al 2007: nove anni fa.Nel 2013 si pronuncia la Cassazione sulla sussistenza delle condizioni che giustificano la custodia cautelare: Cosentino viene rimesso in libertà. Ma il 3 aprile di due anni fa arriva il terzo provvedimento, questa volta per fatti risalenti a quattordici (quattordici) anni fa. L’ultimo atto è più recente. Prima la Cassazione, a seguito di un ricorso della procura, rimette in piedi le misure cautelari già comminate; poi, lo scorso anno, arriva un’ulteriore provvedimento di custodia cautelare (e fanno quattro) per comportamenti corruttivi che Cosentino avrebbe tenuto nel carcere di Secondigliano. Da quel carcere Cosentino viene dunque trasferito a Terni. E siamo all’epilogo: a marzo la prima misura (quella relativa al concorso esterno) è stata convertita in arresti domiciliari, e così anche la seconda, che peraltro scadeva a metà di questo mese. Ma ne restano altre due e così Cosentino è ancora dentro, mentre i relativi processi sono lontani da qualunque conclusione.

Ora. Se Cosentino è colpevole, come tutti o quasi si augurano per dare una parvenza di giustificazione a questo calvario, allora la custodia cautelare sarà stata una sorta di gravoso acconto, una specie di versamento anticipato a parziale pagamento del debito con la giustizia. Si faranno due conti e si vedrà quanto ancora gli resterà da scontare. Ma se è innocente che si fa? In che maniera si mette riparo a una vicenda simile? In nessuna maniera. Non c’è risarcimento possibile per due anni e più passati in carcere senza colpa alcuna.

Proprio perché nel nostro Paese si finisce troppo facilmente in carcere in attesa di giudizio, Il Parlamento italiano ha meritoriamente approvato, lo scorso anno, una riforma della custodia cautelare che prova a dare un giro di vite, a ridurre la discrezionalità dei magistrati, a fissare insomma criteri più stringenti. In particolare, sta ora scritto che il pericolo per sventare il quale si ricorre alla carcerazione preventiva deve essere «concreto e attuale». Ma c’è la legge e poi c’è l’applicazione della legge. E basta avere una concezione molto estesa dell’attualità per ficcarci dentro ancora e ancora il caso di Nicola Cosentino, a cui pure si contestano fatti assai lontani nel tempo.

È più probabile però che in gioco non sia l’attualità del pericolo, ma il profilo personologico – come lo chiamano i giusperiti – e cioè, in definitiva,il fatto che si tratta per l’appunto di Cosentino Nicola, di cui tutti sanno (ma tutti chi?) di che lagrime grondi e di che sangue il suo potere. Il legislatore ha in realtà voluto rimediare, con la riforma, a quello che troppo spesso accade, che cioè le misure preventive vengano adottate quasi automaticamente, come se la gravità del titolo di reato per cui si procede le giustificasse comunque. Ma qui siamo oltre; qui la gravità sta evidentemente nel fatto stesso di essere Nicola Cosentino. È grave, insomma, che uno come Cosentino stia fuori, a piede libero: da qualche parte, in qualche ufficio, bisogna che qualcuno la pensi così. E che nutra simili pensieri con una certezza della sua colpevolezza tale, che non può certo preoccuparsi di attendere le risultanze processuali. Quelle seguiranno (se mai seguiranno).

Ho detto prima che tutti si augurano che l’influente uomo politico campano, il potente ex sottosegretario all’economia, il ras di Forza Italia, l’amico di Berlusconi sia colpevole, gravemente colpevole, e che bene gli faccia marcire in galera. Io però spero che sia innocente: spero fortemente che sia innocente. Non per lui, e non per simpatia o senso di umanità, ma perché se un giorno dovesse essere giudicato colpevole lo scandalo dell’abuso della carcerazione preventiva spiccherebbe di meno. Qualcuno potrebbe dire: avete visto? Abbiamo fatto bene! E invece no. In nessun caso s’è fatto bene. In nessun caso scontare la pena prima della condanna risponde a giustizia. Ma viene sempre più difficile spiegarlo, monta sempre più la tentazione di andare per le vie spicce, la voglia di sbattere qualcuno in carcere per poi vedere come fare per provarne la colpevolezza. E così si fa sempre maggiore fatica a sostenere il contrario. A dire: colpevoli o no, non si può star dentro per due anni filati senza uno straccio di sentenza. Colpevole o no, Cosentino non può sopportare una detenzione così lunga, in attesa di un processo.

Si fa fatica a dirlo, ma bisogna dirlo e ripeterlo. E per mandare qualche boccone di traverso a qualcuno, sperare pure che Cosentino sia innocente, e che il suo caso aiuti la magistratura e l’opinione pubblica a riflettere un po’ di più sull’uso e l’abuso della custodia cautelare.

(Il Mattino, 4 aprile 2016)