Come Mosè, Casaleggio se ne va prima di raggiungere la terra promessa, prima di veder realizzata l’utopia tecnologica della democrazia diretta (e magari, nel frattempo, vedere conquistata la Capitale).
Nell’ultima intervista alla Stampa, del novembre scorso, Casaleggio sosteneva che il M5S non ha leader, che l’unico leader è il Movimento stesso, ma ovviamente sapeva che non è così, e non può essere così. In nessuna organizzazione politica al mondo, men che meno in quelle che si vogliono rivoluzionarie. Sapeva Casaleggio che le decisioni fondamentali le prendevano lui e Grillo, e che dalle candidature alle espulsioni, dalla gestione dei gruppi parlamentari alla formazione del Direttorio, tutto passava per le mani sue e del suo amico Beppe. Sicché, insieme al dolore per la perdita di un uomo che ha sicuramente cambiato le regole politiche del Paese, nelle file dei Cinquestelle serpeggia inevitabilmente la domanda: e adesso? Adesso che Casaleggio non c’è più, a chi tocca? Anche Beppe Grillo aveva detto tempo fa di essere «un po’ stanchino», dichiarazione che anticipava la presentazione di un nuovo simbolo senza il nome del fondatore, e frontman, del Movimento, e apriva quasi ufficialmente la lotta per la successione. «Quasi», perché la retorica della trasparenza, dello streaming e dell’«uno vale uno» impedisce di metterla nero su bianco, e provoca anzi, per inevitabile contrappasso, un soprassalto, persino un’ossessione di segretezza.
Ma, a meno che non si faccia avanti il figlio di Casaleggio, Davide, tutto porta a pensare che saranno Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista a contendersi la leadership del Movimento. O forse a condividerla, finché una coabitazione sarà possibile, e le ambizioni e la linea politica dell’uno non cozzeranno con quella dell’altro.
Perché ambizione i due ne hanno da vendere, com’è naturale che sia. Chi non ne avrebbe, dopo aver compiuto il grande balzo in avanti delle scorse elezioni politiche? Luigi Di Maio è arrivato alla vice-Presidenza della Camera dei Deputati. Ha dato un tono istituzionale ai suoi interventi pubblici, che possono voler dire una maggiore disponibilità alla mediazione e al compromesso, ma possono anche significare un più duro esercizio del potere. Di Battista invece incarna l’ala più movimentista e idealista del grillismo, ed ha un capitale di simpatia che l’altro non riesce a conquistare. L’uno e l’altro interpretano il disgustoper la politica tradizionale, fatta sinonimo di ruberie e malversazioni, ma lo fanno in due modi diversi. L’uno con l’aria impettita del primo della classe, che perciò denuncia più volentieri l’incompetenza di quelli che ci governano; l’altro con quella dell’ultimo della classe, che dei professori contesta anzitutto l’autorità. A volere usare la storia per costruire qualche paragone iperbolico, Di Battista rappresenta, nella linea di successione al fondatore, la corrente calda, la via trotzkijsta della rivoluzione permanente; Di Maio, invece,la corrente fredda, lo sbocco staliniano. La normalizzazione.
Ma l’uno e l’altro sono confortati dai sondaggi. Che non mostrano segni di cedimento: la possibilità che i Cinquestelle arrivino a Palazzo Chigi, a dar retta ai numeri di queste settimane, rimane concreta. Molto ancora può cambiare, di qui alle elezioni politiche. Ma il fatto che un quarto dell’elettorato rimane stabilmente ancorato alle posizioni grilline dimostra che l’intuizione di Grillo e Casaleggio lascerà dei tratti permanenti nella vita politica del Paese. Perché le tradizioni ideali nazionali non tengono più, perché il mix di tecnologia e ecologismo, di futuro avveniristico e richiamo alla grande madre terra esercita un indubbio fascino, con il progressivo esaurirsi delle sintesi storico-politiche. Perché infine la costruzione di una cittadinanza fondata non sull’esercizio del potere ma sul suo rifiuto rappresenta una tentazione reale. Anzi: tanto più reale, quanto più si accorcia il raggio, la forza e il senso della decisione politica. Un movimento di esodo dalla politica, dunque, dalle sue contraddizioni e dalle sue brutture. Non a caso, nei suoi saggi insieme ironici e apocalittici, Casaleggio collocava il mondo che verrà dopo fratture epocali, guerre e altri cataclismi naturali. Perché non ai grillini tocca dire come arrivare fin lì. Accadrà. Loro sono quelli che vengono dopo, che erediteranno il mondo quando tutto sarà finito. E non è la prima volta che al profeta che indica la via non è dato, purtroppo, di raggiungere la meta.
(Il Mattino, 13 aprile 2016)