Previsioni rispettate: niente quorum, niente abrogazione. La legge rimane così com’è. E due lezioni si possono tirare da questa sfida referendaria. Una, la più evidente, riguarda la vittoria dell’astensionismo. E siccome Renzi aveva sposato in maniera del tutto esplicita il partito del non voto, la vittoria di Renzi. O forse meglio la sconfitta dei suoi avversari, Michele Emiliano in testa. Che ovviamente ha subito preso a dire che, nelle urne, si è formato «il più grande gruppo europeo per un nuovo modello industriale/energetico», ma lo dice per mantenere il ruolo di sfidante di Renzi, non certo perché gli bastava inventarsi il grande gruppo, quorum o non quorum.
D’altra parte, la prima delle partite del 2016 era obiettivamente la più difficile: con le amministrative di primavera e il referendum costituzionale in autunno, la leadership di Matteo Renzi sarà senz’altro messa a più dura prova. E però Emiliano – e l’arcipelago della sinistra-sinistra, e l’ecologismo fondamentalista grillino – ci avevano sperato. E pure a destra s’era fatta sentire qualche voce, con il medesimo obiettivo di fare uno sgambetto al Presidente del Consiglio. Non è andata così, e in fondo c’era da aspettarselo. Troppe volte gli italiani hanno disertato le urne, nelle ultime occasioni di consultazioni referendarie, per sperare questa volta di invertire il trend.
Emiliano e gli altri confidavano forse nel terreno scelto, quello dell’ambiente, del mare pulito, dell’orizzonte sgombro di trivelle e piattaforme. Confidavano nelle risorse di una coscienza ambientalista che è oggi difficile contraddire apertamente, senza passare per irresponsabili. Come una volta si marciava per la pace nel mondo, così oggi si marcia per l’ambiente e la natura. Sia pure; ma il referendum riguardava, com’è noto, non il mondo intero bensì un aspetto molto particolare della politica energetica del nostro Paese. I promotori, però, hanno voluto che assumesse un significato simbolico, che esprimesse in maniera inequivocabile il rifiuto integrale di un’economia fondata sul petrolio, e il passaggio prossimo venturo a un mondo finalmente «carbon free». Non a caso, si è discusso molto poco dell’unica questione sensata, e di merito, che il quesito sollevava: se cioè sia ragionevole – ragionevole dal punto di vista della razionalità economica, non dal punto di vista dell’ideologia verde – che un paese, che certo non ha grande abbondanza di idrocarburi, rilasci concessioni a tempo indeterminato. Materia troppo tecnica, che avrebbe affossato ulteriormente la partecipazione popolare? Può darsi, ma l’impressione più generale è che in materia di ambiente e sviluppo sostenibile il nostro paese non dia un grande esempio di discussioni di merito, condotte in maniera razionale, con una valutazione attenta di costi e benefici. Crescono i comportamenti ispirati a una corretta educazione ambientale, ed è un bene; ma non cresce affatto, nell’opinione pubblica, una valutazione più matura dei problemi legati all’approvvigionamento energetico e al futuro industriale del Paese. Perciò la specifica materia del contendere è finita nel dimenticatoio, e si è discusso di trivelle sì e di trivelle no come se dall’esito del referendum dipendesse l’ingresso nella nuova era dell’Acquario.
E qui cade la seconda lezione che viene da questo referendum. Perché diciamo la verità: l’astensione rientra certamente tra le possibilità che ha l’elettore, e l’invito all’estensione fa parte anzitutto della libertà di opinione e di propaganda, in prossimità di un voto. Ma rimane un comportamento ispirato da motivazioni tattiche, legate alla possibilità di avere più facilmente ragione dei sostenitori del sì appoggiandosi alla quota fisiologica (a quanto pare in aumento) di coloro che disertano le urne. L’astensione dal voto non è però il voto contrario all’abrogazione: non lo era per i padri costituenti, che vollero il quorum ma respinsero un emendamento che si proponeva l’esplicita equiparazione fra non voto e voto contrario; e non lo è neppure per la Corte costituzionale, che ha in passato ritenuto legittima la riproposizione di un quesito che non aveva superato il quorum. Il che significa che l’astensione non contiene per la suprema Corte l’espressione di una volontà giuridicamente rilevante.
Fuori dalla difficile materia giuridica, questo significa pure un’altra cosa: che a Renzi arride senz’altro la vittoria politica, perché quelli che «Renzi è un usurpatore» a sinistra continuano a prosperare; ma, pur avendo colto una vittoria sonante, egli non l’ha conseguita provando a bucare il pallone ideologico che porta in quota l’ambientalismo del no «senza se e senza ma». Così, dentro quel pallone, continuano a vagolare le nostre teste svagate. E certo non è il massimo, per un Paese che di problemi ambientali ne ha fin sopra i capelli, ma che come ogni Paese serio ha bisogno pure di una vera strategia energetica nazionale. E soprattutto di qualcuno che abbia il coraggio di spiegarla agli italiani.
(Il Mattino, 18 aprile 2016)