Archivi del giorno: aprile 24, 2016

Lo sguardo perplesso del Principino che saluta Obama

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Siccome c’è stata la Dichiarazione di indipendenza, nel 1776, a piegarsi sulle ginocchia per stringere la mano al principe George non è un suddito di sua maestà, ma il Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama. Il quale, dopo otto anni alla Casa Bianca, ha già un book fotografico di tutto rispetto, compresi gli scatti che lo ritraggono disteso sul pavimento dello studio ovale, mentre tiene sollevata una bambina in ghingheri. Gli mancava, però, la foto con George, il rampollo di casa Windsor, terzo nella linea di successione al trono, dopo il nonno Carlo e il padre William. George è in vestaglia, già compreso nel suo ruolo di principe, assai incerto però sui quarti di nobiltà che può vantare quel mezzo keniota di Obama: così lo ha infatti apostrofato il sindaco di Londra, Boris Johnson, al quale proprio non va giù che Obama scoraggi la Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Baby George non sembra, nella foto, pensarla esattamente alla stessa maniera, ma è comunque perplesso e palesemente non capisce come mai il padre e la famiglia e il Regno abbiano una «special relationship» con l’uomo nero.

Del resto, baby George non è nuovo alle smorfie: dopo tutto, è solo un bambino. Ma in rete c’è tutto un filone ispirato al piccolo principe (no, non quello di Antoine Saint-Exupery). George imbronciato che dice: «se neanche stavolta mi regalano la Scozia faccio un macello», oppure George che guarda lontano e alla madre dice: «sento puzza di povero».

L’ironia si basa ogni volta sul serissimo contegno del principino, a cui si presta la capacità di tenere i comuni mortali a distanza regale da lui. E anche quando tra quei mortali c’è l’uomo più potente della terra, l’istituzione monarchica riesce ancora a incarnare, sia pure in forma di parodia, tutto l’aristocratico distacco che un nobile può esercitare nei confronti del popolo. Fuori tempo massimo? Certo, fuori tempo massimo. Anche in Gran Bretagna, dove pure la corona gode di ottima salute (e non solo per i novant’anni di Queen Elizabeth), anche lì sanno bene che i re e le regine sono cose di un altro tempo e di un’altra storia. Però ci sono affezionati e non ci rinunciano. Se tuttavia sorridiamo pure noi, che delle teste coronate non conserviamo un buonissimo ricordo, è perché anche noi, come tutti, sappiamo cogliere il contrasto fra l’età del piccolino ed il suo manto principesco, fra le comuni faccine di un bimbo e i privilegi di Kensington Palace.

E va bene: sorridiamo pure, con tutta la leggerezza del caso. Non si tratta mica di prendere partita fra la vecchia, aristocratica Europa e la giovane, democratica America; fra le forme compassate del vecchio continente e i ritmi decisamente più swing d’oltreoceano; fra l’etichetta dell’antica aristocrazia e la democrazia dei ramponieri americani.

Ma una cosa manca. Manca l’essenza stessa del potere. Che non è né la forza né la violenza. Ha i suoi codici, i suoi segni, i suoi simboli. E questa è una cosa che fa meno ridere. Certo, non si può più esercitare in veste da camera, ma stabilisce comunque un certo dislivello. Noi forse pensiamo che sia una roba sorpassata, o che la superiamo di slancio con un filo d’ironia. In realtà, i principini passano, il potere resta.

(Il Messaggero, 24 aprile 2016)

Il coraggio di avere paura della santa intolleranza

DAVIGO

Due punti, virgolette: «si fa come con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta». Così parlò Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, intervistato ieri dal Corriere della Sera. Ieri, ma poteva essere anche dieci o vent’anni fa. Anzi no, perché oggi è diverso, «oggi la situazione è peggio» che all’epoca di Mani Pulite, del cui pool Davigo fece parte. E tutta l’intervista svolge quest’unico tema, la corruzione della politica, i politici che rubano, i corrotti più forti di prima, i delinquenti in carcere che sono troppo pochi. E infine i governi che, di destra e di sinistra, agiscono sempre allo stesso modo: quando va bene prendono provvedimenti inutili; quando va male favoriscono la corruzione. E tutti, tutti sono senza vergogna, rubano senza vergogna, parlano senza vergogna.

Nel suo santo furore contro la corruzione politica che infesta il nostro Paese, Piercamillo Davigo non si prende nemmeno una volta il tempo di spiegare in cosa consiste il diritto di difesa, oppure la presunzione di innocenza, o la funzione democratico-rappresentativa dei partiti. Non sospetta un uso distorto della custodia cautelare, non conosce comportamenti abusivi del pubblico ministero, respinge la logica della responsabilità civile dei magistrati. E dice almeno un paio di cose di una gravità difficile da sottovalutare.

La prima: alla domanda se davvero avesse detto in passato che «non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti» risponde che, certo, lo ha detto e lo conferma, con riferimento a un certo contesto ambientale, che prova a descrivere. Ma in quale contesto giuridico può mai esser vera un’enormità simile? Dal punto di vista dello stato di diritto, non è mai vero che non esistono innocenti: in nessun contesto, neanche nel più degradato, nel più compromesso, nel più corrotto dei contesti possibili. Neppure tra i trafficanti di droga e gli spacciatori di materiale pedopornografico a cui Davigo paragona con squisita gentilezza i politici: neanche lì la legge può considerare di avere dinanzi solo colpevoli di cui non si sia potuto ancora dimostrare la colpevolezza. C’è solo un contesto in cui questo può accadere, ma non ha a che vedere con la legge e con il diritto, bensì con l’abito mentale dell’inquisitore. Davigo è del resto convinto che «male non fare paura non avere», come ha ricordato ancora di recente. Il che si traduce in due non piccole conseguenze: la prima, che il pubblico ministero è di fatto autorizzato a incutere paura, dal momento che dall’altra parte si spaventerà solo il cittadino disonesto; la seconda, che la vera difesa dell’indagato, o dell’imputato, contro cui preme il martello dell’inquisitore, non è nel diritto, nelle garanzie e nelle regole del processo, bensì solo nella morale e nella onestà personale. Difficile compiere più rapidamente tanti passi indietro dal punto di vista del garantismo penale.

C’è poi l’altra enormità che Davigo si spinge a dire, quando rievoca i fasti di Tangentopoli. Perché traccia il bilancio di quella stagione contando non il numero dei processi o delle condanne, ma quello dei partiti che crollarono sotto i colpo delle inchieste. Li conta: furono cinque, «tra cui quello di maggioranza relativa», cioè la Dc, ma non crollarono tutti. Infatti: «dovemmo interrompere la cura a metà». Anche in questo caso è evidentemente all’opera la stessa antigiuridica presunzione di colpevolezza di prima: i partiti che non crollarono resistettero solo perché i magistrati non arrivarono fino a loro. Ma soprattutto l’attività della magistratura prende in queste parole uno smaccato significato politico. Non è più questione, infatti, di reati da scoprire, ma di partiti da demolire.

Ora, è vero che il vice Presidente del CSM, Legnini, ha preso le distanze dalle parole di Davigo, ma resta la preoccupazione per una magistratura associata che si esprime in questi termini: non per chiedere di discutere questo o quell’aspetto della riforma della giustizia, non per dialogare sui temi in discussione in Parlamento, ma per gettare nel totale discredito l’interlocutore politico con cui pure dovrebbe intrattenere rapporti certo anche ruvidi, se necessario, ma pur sempre di reciproco rispetto.

E invece non c’è una sola parola nell’intervista che lasci pensare che per Davigo la politica italiana sia altra cosa che un grande latrocinio. Così peraltro pensava sant’Agostino dei regni e degli Stati. Ma appunto era un santo a pensarlo, uno che cioè prendeva a metro e misura degli uomini la giustizia di Dio. È possibile accettare che il Presidente dell’Anm nutra la stessa, santa intolleranza?

È questa la cultura giuridica liberale di cui ha bisogno il Paese? Oppure ha davvero ragione Davigo, e allora non si tratta di processi o di garanzie, ma di riattivare il mito fondativo di Mani Pulite, per resettare daccapo la classe politica del Paese? Dalla crisi della politica deve dunque venire la santa Repubblica dei giudici, con i Cinquestelle che, entusiasti delle parole del magistrato, si candidano fin d’ora a guardiani della rivoluzione? C’è di che aver paura. E bisognerà avere pure il coraggio di avere paura, quando qualcuno vi dirà beffardo che hanno paura solo i corrotti.

(Il Mattino, 23 aprile 2016)