Archivi del mese: Maggio 2016

Killer a 16 anni, ma che c’entra Gomorra?

immagine 29 maggio 2016

I bambini di Napoli giocano a Gomorra. Così recita la didascalia del video diffuso ieri dal sito Dagospia, in cui si vedono ragazzini che imitano un agguato camorristico in strada con modalità che ricalcano quelle della serie televisiva. Se è così, forse la questione del valore artistico, culturale o spettacolare di Gomorra può passare in secondo piano. Se i minorenni sparano per finta, e nella stessa giornata di ieri un minorenne finisce in carcere per aver sparato per davvero, crivellando di colpi un ventiduenne solo per motivi di gelosia, una riflessione che vada al di là delle scelte estetiche della squadra di autori e registi del serial si impone.

Il fatto è che però i piani continuano a confondersi. E la legittima preoccupazione per l’immagine di Napoli che la fiction fornisce, e per gli effetti imitativi che suscita, spinge i critici di Gomorra a improvvisarsi sceneggiatori, suggerendo correzioni per i prossimi episodi, o per le serie future. Ci vuole almeno un po’ di bene, che rischiari l’inferno di Gomorra: un personaggio positivo, oppure quella parte di città che resiste al male e crede nella possibilità di riscatto.

Nobili propositi, che però non c’entrano nulla con le esigenze di scrittura e di cinema alle quali un prodotto come Gomorra (e qualunque altro prodotto) si attiene. Non tutto è Gomorra, non credete a Gomorra! Certo, ma nessun’opera artistica è chiamata a rappresentare «tutto». Né è più vera e più riuscita se rappresenta codesto «tutto». Anzi: il tutto proprio non esiste. Esistono di volta in volta prospettive sempre diverse, e non è certo responsabilità dell’una se le altre non raggiungono – nel campo delle arti visive come in qualunque altro campo – risultati degni di nota (o di pubblico).

Ma soprattutto: prendersela con Gomorra perché fornisce cattivi esempi agli scugnizzi napoletani è scambiare il dito con la luna. A quei ragazzi vanno se mai forniti gli strumenti per distinguere la realtà dalla sua rappresentazione, e per giudicare l’una e l’altra secondo i criteri rispettivi. Ed è Napoli che deve offrire di sé l’immagine di una città «recuperabile»: non Gomorra di Napoli. E a pensarci: forse Napoli sarebbe bene che offrisse qualcosa di più di un’immagine.

La prova, peraltro, che quei ragazzi in strada non si sarebbero mai sognati di giocare ai camorristi, se non avessero visto Gomorra, non c’è, e dubito molto che ci possa essere. E infine: posto pure che Gomorra faccia su di loro molta più presa di altri programmi televisivi, sarà per la debolezza del contesto sociale e culturale in cui vivono, molto più che per la forza persuasiva delle storie di camorra del clan Savastano.

Ma liberata la serie Gomorra dalle responsabilità che devono invece portare altri attori – la classe dirigente politica, sociale ed economica della città e del paese, per dirla tutta d’un fiato – si può provare a compiere anche l’operazione inversa, a liberare la realtà dai simboli di Gomorra? Proviamoci: con tutta la prudenza necessaria.

Allora: cominciamo col premettere che il senatore D’Anna ha fatto affermazioni difficilmente difendibili, e sicuramente sgradevoli, quando ha sostenuto che bisognerebbe togliere la scorta a Saviano. Ha pure rincarato la dose, accusandolo in pratica di lucrare sulla camorra: insistendo sui lauti guadagni dello scrittore, e sulla comoda vita che farebbe a New York mentre gli agenti di polizia mangiano la polvere in strada a milleduecento euro al mese. Fra il ministero dell’Interno, che ritiene che la scorta ci vuole, e il senatore D’Anna, per il quale invece non ci vuole, viene difficile non credere al Ministero dell’Interno. E lo stesso senatore del gruppo Ala farebbe bene a dare più fiducia all’autorità di pubblica sicurezza, scegliendo meglio il bersaglio della sua polemica.

Che io dunque, se fossi D’Anna, riformulerei nel modo seguente: mi hanno affibbiato la patente di camorrista, o di amico dei camorristi. Non ho condanne sulle spalle, ma non posso scrollarmi di dosso quella patente, che è ben più di una critica politica: è un marchio infamante. E non posso, perché quella patente viene da molto in alto, da un’autorità morale indiscutibile. Ma questo è il punto: ci possono essere simili autorità, in democrazia? Possiamo mettere nelle mani di qualcuno – chiunque egli sia: viva a New York o a Casalpusterlengo cambia poco – il potere di rilasciare simili patenti? D’Anna ce l’ha con Saviano, quasi per fatto personale. Ma il problema è molto più generale, e riguarda l’ingombro alla libera discussione rappresentato a volte da simboli, icone e nobili paladini, che si esercitano per giunta su un terreno delicatissimo e scivolosissimo, quello della giustizia, al quale è legata per molte ragioni la salute di una democrazia. Non dipende da loro: nessuno sceglie di diventare un eroe civile, ed è abbastanza meschino fargli pure i conti in tasca. Resta però il fatto che è pericoloso strozzare il dibattito con censure e veti come quelli che talvolta Saviano esprime. È sgradevole anche la sensazione che non il merito della polemica, ma il fatto stesso di polemizzare con qualcuno rappresenti un motivo di biasimo sociale o, peggio, di sospetto morale. Il fatto è che il credito personale – o il bene reputazionale: si chiama così – sta oggi pure quello sul mercato. Come si formi, si venda e si compri è un’altra storia; ma come su altri mercati, così anche in questo non è mai augurabile la formazione di monopoli. I monopoli sono sempre pericolosi, per la democrazia.

(Il Mattino, 29 maggio 2016)

L’emergenza che frantuma gli ideali

Mare

Lo scorso anno l’Europa ha adottato un’agenda europea sulla migrazione in cui ha formulato le azioni prioritarie da attuarsi per far fronte l’emergenza. L’emergenza è la seguente: nel corso dell’intero 2014 sono giunti in Europa 282.500 migranti. Nel 2015 hanno tentato di attraversare in maniera irregolare le frontiere esterne dell’Unione Europea 1,83 milioni di persone. Di queste, secondo l’Unicef, il 20% (in lettere: il venti per cento) sono bambini. I numeri si leggono nella articolatissima risoluzione adottata l’aprile scorso dal Parlamento europeo. La quale risoluzione prosegue: menzionando i doveri di solidarietà iscritti nei trattati dell’Unione; ricordando che salvare vite in mare non è solo un dovere morale ma è anche un obbligo giuridico di diritto internazionale; formulando una serie di considerazioni sullo sviluppo di vie sicure e legali per l’accesso dei richiedenti asilo e dei rifugiati. C’è anche dell’altro, nella risoluzione: ci sono i rimpatri, i ricongiungimenti, la tutela dei minori. C’è l’auspicio di un approccio globale alla migrazione, volta a smantellare le reti criminali nella tratta e nel traffico illegale di persone; c’è il richiamo alle decisioni di ricollocazione dei migranti nello spazio interno dell’Unione assunte dal Consiglio europeo per far fronte all’emergenza, con particolare riguardo alla posizione particolarmente esposta in cui si trovano, per motivi geografici, l’Italia e la Grecia; c’è il sostegno operativo ai due paesi del versante meridionale dell’Unione per l’allestimento dei punti di crisi (gli «hotspot»); c’è l’invito a rivedere il regolamento di Dublino che stabilisce sì i criteri per la determinazione dello Stato europeo competente all’esame della domanda di protezione internazionale, e alla concessione dell’asilo, ma che non era stato concepito per affrontare il problema della ripartizione delle responsabilità fra tutti gli Stati dell’Unione. C’è praticamente tutto: c’è il diritto internazionale ma pure quello penale, c’è la cooperazione coi Paesi terzi, di origine e di transito dei migranti, e ci sono  le cause profonde, di carattere geopolitico, che impongono l’azione diplomatica, il coinvolgimento degli organismi internazionali, risorse finanziarie per contribuire a ricostruire i paesi in situazioni di «guerra, povertà, corruzione, fame e mancanza di opportunità». C’è, infine, persino la sottolineatura che il mantenimento dello spazio Schengen – l’Europa senza frontiere interne – è subordinato alla gestione efficace delle frontiere esterne dell’Unione, e non è quindi una cosa che possa essere data per scontata. Anche se subito dopo è espressa la preoccupazione che la chiusura temporaneo di frontiere interne da parte di alcuni Stati membri rischia di mettere in pericolo una delle maggiori conquiste dell’integrazione europea. Insomma: c’è il GAMM, l’Approccio Globale per la Migrazione e la Mobilità, e tutto quello che sta dentro il GAMM.

Dopodiché, essendoci tutto questo, ci sono i sindaci. I sindaci delle città italiane, piccole e grandi, che in buon numero sono pure in campagna elettorale, e a cui riesce difficile partecipare a una gara di solidarietà che temono abbia per loro un costo in termini di consenso. È forse miope – senza forse: lo è senz’altro – avere una così corta vista e ragionare su come affrontare un problema epocale, di così ampie proporzioni, in considerazione del prossimo 5 giugno. Ma di simili miopie, e di egoismi e di paure, insicurezze – a volte legittime, altre volte no –, di interessi poco lungimiranti e pure però di difficoltà obiettive, legate a mancanza di strutture, di mezzi, di disponibilità finanziarie, anche di tutte queste cose è fatto lo spazio Schengen. Cose che, peraltro, non se ne andranno con il 5 di giugno. Allora: deve sicuramente crescere in tutti il livello di consapevolezza della sfida, altrimenti non ce la si fa. Ma deve compiere uno straordinario salto di qualità pure la risposta organizzativa: la risposta pratica, concreta, operativa. Perché i barconi continuano a prendere il mare. Oltre la linea dell’orizzonte che noi vediamo da qui si continua a combattere, e a morire.  Facciamo allora che le affermazioni di diritto non si risolvano in petizioni di principio. E che fra le risoluzioni in dozzine di pagine del Parlamento e l’assessore del comune che deve trovare dalla sera alla mattina strutture di accoglienze idonee, qualcosa ci sia, che leghi piccoli interessi e grandi ideali, e il breve e il lungo periodo, e le paure di perdere tutto e la prospettiva di costruire invece qualcosa. Quella cosa c’era, si chiamava politica. Sarebbe bello dimostrare che serve ancora.

(Il Mattino, 27 maggio 2016)

Camorriste vere e finte, i modelli di «Scianèl»

camorriste 1

Nel canale «Crime+Investigation», sulla piattaforma Sky, c’è spazio anche per le storie di camorra. Da stasera vanno infatti in onda tre puntata di una mini-serie, «Camorriste»: «uno sguardo senza precedenti sulla vita di alcune donne che hanno fatto parte della camorra». Donne che non vivono all’ombra dei loro uomini, ma che assumono posizioni di responsabilità all’interno dei clan. Donne che sparano, donne che tradiscono o sono tradite, che scontano in carcere la loro pena fino in fondo o che collaborano con la giustizia, rompendo tutti i legami con il mondo di origine.

«Crime+Investigation» è un canale dedicato interamente al «real crime», cioè a crimini realmente verificatisi. Ci sono i criminali seriali, le violenze domestiche, i rapimenti, i casi irrisolti: tutta la cronaca nera che un tempo appassionava i lettori di rotocalchi viene oggi riversata in tv, a uso dello spettatore che conosce già il formato tipico dei canali tematici dedicati alla storia, oppure allo sport, o all’arte. Solo che al posto del grande atleta, o del personaggio storico, del museo o di qualche altra attrazione ci sono tre camorriste, che raccontano «per la prima volta, senza intermediari» la loro vita all’interno dei clan. La novità sta appunto nel fatto che si tratta di donne: siccome nell’immaginario collettivo la delinquenza è ancora soltanto maschile, far parlare le camorriste significa mostrare uno spaccato abbastanza inedito di quel mondo. Ma, quanto alla forma, la serie segue il canone imperante: voce off, testimonianze dei protagonisti, riprese documentaristiche di ambienti e luoghi, e infine ricostruzioni attoriali per la drammatizzazione della cronaca.

È interessante tuttavia che, nella presentazione del nuovo programma, si faccia notare che compaiono tra gli intervistati anche magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine. «Camorriste», ci viene assicurato, «sottolinea anche gli sforzi compiuti e i successi ottenuti dallo Stato per contrastare la criminalità organizzata». Ora, da dove viene questa sottolineatura, se non dal confronto con «Gomorra-la serie»?

In realtà, il confronto è abbastanza improponibile. E non certo perché in questa mini-serie c’è spazio anche per i buoni, mentre nel racconto di «Gomorra» gli autori li hanno deliberatamente tenuti fuori. Ma perché, tanto per cominciare, «Camorriste» non è nemmeno una serie in senso stretto, se per serie s’intende non un seguito di episodi finiti e conclusi, che cominciano e finiscono ad ogni appuntamento, ma un’unica narrazione che si snoda di puntata in puntata, aprendo alcune porte e chiudendone altre, in uno sviluppo che rimane però unico e unitario.

Quel che «Gomorra» e «Camorriste» hanno in comune è solo la materia criminale. Ad onta però del fatto che «Camorriste» racconta storie vere – anzi: proprio per questo motivo – non ha bisogno di produrre un effetto di realtà. Sembra un paradosso ma non lo è: «Gomorra-la serie» è dichiaratamente fiction, costruita secondo i canoni dello spettacolo televisivo, nelle riprese, negli effetti sonori, nelle musiche. Proprio perciò deve essere pignola nei dettagli, maniacale nelle ricostruzioni, e offrire in ogni inquadratura una densità di significato che invece le immagini più slabbrate di «Camorriste» non posseggono. Si tratta, infatti, in questo secondo caso, di circostanze e storie vere, e dunque: dalla recitazione al materiale di scena, dall’uso della lingua alle luci, tutto può essere un po’ più inaccurato.

Lo stesso si dica dei personaggi: quelli di «Gomorra-la serie» sono finti, dunque devono assolutamente essere credibili. Le donne di «Camorriste» invece sono donne vere, e dunque possono fare a meno di convincere ed avvincere. Sono proprio loro, con i loro nomi e cognomi, anche se non sempre possono essere mostrate in volto (alcune sono sotto protezione) e devono nelle riprese farsi sostituire da attori. Il che, evidentemente, rende per principio poco credibile e per niente spettacolare la scena interpretata.

Dopodiché ci si può domandare che cosa dia a conoscere meglio il fenomeno camorristico, se una serie spettacolare come «Gomorra», oppure una produzione documentaria come «Camorriste». Se funzioni di più la sceneggiatura realistica o la realtà sceneggiata. Donna Imma, la moglie del boss Savastano, o Cristina Pinto, la guardia armata del capoclan Pennella? Scianèl, che comanda una piazza di spaccio, o Anna Carrino, sposa di uno dei Casalesi? È, in fondo, una domanda che si poneva già Aristotele, nella sua Poetica, quando confrontava la poesia e la storia. E dichiarava di preferire la poesia, più vera perché più universale della storia, essendo quest’ultima legata ai casi particolari. Ora, Aristotele nulla sapeva di camorra, ma forse tutti i torti non li aveva.

(Il Mattino, 24 maggio 2016)

 

Sotto quella bandana un bilancio da nascondere

partito-dellarte-

Un uomo solo al comando: a quindici giorni dal voto, i sondaggi danno in vantaggio il sindaco uscente, Luigi De Magistris. A distanza tutti gli altri candidati. Così d’altronde è iniziata questa campagna elettorale, e così probabilmente continuerà: con De Magistris avanti e gli altri a inseguire.

Sull’entità del distacco fra il primo cittadino e tutti gli altri si deve essere tuttavia molto più prudenti, perché i sondaggi premiano la popolarità di Giggino, ma non registrano con altrettanta efficacia peso e composizione delle liste, che invece in questa sfida amministrativa contano eccome. Non che De Magistris non vi abbia pensato: se infatti cinque anni fa si presentò con quattro liste a sostegno, questa volta invece le liste sono salite a quattordici (salvo perderne quattro per irregolarità formali). Più che indicare una crescita del consenso, il dato segnala però la necessità di raccogliere voti attraverso il rapporto personale dei candidati col territorio, rinforzando possibilmente la squadra anche con transfughi di altri schieramenti. C’è molto poco di cultura politica e di partito, in questi processi, ma tant’è: tutti vi si sono adeguati, e al giudizio degli elettori si presentano in centinaia. Con De Magistris, ma pure con Lettieri e Valente. Fanno eccezione i grillini, il cui consenso segue altre, più collettive strade, come accade a tutti i movimenti politici nelle fasi iniziali.

Lo stesso ragionamento vale ovviamente per le elezioni circoscrizionali: anche in quel caso ci sarà sicuramente un effetto di trascinamento delle truppe di complemento sulla sfida principale, per l’elezione diretta del sindaco. Sotto quest’aspetto, dunque, i principali contendenti, e schieramenti, si somigliano parecchio.

Se questo è vero, allora la partita è molto più equilibrata di quanto i sondaggi non lascino pensare.

Ma non è l’unica considerazione che convenga fare. Il modo in cui De Magistris sta conducendo la campagna elettorale – toni forti e appassionati, per dirla eufemisticamente, e un nemico individuato non nei suoi avversari politici, ma a Palazzo Chigi –  indica la direzione che intende intraprendere, dopo il voto. E l’ambizione che lo spinge. Su questo giornale, Isaia Sales e Francesco Durante si sono soffermati, nei giorni scorsi, sui motivi del consenso di cui attualmente il Sindaco gode. È interessante che nelle loro analisi non stia in primo piano la qualità dell’azione amministrativa espressa. Quando Luigi De Magistris vinse, scassando tutto, si presentò con due tratti precisi, anche se uno soltanto si impose davvero: da una parte, il magistrato divenuto famoso per le inchieste sulla politica che lotta contro i poteri forti e spazza via il malaffare dei vecchi partiti; dall’altra, un recupero di efficienza amministrativa, di trasparenza, rigore e serietà. A consuntivo, il primo De Magistris si vede, il secondo risulta non pervenuto: qualcosa vorrà pur dire.

Per avere una solida pietra di paragone: Pierò Fassino – anche lui, come il sindaco partenopeo, in cerca di riconferma nella sua città – sta chiedendo voti in nome dei risultati ottenuti a Torino da lui e dalla sua giunta. Parla di bilancio, di investimenti, di quartieri risanati; De Magistris no: nulla di tutto questo. De Magistris ci mette il cuore e manda a cagare. E il risultato principale di cui ,e a vanto è la derenzizzazione, come se fosse un merito tenere Napoli fuori da qualunque circuito istituzionale.  Così, quel che lascia intravedere ha molto di più i lineamenti del suo personale futuro politico che quelli di un progetto di città. Napoli liberata da Renzi cosa mai farà, il giorno dopo il voto? Non si sa.

Il fatto è che lo spazio politico a sinistra, per il capopopolo del Vomero, c’è, mentre mancano altri attori credibili sul piano nazionale. La sinistra italiana di D’Attore e Fassina, del resto, è già alle prese con diatribe interne, e Il sindaco di Napoli sogna di usare la tribuna della terza città d’Italia per arrivare in Parlamento da pifferaio di tutte le opposizioni al premier.

Già, perché in un simile calcolo entra anche l’ipotesi che al voto si torni prima del previsto. Ma anche se si dovesse arrivare al 2018, De Magistris dovrà portare pazienza per un paio d’anni al massimo, con le scartoffie e le beghe amministrative negli uffici: poi, se ne potrà andare a recitare la sua parte di rivoluzionario parolaio su ben altri palcoscenici.

E forse è proprio questo retro-pensiero che spiega l’atteggiamento di Antonio Bassolino, che ha deciso di assegnarsi la parte del vincitore morale delle elezioni, anche se ha perso le primarie. Ovviamente, la politica non contempla una simile categoria di vincitori e non prevede simili copioni (posto che l’ex sindaco abbia titoli per interpretarlo). Così è più probabile che dietro le continue stilettate che infligge a quello che fu (è?, sarà?) il suo partito, c’è un cattivo augurio per i democratici: che se non fossero capaci di arrivare al ballottaggio e di sfidare il sindaco uscente, dovrebbero cedergli nuovamente il passo. Così probabilmente pensa Bassolino. Che evidentemente ignora come i vincitori morali altro non conseguano, in politica, che vittorie di Pirro.

(il Mattino, 22 maggio 2016)

Omelie noiose, preti a lezione di marketing

brigitte niedermair, the last supper 2005 copia

Prima lettura, salmo responsoriale, seconda lettura, Vangelo. Poi tutti seduti, e microfono al prete: c’è l’omelia. E quando si arriva all’omelia, i fedeli si mettono comodi, si aggiustano sopra la panca, tirano su col fazzoletto oppure si voltano verso il fondo della Chiesa per dare un’occhiata agli ultimi arrivati, e si dispongono pazientemente ad ascoltare. Ci vuole pazienza, in effetti, e non solo perché immancabilmente la predica verrà lunga, ma perché il più delle volte il prete l’omelia non la sa fare. Certo, se sono fortunati, se cioè il prete ha seguito un corso di introduzione all’omiletica cristiana, ai fedeli riuniti può andar bene. Ma è raro. Il più delle volte sono lontani ricordi di seminario, e di tutta la straordinaria tradizione della retorica cristiana – passata dai primi Padri della Chiesa ai grandi predicatori medievali, dalla riforma cattolica del Seicento ai nuovi ordini religiosi fino alle pastorali morali e sociali degli ultimi due secoli – di tutto questo deposito immenso di parole è rimasto davvero pochino. E quel che è rimasto sembra a volte inservibile.

Così l’Ufficio liturgico nazionale, in collaborazione con quello Catechistico e con l’Ufficio per le Comunicazioni sociali, ha deciso di avviare una roba che ha chiamato «ProgettOmelia». Un progetto che a spiegarlo in parole povere suona così: i preti devono imparare nuovamente a fare le omelie, cercando possibilmente di farle meno noiose., meno verbose, meno stantie. Ma se a spiegare il progetto è il suo coordinatore, don Paolo Tomais, docente di liturgia alla Facoltà teologica di Torino e direttore dell’Ufficio liturgico dell’arcidiocesi subalpina, allora ecco di cosa si tratta: «Una delle sfide è come fare tesoro di alcune delle intuizioni del public speeching, del parlare in pubblico, proprie della comunicazione più orientata al marketing – commenta don Tomatis – senza assumerne l’idea di fondo, cioè ricercare un’efficacia da venditori d’asta».

Avete letto bene: don Tomatis mette insieme, uno dopo l’altro, il public speeching e il marketing, mentre sta parlando della parola del prete dopo la lettura del Vangelo «che cancella i nostri peccati», e la cosa – ammettiamolo – fa sobbalzare un poco. Suona moderno, molto moderno, aggiornato e innovativo: ma si sobbalza lo stesso. Ovviamente don Tomatis sa bene, e precisa subito, che non si tratta di vendere un prodotto: non si tratta di convincere il cliente o di fedelizzare il consumatore. Ma fa lo stesso impressione che vi siano tecniche moderne di comunicazione che i predicatori cristiani, quelli che dai pulpiti delle nostre Chiese hanno predicato per secoli, debbono imparare alla scuola dei pubblicitari. Così va il mondo.

Così va da un centinaio di anni almeno, a dar retta a Marc Fumaroli, critico d’arte tra i più illustri di Francia, uomo coltissimo e magnificamente reazionario, il quale non si capacità di quale straordinaria catastrofe si sia prodotto nel secolo scorso, a proposito di retorica e di un’intera tradizione di immagini, finita improvvisamente al macero. Se si vuole una data, Fumaroli ve la dà: è il 1913, l’anno in cui Marcel Duchamp sbarca a New York, e lì, all’Armory Show, sulla Lexington Avenue, vi espone, tra le reazioni sconcertate del pubblico, il suo «Nudo che scende le scale», mezzo futurista e mezzo cubista. È l’inizio di quella rivoluzione modernista di cui Fumaroli denuncia anzitutto il carattere furiosamente iconoclasta. Tutti i luoghi comuni della tradizione fatti fuori: uno per uno. In poco tempo, ondata avanguardista dopo ondata avanguardista, della iconografia classica e cristiana non resta quasi nulla. Il risultato, dopo qualche decennio di surrealismo, concettualismo, minimalismo, art brut, arte informale e arte povera è la prepotente affermazione dell’arte come marketing. È, insomma, Andy Warhol, l’icona della pop art, che dichiara serafico: «Far soldi è un’arte, e fare buoni affari è la miglior forma d’arte!». Siamo, cioè, all’artista che va a scuola di marketing, e ora – evidentemente – al parroco come suo diligente compagno di banco.

Fa bene don Tomatis? Fa bene (credo). Noi abbiamo orecchie e occhi pieni di un mondo molto diverso da quello che veniva illustrato sui muri delle chiese di una volta. Abbiamo abitudini di consumo culturale molto più ricche e varie di quelle che avevano i nostri genitori e nonni. Abbiamo soglie di attenzioni diverse, fraseologie diverse nella testa, e pure prossemiche diverse. Non tenerne conto, è rimanere al di qua della soglia del mondo contemporaneo. Se scompaiono le cattedre di retorica e stilistica al loro posto fioriscono gli insegnamenti di tecniche di comunicazione, anche la Chiesa deve tenerne conto. E siccome la forza dello Spirito è grande quanto la sua estrinsecazione (lo diceva Hegel, uno che ne capiva), bisogna che lo Spirito si estrinsechi per bene, altrimenti perde tutta la sua forza. Però accendiamo una spia. O almeno l’accenda don Tomatis. In fondo a questa strada c’è pure l’idea che bisogna dare al pubblico quel che il pubblico vuole, per piacergli. E siccome tutta la retorica cristiana si fondava sulla follia della Croce, che è scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, qualche segno di contraddizione, di difficile digestione, occorrerà pure che rimanga nella parola di questi parroci del terzo millennio. O no?

(il Mattino, 21 maggio 2016)

86 anni con la rosa nel pugno

Pannella

Pannella, il divorzio, l’aborto. Ma nella lunga vita di Giacinto Pannella detto Marco c’è molto di più. Non c’è solo una fotografia in bianco e nero scattata negli anni Settanta, la grande stagione dei diritti civili, ma ci sono anche la campagna contro la fame nel mondo, e i referendum contro il finanziamento pubblico dei partiti. Ci sono le battaglie sui temi della giustizia: contro la legislazione emergenziale, per la responsabilità civile dei giudici, contro la carcerazione preventiva, per i diritti dei detenuti e l’amnistia. Ci sono il referendum elettorale per l’abolizione delle preferenze, condotto insieme a Mario Segni al tramonto della prima Repubblica, e la legalizzazione delle droghe leggere; lo scontro sul diritto all’informazione – in particolar modo radiotelevisiva –, che ha accompagnato tutta la vicenda politica dei radicali italiani contro l’occupazione della Rai da parte dei partiti e, negli ultimi anni, i temi della procreazione medicalmente assistita e dell’eutanasia. E ci sono gli atti, numerosi, di disobbedienza civile e gli scioperi della fame e della sete, numerosi pure quelli; ci sono le candidature scandalose in Parlamento – da Cicciolina a Enzo Tortora passando per Toni Negri – e l’impetuosa campagna per le dimissioni di Giovanni Leone dalla Presidenza della Repubblica (per la quale, molti anni dopo, ebbe il coraggio di scusarsi); l’accusa di attentato alla Costituzione all’indirizzo di un altro Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, e la lotta contro la pena di morte nel mondo. C’è una vita generosa e logorroica, condotta sempre in pubblico e tra i militanti, tracimata in mille modi nelle vene della società italiana. E ci sono le associazioni della «galassia radicale», la radio, le esperienze nel Parlamento nazionale e in quello europeo, la fondazione di liste e soggetti politici che hanno attraversato come stelle filanti il panorama politico italiano: la lista Pannella, la lista Bonino, la Rosa nel pugno, la lista Sgarbi-Pannella, tutti tentativi di malcerta fortuna di riversare in una forma parlamentare un’esperienza unica non solo nel panorama nazionale ma in quello europeo. Basti la lunghissima definizione che dovrebbe riassumerne la posizione politica: laico, anticlericale, liberale, liberista, libertario, ma anche socialista per qualche tratto, e alleato con Berlusconi prima e con Romano Prodi poi, e chissà con chi altri la prossima volta ancora.

Ma una prossima volta non ci sarà, perché all’età di 86 anni si è spenta una vita che ne ha contenute più d’una, e in cui è difficile tenere tutto insieme. Un paio di robusti fili conduttori l’hanno però attraversata. Il primo: le infaticabili battaglie per lo stato di diritto. Pannella ne ha condotte molte, e non sempre sono state battaglie facili e immediatamente comprensibili. Tutti ricordano il caso Tortora, il popolarissimo presentatore televisivo arrestato insieme a centinaia di altre persone. Pannella ne sposa la causa: con passione, coraggio, tenacia. Tortora viene arrestato sulla base di dichiarazione dei pentiti poi rivelatasi del tutto false e infondate, Pannella lo candida al Parlamento europeo. Tortora viene condannato in primo grado a dieci anni, il partito radicale lo elegge presidente. Quella battaglia portò ad un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati che fu largamente vinto dai radicali e ampiamente disatteso dal Parlamento (oltre che inviso alla magistratura associata): ci sono voluti altri venticinque anni per «vendicare» quel referendum, con la legge dello scorso anno.

Altri cavalli di battaglia dell’idea pannelliana di giustizia, come l’avversione all’obbligatorietà dell’azione penale, non sono mai divenuti davvero parte delle proposte di riforma in materia. Lo stato di diritto era però per Pannella violato ogni giorno, ad ogni passo, quasi in ogni circostanza dalla malfamata partitocrazia: parola che, del resto, ha introdotto lui nella contesa politica. La stessa Corte costituzionale riceveva dal leader radicale il nome non graziosissimo di «cupola della mafiosità partitocratica», essendo indicata come il luogo in cui le aderenze e le connivenze consociative tra i partiti trovavano la massima rappresentazione (e il modo e il mezzo per far fuori le proposte referendarie radicali, che in quegli anni piovevano copiose). Il vero terreno di scontro era infatti per Pannella l’assetto stesso dei partiti di massa, che avevano costituito l’architrave della prima Repubblica, e l’impianto proporzionalistico della legge elettorale. Negli anni del compromesso storico fra Dc e PCI, Pannella collocò fieramente all’opposizione la sparuta pattuglia radicale eletta in Parlamento, contro quello che chiamava «il partito della spesa unica». Quando quell’assetto entrò in crisi, Pannella promosse il referendum elettorale per cambiare in senso uninominale e maggioritario la legge. E quando le inchieste di Tangentopoli spazzarono via quel mondo, Pannella fu tra quelli che simpatizzarono con il magistrato «crumiro», Antonio Di Pietro, anche se non dimenticò la propria storia garantista cercando di tenere in piedi il Parlamento degli inquisiti, con l’iniziativa assolutamente impopolare dell’autoconvocazione dei peones parlamentari alle sette del mattino. Una cifra dello stile politico di Pannella, sempre fuori le righe, e impeccabile e spropositato al tempo stesso.

Ecco l’altro filo conduttore: conta la battaglia, non con chi la fai. Per questo motivo, Pannella si è trovato a fianco alle frange extra-parlamentari, quando bisognava protestare contro le leggi eccezionali introdotte per contrastare il terrorismo, ma anche con il Cavaliere al tempo della prima discesa in campo di Berlusconi, in nome quella volta della rivoluzione liberale. Con un’idea quasi evangelica dello «scandalo»: che è bene che avvenga, se serve ad accendere i riflettori. E allora ecco Pannella e la pornostar Ilona Staller, a favore della libertà sessuale, e Pannella che cede stupefacenti in tv, contro la penalizzazione del consumo di droga. Pannella imbavagliato nel corso della tribuna politica, per protesta contro le omissioni e le censure della televisione pubblica, e Pannella che beve la propria urina nel corso di uno sciopero della sete o affianca il medico anestesista Mario Riccio perché aiuti Piergiorgio Welby a morire.

Sul finire degli anni Settanta, Alberto Asor Rosa stigmatizzava, con una certa spocchia, «l’illusione radicale di fare la lotta al sistema senza riferirsi chiaramente a posizioni di classe». La posizione di classe in questione era ovviamente quella del partito comunista, che Pannella detestava cordialmente, cordialmente ricambiato. Bastian contrario per eccellenza, Pannella Giacinto detto Marco non ne voleva sapere di piegarsi alle ragioni delle politica organizzata, anche a costo di beccarsi l’accusa di qualunquismo. Come quando, prima ancora che Grillo e i Cinquestelle comparissero all’orizzonte,, promuoveva la restituzione in piazza dei soldi del finanziamento statale ai partiti. O quando enunciava il più insostenibile di tutti i paradossi: la democrazia repubblicana come una continuazione con altri mezzi del fascismo. Aveva torto o ragione? Torto, ovviamente, ma valle a ritrovare ora, le posizioni di classe di Asor Rosa!

P.S. È entrato tutto Pannella in questo articolo troppo lungo? No di certo: ci mancano almeno il pacifismo e l’interventismo democratico, l’antimilitarismo e il filoamericanismo, una storica amicizia con Israele e la proposta di esilio per Saddam Hussein, l’amore liberale per i grandi partiti all’americana e la presa paternalistica e settaria sul piccolo mondo radicale. E contraddizioni su contraddizioni, in un’avventura umana di cui però, alla fine, non si può non vedere la grandezza. E un punto di coerenza di fondo, nella fiducia (quasi religiosa) nelle laicissime ragioni dell’individuo.

(Il Mattino, 20 maggio 2016)

 

Quella stretta di mano al Mezzogiorno

panzerotti-frittiQuestione di simpatia? Matteo Renzi e Michele Emiliano l’hanno ritrovata, e a detta di quest’ultimo un certo feeling è indispensabile per fare bene un lavoro comune. L’occasione è stata il Patto per la Città Metropolitana di Bari, a cui farà presto seguito il Patto con la Regione. Ma nella tregua di ieri, in nome di una logica istituzionale che spinge governo e poteri locali a lavorare insieme, non si sono avvertiti particolari motivi di tensione fra i due. Anzi, sembra che ci sia stato qualcosa di più, oltre il reciproco riconoscimento di ruolo, e cioè che abbia preso fisionomia una prima intesa politica. Certo, se il referendum sulle trivelle fosse andato diversamente, se si fosse raggiunto il quorum ed Emiliano l’avesse vinto, sarebbe stata un’altra musica, e il governatore della Puglia avrebbe probabilmente continuato a spingere sul pedale della contrapposizione. Ma dopo il voto lo scenario è cambiato, e Emiliano ha cominciato a valutare diversamente i costi di un isolamento.

Da una parte, a casa sua, il sindaco di Bari, Decaro, e le forze economiche locali gli chiedevano di sottoscrivere un Piano che finanzia non l’intero ammontare dei progetti presentati dalla Regione, ma una sua fetta consistente. Emiliano non ha mancato di commentare: «è chiaro – ha detto – che c’è differenza tra avere i soldi in tasca e andarli a chiedere, e questo un po’ ci indebolisce dal punto di vista della libertà». Dopodiché però, con sano realismo, ha assicurato che fra un paio di settimane anche la Regione Puglia firmerà l’accordo.

Dall’altra parte, Emiliano deve essersi guardato intorno, e risalendo la Penisola si è accorto che a sinistra, dentro e fuori il Pd, non c’è una falange unita e compatta, pronta a fare di Emiliano il leader degli anti-renziani. Dentro il Pd, del resto, ci provano già Enrico Rossi, il governatore della Toscana, e Roberto Speranza, leader della minoranza dalemian-bersaniana (con cuperliani di complemento): avesse vinto il referendum, avrebbe avuto forse la forza per scavalcarli, ma dopo il voto quella forza Emiliano di sicuro non ce l’ha. E fuori la cosa sarebbe stata ancora più complicata: vuoi perché ne risentirebbero certamente gli equilibri politici della Regione, vuoi perché per andare sino in fondo bisognerebbe scegliere una strada populista e antagonista lungo la quale è già pronto a lanciarsi Luigi De Magistris, che di populismo e antagonismo sa spanderne a pienissime mani. Di Masanielli, insomma, ce n’è già uno. E non teme la concorrenza. Emiliano allora ci ha pensato su, ha dato un’ultima, malinconica scòrsa al voto referendario, e poi ha scritto a Matteo: vediamoci.

Renzi, dal canto suo, non se l’è fatto dire due volte. Quando, pochi giorni, era venuto in Campania, aveva sottolineato che all’appello mancavano ormai solo il Sindaco di Napoli e il governatore della Puglia. Ora può dire che ce n’è rimasto solo uno. A quanto pare, la strategia dei patti con le istituzioni territoriali attraverso i quali ridefinire pezzo a pezzo l’impegno del governo per il Mezzogiorno sta dando, almeno sul piano politico, i suoi frutti. Del resto, non si sottolinea mai abbastanza che il Pd non è solo al governo, è anche alla guida di tutte le regioni meridionali: non è pensabile, dunque, che non si debba accollare il peso di questa così ampia responsabilità. Se non altro perché, al termine della legislatura, gliene verrà chiesto conto. Nei prossimi mesi, terrà ovviamente banco il referendum sulla riforma costituzionale, e il premier – personalizzazione o non personalizzazione del confronto – ha sicuramente bisogno di vincerlo. Perciò, in questa fase, gli viene buono qualunque accordo gli consenta di allargare il consenso, di smussare i distinguo all’interno del Pd, e soprattutto di presentarsi alla guida di un cambiamento reale. Ma dopo saranno anche i temi dell’economia a dettare i tempi della politica nazionale. E Renzi deve continuare a mostrare che la capacità realizzativa esibita nei primi mesi di governo non è andata smarrita. Deve ripartire da lì, dalle opere e dalle infrastrutture, ma anche da un investimento sugli uomini che aiuti a costruire, nel Mezzogiorno, una politica di segno diverso. Il suo governo ha in effetti impresso una decisa correzione in senso centralista delle spinte federaliste e anti-meridionalistiche degli anni passati. Renzi viene e stringe mani, ed è un bene che le mani si aprano per stringere a loro volta il patto per il Sud, Si tratta ora di dimostrare che la correzione di rotta che porta un po’ di risorse in più nel Mezzogiorno non serve solo a mettere in riga qualche avversario politico recalcitrante, con un attento uso della carota dei finanziamenti, ma anche a costruire il profilo di un nuovo meridionalismo, di ben altra qualità rispetto ai vecchi vizi culturali (e clientelari) del passato. I panzerotti di Bari saranno serviti a questo?

(Il Mattino, 18 maggio 2016)

 

Napoli è il mezzo del racconto. Uno spettacolo senza folclore

 

n-gomorra-the-series-2001-3

Se la serie Gomorra ha dei limiti, questi limiti non sono superati dall’essere «tecnicamente perfetta». Provo a riassumere così il pensiero di Giuseppe Montesano, che a un’opera d’arte chiede molto di più: chiede di raccontare la complessità del mondo, di diventare un’interpretazione del mondo reale. Chiede, inoltre, di non arrendersi alla logica del prodotto – e suppongo intenda la logica di mercato, per cui il prodotto è anzitutto qualcosa che si vende, e a cui la patina di spettacolarità, il tocco estetizzante viene aggiunto proprio al fine di vendere meglio. La serie televisiva Gomorra attinge, secondo Montesano, al folclore e al déja vu, e in questo modo «benda altri sguardi», «tagli altri sensi» della realtà napoletana. Così abbiamo, in conclusione, da un lato l’alleanza di tecnica ed estetica nella confezione dei prodotti spettacolari come Gomorra, dall’altro «gli uomini e le ferite reali, con emozioni non teleguidate e non prefabbricate».

Ho due motivi di perplessità. Uno di ordine generale, l’altro che riguarda proprio Gomorra, la serie. Il primo: ad un’opera d’arte si può certo chiedere, e forse si deve, un’interpretazione del mondo reale in tutta la sua complessità, ma occorre comunque che questa interpretazione sia riuscita. Questa «riuscita» è l’affare di una «techne», e ad essa evidentemente si allude quando si dice di un’opera che è tecnicamente perfetta. Significa che è riuscita. Che è compatta e potente. D’altra parte, non mi convince neppure la distinzione, ahimè consueta, fra le meraviglie della tecnica e i luccichii dell’estetizzazione da una parte, e le emozioni vere della vita reale dall’altra. È chiaro che funziona: chi mai, infatti, si azzarderebbe a difendere un’opera d’arte elogiando una messa in scena falsa, artificiale e illusoria? Ma mi domando: non è un po’ prefabbricata (e in verità da gran tempo) pure questa distinzione? Non è troppo semplice, troppo familiare, la gerarchia di valori che veicola? Non è, soprattutto, molto letteraria, e molto meno tagliata per la settima arte del cinema e dell’audiovisivo?

Da essa Montesano trae peraltro un preciso motivo di critica: a differenza di altre rappresentazioni, il male in Gomorra è seducente, ma si tratta di una falsa seduzione. Cosa tuttavia è falso: che il male sia seducente? Non mi pare: è, anzi, una sua caratteristica quasi definitoria. Forse però la falsità della seduzione sta in ciò, che la forza della spettacolarizzazione esercita la sua seduzione sul pubblico senza alcun filtro, senza frapposizione di alcuna distanza. È la cancellazione di questa distanza critica che si imputa, in generale, ai mezzi rutilanti dello spettacolo, e a Gomorra-la serie in particolare. Più precisamente ancora: gli si imputa di ottenere un’immersione assoluta nell’esperienza del male proprio imponendo il sacrificio dell’intelletto, cioè la rinuncia ad un sano esercizio di valutazione e messa a fuoco.

Ma qui interviene un secondo motivo di perplessità. Non v’è dubbio che la narrazione proceda senza che venga intralciata da gravi dilemmi morali, senza che vengano offerti squarci di un altro mondo possibile, in cui non regnino soltanto la sopraffazione e la violenza. Non vi sono esempi positivi a cui aggrapparsi, e per una scelta precisa degli attori non vi è un solo magistrato, un poliziotto, o semplicemente un cittadino qualunque che dimostri senso del dovere, della giustizia, dello Stato. Ma è vero che, in questo modo, lo spettacolo del male ti lascia non solo senza fiato, ma anche senza pensieri? Non credo affatto, credo anzi che fascinazione e repulsione stiano insieme proprio grazie alla raffigurazione di un’umanità in balìa completa dell’illegalità e della violenza, il che non può non generare nello spettatore domande forti quanto la presa allo stomaco di certe scene. E trovo giusto, infine, dire che Napoli non è il fine, ma il mezzo del racconto: non ciò che si vede, ma ciò grazie a cui si vede. Vi sono rappresentazioni della realtà la cui tensione centrifuga disperde le vicende umane ed esistenziali lungo percorsi diversi, irti di contraddizioni; vi sono altre rappresentazioni, in cui una potentissima spinta centripeta li raggruma tutti intorno a un unico dio: il denaro, o il potere, o la morte. Gomorra appartiene a questo secondo filone, ed è per questo, per questa concentrazione precisa, rigorosa (e, sì, anche spettacolare) che non direi nemmeno che si lascia distrarre dal folclore o guidare dal dejà vu: non più di quanto accade con lo squallore lercio e litigioso di una strada messicana in una pellicola di Inarritu.

Così però mi sono forse spinto un po’ oltre, nel giudizio. Perciò faccio un passo indietro. Quando si dice che Gomorra-la serie è tecnicamente perfetta, si vuole anche mostrare consapevolezza che la serie rientra a meraviglia in ciò che si richiede a un certo genere di produzioni televisive, non che riscrive daccapo l’intera storia dell’arte, del cinema o dello spettacolo. Nessuno insomma grida al capolavoro indimenticabile che farà epoca, ma, certo, poiché non sono moltissime le produzioni italiane che raggiungono questi livelli di spettacolarità e di cura formale, è difficile che questa perfezione sia da considerarsi un difetto. E le considerazioni sociologiche ulteriori, sul modo in cui l’Italia raggiunge i mercati esteri – sollecitando cioè quale immaginario – debbono riguardare il Paese e l’esilità di altre storie e altro cinema, più che la maledetta baldanza degli autori di Gomorra.

(Il Mattino, 17 maggio 2016)

La vera Antimafia

Immagine.jpgUn ripensamento sulle ragioni dell’Antimafia è stato avviato già da qualche tempo, e forse sarebbe utile condurlo a partire dalla parole che il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, ha speso all’inizio di quest’anno, in un’occasione solenne, l’inaugurazione dell’anno giudiziario: «C’è stata forse una certa rincorsa all’attribuzione del carattere di antimafia, all’autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l’antimafia nulla avevano e hanno a che vedere». E più avanti: «La rincorsa è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari; ed a bollare come inaccettabili eventuali dissensi o opinioni diverse. E, spiace registrarlo, a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato».

Se ricordo queste parole, è perché aiutano a capire. La conferma che i clan camorristici stavano progettando di attentare alla vita del Capo della Procura di Napoli – avevano già preparato l’esplosivo, e condotto sopralluoghi, e studiato abitudini di vita e di lavoro di Giovanni Colangelo – dimostra che cosa ancora oggi significhi, purtroppo, condurre a fondo un’azione di contrasto nei confronti della criminalità organizzata. Che cosa significa condurre inchieste, catturare latitanti, spiccare arresti, disporre confische. Che cosa significa mettere in discussione anche certi codici culturali, chiedendo per esempio alle madri di togliere i loro figli dalla strada, spiegandogli che la strada della delinquenza conduce, nel migliore dei casi, al carcere, e in molti altri casi al cimitero. D’altronde il clamore suscitato dalle raffiche di kalashnikov sparate contro la caserma dei carabinieri di Secondigliano è in realtà in un rapporto di proporzione inversa alla forza del radicamento territoriale: meno è forte, più ha bisogno di gesti plateali per affermarsi. Il che dimostra per un verso la fluidità della scena criminale napoletana – che non ne diminuisce affatto la pericolosità ma può anzi persino accentuarla – ma per l’altro anche l’incisività dell’azione che le forze dell’ordine sono venuti in questi mesi conducendo. Colangelo e i suoi pm stanno dando fastidio; una lotta alle mafie condotta con questa determinazione, con questa tenacia, produce effetti, ottiene risultati.La storia delle mafie è la storia della debolezza dello Stato, nel senso che la prima non ci sarebbe stata se non ci fosse stata la seconda. Dove dunque è effettivo l’esercizio dei poteri pubblici, lì sono le mafie a indebolirsi, e sono dunque costrette a reagire.

E così torniamo al discorso del procuratore Lo Voi. Alla necessità di «sostenere e supportare coloro che fanno, anziché quelli che dicono di fare». Forse è sin troppo facile mettere Giovanni Colangelo tra coloro che fanno, e che dunque vanno sostenuti e supportati, mentre è più difficile togliere sostegno e supporto a quelli che dicono – dicono soltanto – di fare. Però è necessario, per dare forza ai primi proprio togliendola ai secondi.

C’è stata in passato un’Antimafia che ha scosso omertà, paure e silenzi, e portato una nuova consapevolezza nella società italiana, strappandola a sottovalutazioni di comodo, e anche ai pregiudizi locali, al folclore e all’antropologia d’accatto. C’è stata un’Antimafia che ha contribuito a spostare l’attenzione anche oltre il terreno stretto della repressione penale, e a individuare quella invisibile linea, varcata la quale i soldi cattivi diventano buoni e non si lasciano più acchiappare. Ma c’è stata e c’è anche un’Antimafia burocratizzata, routinaria, un’Antimafia di carta, un carrozzone inutile o peggio un centro di gestione di affari e consenso e potere: formatosi sia per semplice inerzia che per preciso calcolo e interesse, per guadagnare posizioni o per fare affari.

E invece «antimafia è e significa rispettare le leggi e fare il proprio dovere; gran parte del resto è sovrastruttura»: è ancora il pensiero di Lo Voi, e non è un pensiero vuoto, o banalmente retorico. Sono proprio le risultanze investigative di queste ore a dimostrarlo: quando gli inquirenti scoprono che i clan questa distinzione la sanno fare molto bene, e non perdono tempo appresso alla sovrastruttura, che non spaventa nessuno, ma mettono nel mirino e provano a smantellare la struttura dello Stato che funziona, allora vuol dire che una netta demarcazione va di nuovo tracciata. Per mettere risorse dove servono, e togliere l’acqua dove nuota invece l’Antimafia delle parole.

(Il Mattino, 13 maggio 2016)

Gomorra, la dimensione unica del male

gomorra-mania-serie-326948«Adesso ti portiamo alle Vele», e Claudio Giovannesi – ultimo arrivato nella squadra di registi arruolati per la seconda serie di Gomorra, che comincia questa sera – monta sul pulmino a nove posti e si fa il suo primo giro dalle parti di Scampia. Lì, tra quei palazzi e quelle strade, dove un tempo dominava incontrastato il boss Pietro Savastano, nuove alleanze si fanno e si disfano, e lì gli autori di Gomorra, a dieci anni di distanza dall’uscita del libro di Roberto Saviano, tornano a raccontare la geometrica potenza del Sistema.

Gomorra-la serie, giunta alla seconda stagione, è un prodotto di grandissima qualità, e una delle ragioni del suo successo è sicuramente nella cura meticolosa con la quale la realtà napoletana viene rappresentata. Non solo il crimine organizzato e i suoi efferati delitti, ma proprio la città, i quartieri, gli spazi: i muri e i cortili, gli svincoli e le reti di recinzione, gli appartamenti dove i camorristi vivono e i capannoni abbandonati dove versano la benzina per bruciare auto e corpi, dopo l’ultimoomicidio.

Non c’è nulla, in questo racconto crudele e disperato della città, che debba essere tolto per ragioni ideologiche o morali, e davvero non si capirebbe l’ennesima polemica sui panni sporchi che si lavano in famiglia. L’idea di Saviano, condivisa con gli sceneggiatori della serie, era, fin dall’inizio, che non doveva esserci il bene. Non doveva, perché non poteva. Nel corso della conferenza stampa di presentazione dei primi due episodi della serie, Saviano ha molto insistito sull’ambizione di mostrare anzitutto i meccanismi di funzionamento del potere. E il potere è il male. Saviano ha parlato di meccanismi, volendo con ciò intendere che il cuore della narrazione è nelle dinamiche del potere – le stesse ovunque – liberate da qualsiasi patina di mediazione, da qualsiasi imbellettamento o edulcoramento. Ed è così che si vedono in Gomorra, nude come le mani che uccidono, quando a finire un uomo non sono invece i colpi sparati in testa, a bruciapelo. È così che la vicenda criminale aiuta a rappresentarle. Nel book distribuito per la stampa Saviano scrive: «La testa di un boss ragiona esattamente come quella di un amministratore delegato o del direttore di un supermercato o di un Primo Ministro: il potere ha un’unica dimensione e ha sempre la stessa logica». In conferenza stampa ha poi aggiunto che, certo, il racconto parte da Napoli, ma non con l’obiettivo di raccontare Napoli al mondo, bensì con quello di raccontare il mondo – o meglio: l’unica dimensione su cui si regge la struttura del mondo – a partire da Napoli. Così sarebbe persino sbagliato dire che è una serie «napoletana», benché venga difficile immaginarla recitata in un’altra lingua. Eppure il mercato estero la compra, accettando nei sottotitoli un linguaggio omologato.

Evidentemente, l’idea di fondo è abbastanza robusto per costruisci sopra le dodici puntate della fiction. Se poi basti anche a stringere davvero, in un unico plesso, l’essenza del potere è altra faccenda, e ci torneremo. Ma intanto la serie funziona, secondo tutti i crismi delle migliori produzioni internazionali. Pietro Savastano, il vecchio boss fuggito dal carcere di massima sicurezza, cerca di riprendersi il suo pezzo di città. Il figlio Genny è anche lui tornato. Lo avevamo lasciato in fin di vita al termine della prima serie; a distanza di un anno da quei fatti è in combutta coi cartelli sudamericani della droga edè deciso anche lui a vendicarsi dei traditori, di Salvatore Conte, di Ciro Di Marzio e degli altri scissionisti che hanno stretto un’alleanza fondata sulla spartizione delle piazze di spaccio.

Il gioco principale è fra di loro: il padre, il figlio, l’amico (che tradisce), il rivale (che si allea col traditore).Le loro vite sono fatte di tre cose, di tre cose soltanto. Essi uccidono, ed è essenziale che sappiano farlo con assoluta spietatezza. Comunicano, ma lo fanno sempre con il massimo risparmio di parole, al telefono o di persona. Infine si spostano, in grosse auto dai finestrini quasi sempre alzati, o su potenti moto. Tutte e tre queste azioni comportano delle rinunce, ma quella che colpisce di più è la rinuncia all’aria aperta. La Napoli di Gomorra è una città claustrofobica: si vive in spazi limitati, anche quando si hanno a disposizione ville o lussuose camere d’albergo. Ma i personaggi escono da un appartamento ed entrano in un’auto, oppure scendono dall’auto, salgono le scale e di nuovo sono in un appartamento. O in qualche cantiere abbandonato. Molto raramente si avventurano nello spazio aperto. Per Saviano, la serie ha fra l’altro il pregio di raccontare come si assegna un appalto, o come si tiene una piazza di spaccio, o come si truccano le elezioni. Ma ancor meglio racconta che cos’è l’impero della violenza e dell’illegalità questa impossibilità di attraversare liberamente un luogo, di andare da un lato all’altro della strada senza temere un agguato.

Con questo è esaurito il racconto di Napoli, il racconto del nostro Paese? Ovviamente no. Ma è difficile farne colpa a Saviano o a Sollima. È anzi un fatto positivo che l’Italia entri con le storie di Gomorra nel mercato oggi più promettente, sia dal punto di vista commerciale che da quello artistico. Un mercato che ha cambiato profondamente la televisione, elevandola sullo stesso piano della cinematografia – a giudicare almeno dagli sforzi produttivi e dalle risorse impiegate. Il fatto negativo è se mai che il Paese non riesce ad essere più grande e più ricco delle storie che di esso si raccontano. Anche serie americane come House of Cards, infatti, non regalano certo un quadretto edificante della vita pubblica americana, ma in quel caso è più facile pensare che c’è dell’altro, oltre quello che si vede. Washington è corrotta? Forse, ma resta Washington e mantiene una sua grandezza anche se gli inquilini della Casa Bianca vi ordiscono inconfessabili trame.

In tutte le storie è richiesto allo spettatore una sospensione di incredulità: il che però non vuol dire solo che le storie debbono essere credibili, ma che esse devono la loro credibilità anzitutto a una logica e a una coerenza interna, alla quale lo spettatore può abbandonarsi senza preoccuparsi di doverla mantenere anche dopo, anche a proiezione ultimata. Con Gomorra è un po’ diverso, perché l’esperienza di staccare, di varcare una soglia, lasciando la realtà per godere della sua rappresentazione – ebbene: quell’esperienza è molto più labile. Napoli corrotta e dominata dal Sistema è Napoli, a tutti gli effetti: non arriva altro. Anzi, un pezzo della forza del racconto dipende proprio dalla grande capacità di affermare che non c’è altro.

Così torniamo all’assunto, all’essenza del potere, allo «schifo umano» che c’è e deve essere rappresentato per com’è. Ma potere è insieme Kratos e Bia. Lo insegnava Eschilo, e non per raccontare storie edificanti. Ma mentre Bia è la violenza muta e senza parole, Kratos è invece quella stessa violenza, portata però dentro una cultura, dei costumi, sotto delle leggi. In Gomorra, questa dimensione è completamente assente, al punto che le stesse dinamiche di potere quasi non toccano la sfera pubblica: sono dinamiche assolutamente centripete, piegate verso l’interno, verso il cuore del potere criminale, senza un interesse reale per tutto il resto, neppure – che so – per un poliziotto da corrompere o un magistrato da assassinare. Il che non nuoce certo alla narrazione, che anzi si mantiene compatta e potente, magnifica e feroce, spettacolare ed efferata. Ma se l’obiettivo è anche mostrare che cos’è il potere, allora sia permesso di dire che forse se ne mostra soltanto una metà.

(Il Mattino, 10 maggio 2016)

Il romanzo del partito delle toghe

Acquisizione a schermo intero 09052016 110551.bmpNel racconto ordinario degli ultimi venticinque anni di vita pubblica italiana ci sono essenzialmente due cose: l’inchiesta Mani Pulite e Silvio Berlusconi. Da un paio di anni si è aperto un terzo tempo, legato all’ascesa di Matteo Renzi: prima alla guida del Pd, poi alla guida del Paese.

Si tratta naturalmente di un racconto parziale. Qualunque elettore di centrosinistra si preoccuperà di aggiungere che no, c’è stato anche l’Ulivo (e la sinistra al governo, e il primo capo di governo ex-comunista). Ma in quel racconto ordinario – che non ha doveri di accuratezza storiografica – queste cose figurano come intermezzi rispetto ai due elementi assiali, determinanti l’uno nella destrutturazione del campo politico, l’altro nella sua successiva riconfigurazione. Ma soprattutto l’uno e l’altro evento sono fra di loro legati, nel discorso pubblico, dalla centralità che vi ha avuto il conflitto con la magistratura. Cosicché è difficile sottrarsi alla domanda, se non stia accadendo la stessa cosa oggi: mentre un nuovo assetto politico prova a consolidarsi attorno alle riforme di Renzi (e alla madre di tutte: la riforma costituzionale), si acutizzano i motivi di tensione con le toghe. E così prende di nuovo forma una narrazione imperniata principalmente sui temi della legalità e della giustizia da una parte, della corruzione e dell’inquinamento della politica dall’altra.

Le dichiarazioni rilasciate a più riprese da Piercamillo Davigo, neo-Presidente dell’Anm, o da ultimo quelle attribuite al membro togato del CSM, Piegiorgio Morosini, hanno avuto anzitutto questo significato. Prima ancora di riguardare punti di merito, esse hanno rilanciato il genere letterario di maggior successo in questi anni, quello nel quale la magistratura fa la parte del protagonista buono, mentre la politica ha il ruolo dell’antagonista cattivo.

Ora, a ben vedere né gli anni di Tangentopoli né quelli del berlusconismo possono essere ricondotti sotto quest’unico canone. Un conto è la vulgata, un altro è la realtà storica. Per quanto forti siano stati nei primi anni Novanta gli scossoni dell’inchieste del pool di Mani Pulite, la caduta del Muro, la fine dell’ordine internazionale fondato sui due blocchi – americano e sovietico – e infine la nuova realtà europea (con i relativi vincoli economico-finanziari) sono stati almeno altrettanto decisivi, perché l’Italia voltasse pagina. Lo stesso dicasi per il berlusconismo: gli appassionati del genere letterario di cui sopra lo racconteranno magari come un improvviso bubbone di illegalità, ma lo spostamento di orizzonte prodottosi con l’egemonia del Cavaliere intorno ai temi di una possibile agenda liberale del Paese – certo mescolati con dose abbondanti di moderatismo, leghismo e populismo –è stato ben più significativo dei problemi di legge e pubblica moralità nei quali è più volte inciampato Berlusconi, ogni volta tirandosi dietro polemiche al calor bianco con le cosiddette toghe rosse.

Però quel racconto resiste, anzi si cronicizza, e rimane così la sceneggiatura di gran lunga più sfruttata non solo per raccontare quel tempo, ma anche per interpretare la stagione corrente.

La qual cosa certamente non giova alla politica, e giova invece a tutti gli altri poteri che prendono maggiore forza dalla debolezza delle istituzioni rappresentative. Non c’è ovviamente bisogno di immaginare complotti orditi da chissà chi. Perché quando si tratta di trame occulte, è facile cominciare ipotizzando piccoli interessi di bottega per poi finire col tirar dentro i servizi segreti, la Cia e il Mossad. Oppure gli immancabili poteri forti, tipo la DeutscheBank su cui indaga nientemeno che la procura di Trani. Molto più banalmente, è ragionevole ritenere che più leggero si fa il peso della volontà politica, la quale sempre meno riesce ad essere davvero sovrana, e più corpi e organi dello Stato se ne vanno per proprio conto, «iuxta propria natura». Ampliando i propri spazi d’intervento, acquisendo di fatto un ruolo politico, soddisfacendo pure a qualche più prosaica esigenza sindacal-corporativa (vedi alle voci: ferie dei magistrati).

In Italia, questa dinamica è stata peraltro preparata da un progressivo smottamento della cultura garantista, che viene da lontano: dall’emergenza terroristica prima, da quella mafiosa poi. L’una e l’altra hanno alimentato la convinzione che prima viene il contrasto e la lotta, poi, se mai, il diritto e le garanzie. Se dunque il fenomeno della corruzione si presenta come la nuova emergenza, il gioco è fatto, e si può riprendere il filo di quella venticinquennale narrazione che alla magistratura continua ad assegnare una decisiva, e a volte debordante,funzione surrogatoria.

E invece: c’è o no un tema di durata ragionevole dei processi? C’è un problema con la diffusione straripante delle intercettazioni? C’è uno squilibrio fra la fase delle indagini, e quella della celebrazione vera ed effettiva dei processi? C’è un’esigenza ordinamentale, anzitutto di riforma del CSM? Ci sono abusi nell’uso della custodia cautelare? E ci sarà sempre bisogno di legislazioni speciali e doppi binari processuali? C’è, infine e soprattutto, spazio per discutere questi punti «sine ira ac studio», senza cioè che si opponga che, poche storie, il problema è la corruzione, e chi suggerisce altri motivi è semplicemente complice, colluso o connivente?

Insomma: il terzo tempo di questa lunghissima transizione oltre i confini della prima Repubblica si accoderà ai primi due, seguendo il medesimo palinsesto, oppure proverà a costruirne uno nuovo?

(Il Mattino, 9 maggio 2016)

La rinuncia ad eleggere i migliori

20101005105013-8d9cbeba-864x400_cLa scadenza è stamane: fra poche ore si saprà quanti sono i candidati al consiglio comunale, e quanti quelli che puntano a entrare invece nei consigli circoscrizionali. Ma se il numero esatto non lo si conosce ancora, si conosce invece l’ordine di grandezza: sono tanti. Più di quanti siano mai stati in passato. E non solo a Napoli, ma un po’ dappertutto in giro per l’Italia proliferano le liste, neanche fosse rivolto proprio a loro l’antico precetto biblico: crescete e moltiplicatevi.

Perché si moltiplicano davvero, secondo un’esigenza che si direbbe però topografica o toponomastica, più che politica. Il principio sembra essere infatti: non vi sia un solo quartiere, isolato, condominio che non abbia il suo candidato. Il poliziotto di quartiere non lo si riesce a trovare, per quante volte sia stato istituito; di candidatidi quartiere invece sì, ormai ne abbiamo in gran quantità.

Non è un paradosso. È la risposta in termini di quantità ad una perdita di qualità. Ma è dubbio che sia la risposta giusta, quella che rimette in sesto i partiti, migliora la rappresentanza, avvicina i cittadini alle istituzioni. Sembra anzi il contrario: un sintomo grave della mancata tenuta del sistema dei partiti. Che non riescono a rivolgere all’elettorato una proposta politico-programmatica chiara, forte e riconoscibile. Una proposta, cioè, che per essere votata non debba essere sostenuta in maniera palesemente surrettizia dalla pletora dei candidati. Se infatti il rapporto fra costoro e il numero di posti disponibili nei vari consigli cresce in maniera esponenziale, di elezione in elezione, è perché diminuisce inversamente il numero delle motivazioni alle quali attingere, per dare il proprio voto a un partito o a una coalizione. Rimane il rapporto personale, fondato sulla conoscenza diretta di qualcuno che sia in lista, e che ti chiede il voto sol perché lo conosci, perché è un amico o l’amico di un amico che te lo ha presentato, o semplicemente perché vive nella stessa strada dove vivi tu. E per nessun’altra ragione.

Si potrebbe dire: è la via con cui i partiti tradizionali, in tempi di disintermediazione e perdita di autorevolezza, rispondono all’«uno vale uno» che i grillini sbandierano da che sono entrati in Parlamento. Si dovrebbe dire piuttosto: è un’altra maniera di dimostrare, per li rami, che la rappresentanza è azzerata, non rafforzata da quel principio. Si potrebbe dire: è la via per eleggere dei candidati che finalmente siano proprio come noi, proprio uguali a noi, che così li votiamo più volentieri. Si dovrebbe dire invece: è la rinuncia ad un’ambizione che anche in democrazia dovrebbe essere tenacemente coltivata, che quelli che ci rappresentano siano eletti non perché uguali, ma perché migliori di noi (nel senso almeno di essere più adeguati ai compiti che li aspettano).

Ma il fenomeno che esplode nella corsa al consiglio comunale riproduce in piccolo quanto peraltro la storia politica del Paese dimostra in più grande formato. Perché nel corso della prima Repubblica, quando pure vigeva un sistema elettorale proporzionale, il numero dei partiti era contenuto entro limiti fisiologici, e così anche il numero di liste confezionate in vista delle elezioni amministrative. Il declino dei partiti tradizionali, che è stato insieme declino della loro base ideologica e del loro personale politico, si è tradotto in un incremento impressionante di formazioni politiche, con conseguente espansione delle possibilità di cambiare casacca, utilizzando spesso formazioni minori, liste e altre aggregazioni costituite ad hoc. Da questo punto di vista, può molto poco il correttivo maggioritario introdotto ai diversi livelli istituzionali, con leggi più o meno fortunate. In particolare, l’elezione diretta del sindaco è considerata la miglior legge elettorale che sia stata introdotta da vent’anni o poco più a questa parte, e forse lo è davvero. Ma anche la migliore ingegneria elettorale può poco, se i partiti non riescono più a raccogliere voti. Il meccanismo elettorale può assicurare governabilità, rafforzando i poteri del primo cittadino, ma non può sostituirsi a quello che una volta si chiamava il lavoro politico, e che non si capisce più come, da chi e perché debba essere fatto.

Prima ho detto che non è un paradosso, ma l’espressione più lampante della crisi e della difficoltà della politica di articolare ragioni per conquistare consenso. Ora però aggiungo che un paradosso c’è, dal momento che facciamo tutti i giorni la critica della casta politica in nome della società civile, e al dunque ci accorgiamo che rovesciare l’una nell’altra, come avviene massicciamente con la carica dei candidati, non dà affatto i risultati sperati. E, a giudicare dagli ultimi turni elettorale, non li dà nemmeno in termini di affluenza. Rischia anzi di finire come in «Le vie del signore sono finite», con Massimo Troisi che rinuncia a leggere perché lui è uno, mentre a scrivere sono in milioni. La scena sembra la stessa: migliaia di candidati, e l’elettore votante che nemmeno lui, da solo, ce la può fare.

(Il Mattino– Napoli ed., 7 maggio 2016)

La patria dell’integrazione dove l’Islam sposa la laicità

sadiqkhan.jpgLondra ha fatto di me la persona che io sono oggi: così scriveva Sadiq Khan nel libro che la Fabian Society dedicava qualche anno fa a Londra, «come sarà dopo il 2015». Cioè oggi, quando Sadiq Khan, figlio di un autista di bus, pakistano, di fede musulmana, diviene sindaco della città più cosmopolita d’Europa (stando almeno ai primi risultati). Sadiq Khan era il favorito della vigilia, e in termini strettamente politici la cosa, dunque, non può sorprendere. Probabilmente, darà pure qualche scossone al partito laburista, nel quale Sadiq Khan milita. Ma resta un risultato storico, che la prima città europea, la capitale di un impero che meno di un secolo fa toccava i quattro angoli del pianeta, sarà nei prossimi anni guidata da un immigrato non cristiano di origine asiatica.

Che storia è questa? Una storia che della profezia dello scrittore francese Michel Houellebecq,che ha spaventato i buoni europei,ha cambiato tutti i dati. Non si tratta della Francia, infatti, ma della Gran Bretagna. Non è uno Stato in ballo, ma la guida di una città. E soprattutto non è la fine del secolarismo, della laicità, del progressismo, dell’individualismo liberal-democratico, del libertinismo sessuale e del materialismo ateo: che vengono messi in fila uno dopo l’altro, nel libro di Houllebecq, come se fossero la stessa cosa. Lo scrittore francese ha immaginato, nel suo ultimo, discusso romanzo, Sottomissione, che la crisi, in Francia, del gioco politico strutturato sull’opposizione fra la destra e la sinistra tradizionali avrebbe spinto i partiti repubblicani a sostenere un candidato musulmano contro l’avanzata della destra populista e xenofoba. E l’esito finale sarebbe stato prima la vittoria della Fratellanza musulmana, poi l’islamizzazione della società. Di più: questo esito sarebbe stato in fondo accettato dagli stessi francesi, a cui avrebbe infine fatto comodo rinunciare a un po’ di libertà per ripiegare verso porti più sicuri, dopo decenni di relativismo, nichilismo, anarchia.

«OurLondon», scriveva invece il futuro sindaco Sadiq Khan, tre anni fa, raccontando la sua storia di avvocato e politico di successo, e in quella storia non c’è quasi nulla dei timori di Houellebecq sull’immigrazione che cambia il volto della società europea, fino a sfigurarla, a snaturarla (ea svirilizzarla).

La mia storia, la storia delle opportunità che questa città ha concesso alla mia famiglia, a mio padre e ai suoi figli, raccontava Sadiq Khan, è la storia di ciò che Londra è stata (e può ancora essere): una città aperta, tollerante, multiculturale, dove lavorando duro potevi mettere da parte qualche soldo e costruire un futuro per le nuove generazioni. Sadiq insisteva sulle eguaglianze di opportunità, e domandava: nella Londra di oggi, in cui un milione e mezzo di abitanti – sui due milioni e mezzo che fa questa straordinaria metropoli – vive in condizioni di sotto-occupazione, sarebbe stato possibile a mio padre trovare un lavoro sicuro e stabile, e a me studiare?

Il significato del voto di oggi, se sarà davvero Sadiq Khan a succedere all’uscente sindaco conservatore, Boris Johnson, va al di là delle sfide che la città ha davanti, e su cui il futuro sindaco ha costruito il suo successo: in termini di trasporti, welfare, housing sociale, infrastrutture. Questi sono, né più né meno, i problemi di tutte o quasi le grandi città europee. Un sindaco musulmano, nella città che forse, più ancora di Parigi, di Roma o di Berlino dice che cos’è la civiltà occidentale, indica un percorso di integrazione possibile. Niente muri, niente costruzioni di enclave, niente comunità separate, niente divisioni su basi etniche, religiose o razziali. Ma che questo esito abbia un contenuto sociale, parli ai ceti popolari come alla middle class londinese, non è estraneo all’affermazione di Sadiq.

Certo, le cose, lungo il Tamigi, sono molto diverse da quelle che accadono lungo la Senna o lungo il Tevere. Lo sfondo culturale e storico è profondamente diverso e a Londra indiani e pakistani e sudditi di sua Maestà sono arrivati sotto l’orologio di Westminster da molto più tempo. Occidentale, ma anche atlantica, versata sull’elemento marino molto più di quanto non sia terranea l’Europa centro-orientale, agitata da fantasmi xenofobi. Londra ha una vocazione per l’incrocio di popoli e razze molto più accentuata delle altri capitali europee. Ma il multiculturalismo può prendere strade diverse: può generare il modello Londonistan, in cui la tolleranza produce separazione, comunità chiuse e giustapposte, estranee e potenzialmente nemiche. Oppure può condurre a storie come quelle di Sadiq Khan, storie i cui fili di un’identità si intrecciano insieme, e il laburista, l’europeo, il musulmano e il pakistano stanno tutti insieme nel profilo del nuovo sindaco della capitale del regno di Elisabetta.

(Il Mattino e Il Messaggero, 6 maggio 2016)

 

 

 

Il Parco Verde dipinto di nero

Augias Fortuna Loffredo-2Anche lì, anche nell’isolato numero 3, nel rione Verde di Caivano, nella periferia a nord di Napoli, «anche lì si erano un po’ persi i punti di riferimento». E sarebbe davvero difficile pensarla diversamente, visto quello che è accaduto alla piccola Fortuna. Ma le parole con cui Corrado Augias ha descritto la foto mostrata dalla povera madre è sembrato che andassero malamente in cerca di una spiegazione del delitto, e che non la trovassero dove uno immagina che stia: dalle parti dell’assassino. Cosa ha visto infatti Augias in quella foto? Una bambina di cinque anni che si atteggia come una sedicenne, o una diciottenne. E un certo stridore fra quell’atteggiamento, quella pettinatura, quei boccoli, e l’età della bambina. E pure il resto un po’ sciatto e misero dell’inquadratura: la madre vestita di nero, e la statuina dorata di Padre Pio sullo sfondo.

Ora, è da credere che Augias non volesse neanche lontanamente addossare responsabilità alla bambina, o alla madre, e scagionare, o anche solo attenuare, quelle dell’uomo che ha abusato della bambina e l’ha uccisa. In ogni caso, comunque la pensi Augias, nessuna violenza sessuale viene compiuta «perché» la vittima si atteggia: in qualunque modo si atteggi e chiunque sia la vittima. Il «perché» è, infatti, dell’ordine delle ragioni, mai semplicemente delle cause. E quali che siano le cause di una violenza del genere, e di qualunque violenza, non si ha ragione alcuna di addurle.

Ciò detto, c’era davvero lo stridore e cosa propriamente strideva? Roland Barthes ha parlato del punctum di una fotografia: di quella cosa che si trova in una foto senza che chi l’ha scattata abbia voluto mettercelo, e Augias alludeva a qualcosa del genere. La mamma che accetta di mostrare alle telecamere una foto della bambina e sceglie probabilmente quella in cui è più carina non si accorge di mostrare qualcos’altro: non una bella bambina, ma una bambina bella secondo gli occhi, lo sguardo e il desiderio dei grandi. Sono i grandi, infatti, che vogliono le «belle bambine», spesso vestite e truccate come se dovessero partecipare a una sfilata, o comportarsi da piccole soubrette dello spettacolo.

Solo che questa sorta di imperativo sociale non si avverte solo nel palazzo di otto piani del parco Verde di Caivano, tra muri sporchi e marciapiedi sbrecciati, in un contesto segnato dallo spaccio, dalla delinquenza e da storie di ordinaria promiscuità. Per raccontare di pedofilia e abusi su bambini possono andar bene anche i seminari e le parrocchie, purtroppo, e allo sfruttamento sessuale dei minorenni può fare da sfondo anche un quartiere come i Parioli, nel cuore della Roma bene.

Anche lì, diceva invece Augias, e forse voleva sottintendere che in certe zone di Napoli, in aree desolate e in ambienti fortemente degradati, non c’è da meravigliarsi se l’infanzia scompare, se l’innocenza di un bambino è violata, se paure violenze e silenzi penetrano fra le mura domestiche. E certo: è difficile negare che povertà ed emarginazione facciano da sfondo a molti degli orrori che la cronaca ci racconta. Più difficile però è tirare una riga e mettere di là i quartieri (o le città, o magari le regioni meridionali) dove queste cose accadono, e di qua noi e i nostri quartieri, che in queste storie non ci finiscono mai.

Michel Foucault ha raccontato in maniera invero un po’ bizzarra la storia dell’età moderna, mostrando che è cominciata quando si è cercata di condurre un’operazione del genere: mollar giù l’ancora della nave di folli, vagabondi, poveri, irregolari, criminali, che prima giravano indisturbati per le strade e le piazze (si pensi alla figura popolare dello scemo del villaggio), per metterli tutti in qualche posto, meglio se rinchiusi, preservando l’ordine, la sicurezza e la normalità del resto della vita cittadina. Sia giusto o no, è molto dubbio che funzioni. Quel che ci piace e quel che non ci piace, quel che ci attira e quel che respingiamo non è detto infatti che stiano in due luoghi separati, e non piuttosto nello stesso luogo. Perché il diritto e il rovescio non si lasciano separare, e perché bisogni e desideri e relazioni di potere possono essere più forti anche delle determinanti economiche e sociali, e del decoro: urbanistico o morale che sia. È così sottile l’abito di civiltà che indossiamo che ci vuol molto poco perché si strappi, e che si strappi in più punti. E non è detto affatto che sia più resistente l’abito più elegante, e meglio confezionato.

(Il Mattino, 5 maggio 2016)

Partiti e regole se la riforma resta a metà

298092103-acqua-minerale-frizzante-bicchiere-da-acqua-bottiglia-dell'acqua-anidride-carbonica.jpgLa notizia è: la norma che andava di traverso ai Cinque Stelle non c’è. In Commissione Affari Costituzionali, dove è arrivato il testo predisposto dal relatore, Matteo Richetti, del Pd, non c’è più l’obbligo, per i partiti politici, di dotarsi di uno statuto. Se ne parla da tempo e la materia è nota: si tratta dell’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, che chiede ai partiti di concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale, ma lascia fare a ciascun partito come meglio crede, senza imporre controlli o richiedere garanzie.

Ma è dal giorno in cui l’Assemblea Costituente licenziò il testo, che si aspetta la legge sui partiti (si dice). In realtà non è così, perché per molti anni si è ritenuto al contrario che la libertà per i cittadini di associarsi politicamente in un partito dovesse piuttosto essere messa al riparo dalle intrusioni dei poteri pubblici: quindi, meglio non fare leggi. Negli ultimi anni tuttavia, non solo in Italia, lo sfarinamento dei partiti tradizionali e l’emergere di formazioni politiche costituite su linee di faglia inedite (etniche, territoriali o confessionali) ha riproposto il problema, aggravato nel nostro Paese da una profonda perdita di credibilità della politica. Alla legge si cerca dunque di affidare anche il compito di restituire un pezzetto di fiducia, recuperando ai partiti la fisionomia di un canale di partecipazione aperto e trasparente, non già quello – prevalente agli occhi dei cittadini – di uno spazio contrapposto alla società civile, riservato ad addetti ai lavori e cementato da vincoli di casta.

Ora però, dal testo presentato da Richetti è scomparso uno dei requisiti fondamentali sui quali si fondano le garanzie degli iscritti: la presenza di uno statuto, nel quale sia tracciata con chiarezza la forma democratica di organizzazione del partito. Al suo posto, per quelle forze che proprio non ne vogliono sapere, viene introdotta la più pallida figura della «dichiarazione di trasparenza», in cui devono essere previsti alcuni requisiti minimi: sede legale, legale rappresentante, organigramma, modalità di selezione dei candidati. È chiaro che se gli effetti saranno simili a una registrazione vera e propria, allora stiamo giocando con le parole; viceversa, stiamo giocando con la legge, stiamo cioè rinunciando a darle il carattere che deve avere.

Il fatto è che i Cinquestelle non vogliono lo statuto perché non vogliono dichiarare di essere un partito. Non vogliono cioè dichiarare di essere quello che la Costituzione prevede che siano i soggetti della politica democratico-parlamentare. Cambiando le parole, la contraddizione non la si scioglie: la si aggira.

E, per altro verso, si corre il rischio, per non avere grillini fintamente allarmati dall’autoritarismo della maggioranza, di non fare un deciso passo avanti verso quell’autonomia della politica che prevede la formazione di soggetti forti, autorevoli, fondati su regole chiare e trasparenti. Regole, soprattutto, azionabili dagli iscritti. Poiché toccherebbe a loro fare, o spingere i partiti a fare, quello che altrimenti è la magistratura – o meglio il circuito mediatico-giudiziario – a fare.

Ma parliamoci chiaro: cosa c’è che non va in un vincolo statutario liberamente adottato da un partito? Richiederlo, non significa certo pretendere da ciascun partito lo stesso modello di democraticità interna. E, a rigor di logica, per un soggetto che è titolare per legge di alcune pubbliche funzioni, e che dunque non è equiparabile ad una associazione non riconosciuta – dal momento che la legge riserva ai partiti e non a una qualunque associazione la possibilità di presentare liste e candidature nonché l’accesso alle forme indirette di finanziamento pubblico – a un soggetto così chiedere di darsi uno statuto tutto sembra meno che una richiesta eccessiva. Sembra, anzi, buon senso.

La proposta del relatore introduce però un altro requisito, di non piccola importanza. E cioè il diritto per gli iscritti di consultare l’elenco di tutti gli aderenti.

Conoscere nome e cognome di chi si è fatta la tessera è utile non solo per fraternizzare amichevolmente fra amici e compagni, ma perché rende un po’ più difficile la gestione per pacchetti di voti del parco iscritti, e riduce così la presa dei capi-bastone sulla vita del partito. Diciamo allora: la mancanza di una regolamentazione per legge ha finora consentito ai partiti di gestire in maniera largamente discrezionale tanto il rapporto esterno – con l’amministrazione e i poteri dello Stato – quanto quello interno con gli iscritti. Su questo secondo versante al momento c’è qualcosa in più, sul primo qualcosa in meno di quello che ci poteva essere.

Il bicchiere è mezzo pieno, ma forse lo si può ancora riempire un altro po’.

 

(Il Mattino, 4 maggio 2016)