I bambini di Napoli giocano a Gomorra. Così recita la didascalia del video diffuso ieri dal sito Dagospia, in cui si vedono ragazzini che imitano un agguato camorristico in strada con modalità che ricalcano quelle della serie televisiva. Se è così, forse la questione del valore artistico, culturale o spettacolare di Gomorra può passare in secondo piano. Se i minorenni sparano per finta, e nella stessa giornata di ieri un minorenne finisce in carcere per aver sparato per davvero, crivellando di colpi un ventiduenne solo per motivi di gelosia, una riflessione che vada al di là delle scelte estetiche della squadra di autori e registi del serial si impone.
Il fatto è che però i piani continuano a confondersi. E la legittima preoccupazione per l’immagine di Napoli che la fiction fornisce, e per gli effetti imitativi che suscita, spinge i critici di Gomorra a improvvisarsi sceneggiatori, suggerendo correzioni per i prossimi episodi, o per le serie future. Ci vuole almeno un po’ di bene, che rischiari l’inferno di Gomorra: un personaggio positivo, oppure quella parte di città che resiste al male e crede nella possibilità di riscatto.
Nobili propositi, che però non c’entrano nulla con le esigenze di scrittura e di cinema alle quali un prodotto come Gomorra (e qualunque altro prodotto) si attiene. Non tutto è Gomorra, non credete a Gomorra! Certo, ma nessun’opera artistica è chiamata a rappresentare «tutto». Né è più vera e più riuscita se rappresenta codesto «tutto». Anzi: il tutto proprio non esiste. Esistono di volta in volta prospettive sempre diverse, e non è certo responsabilità dell’una se le altre non raggiungono – nel campo delle arti visive come in qualunque altro campo – risultati degni di nota (o di pubblico).
Ma soprattutto: prendersela con Gomorra perché fornisce cattivi esempi agli scugnizzi napoletani è scambiare il dito con la luna. A quei ragazzi vanno se mai forniti gli strumenti per distinguere la realtà dalla sua rappresentazione, e per giudicare l’una e l’altra secondo i criteri rispettivi. Ed è Napoli che deve offrire di sé l’immagine di una città «recuperabile»: non Gomorra di Napoli. E a pensarci: forse Napoli sarebbe bene che offrisse qualcosa di più di un’immagine.
La prova, peraltro, che quei ragazzi in strada non si sarebbero mai sognati di giocare ai camorristi, se non avessero visto Gomorra, non c’è, e dubito molto che ci possa essere. E infine: posto pure che Gomorra faccia su di loro molta più presa di altri programmi televisivi, sarà per la debolezza del contesto sociale e culturale in cui vivono, molto più che per la forza persuasiva delle storie di camorra del clan Savastano.
Ma liberata la serie Gomorra dalle responsabilità che devono invece portare altri attori – la classe dirigente politica, sociale ed economica della città e del paese, per dirla tutta d’un fiato – si può provare a compiere anche l’operazione inversa, a liberare la realtà dai simboli di Gomorra? Proviamoci: con tutta la prudenza necessaria.
Allora: cominciamo col premettere che il senatore D’Anna ha fatto affermazioni difficilmente difendibili, e sicuramente sgradevoli, quando ha sostenuto che bisognerebbe togliere la scorta a Saviano. Ha pure rincarato la dose, accusandolo in pratica di lucrare sulla camorra: insistendo sui lauti guadagni dello scrittore, e sulla comoda vita che farebbe a New York mentre gli agenti di polizia mangiano la polvere in strada a milleduecento euro al mese. Fra il ministero dell’Interno, che ritiene che la scorta ci vuole, e il senatore D’Anna, per il quale invece non ci vuole, viene difficile non credere al Ministero dell’Interno. E lo stesso senatore del gruppo Ala farebbe bene a dare più fiducia all’autorità di pubblica sicurezza, scegliendo meglio il bersaglio della sua polemica.
Che io dunque, se fossi D’Anna, riformulerei nel modo seguente: mi hanno affibbiato la patente di camorrista, o di amico dei camorristi. Non ho condanne sulle spalle, ma non posso scrollarmi di dosso quella patente, che è ben più di una critica politica: è un marchio infamante. E non posso, perché quella patente viene da molto in alto, da un’autorità morale indiscutibile. Ma questo è il punto: ci possono essere simili autorità, in democrazia? Possiamo mettere nelle mani di qualcuno – chiunque egli sia: viva a New York o a Casalpusterlengo cambia poco – il potere di rilasciare simili patenti? D’Anna ce l’ha con Saviano, quasi per fatto personale. Ma il problema è molto più generale, e riguarda l’ingombro alla libera discussione rappresentato a volte da simboli, icone e nobili paladini, che si esercitano per giunta su un terreno delicatissimo e scivolosissimo, quello della giustizia, al quale è legata per molte ragioni la salute di una democrazia. Non dipende da loro: nessuno sceglie di diventare un eroe civile, ed è abbastanza meschino fargli pure i conti in tasca. Resta però il fatto che è pericoloso strozzare il dibattito con censure e veti come quelli che talvolta Saviano esprime. È sgradevole anche la sensazione che non il merito della polemica, ma il fatto stesso di polemizzare con qualcuno rappresenti un motivo di biasimo sociale o, peggio, di sospetto morale. Il fatto è che il credito personale – o il bene reputazionale: si chiama così – sta oggi pure quello sul mercato. Come si formi, si venda e si compri è un’altra storia; ma come su altri mercati, così anche in questo non è mai augurabile la formazione di monopoli. I monopoli sono sempre pericolosi, per la democrazia.
(Il Mattino, 29 maggio 2016)