Archivi del giorno: Maggio 9, 2016

Il romanzo del partito delle toghe

Acquisizione a schermo intero 09052016 110551.bmpNel racconto ordinario degli ultimi venticinque anni di vita pubblica italiana ci sono essenzialmente due cose: l’inchiesta Mani Pulite e Silvio Berlusconi. Da un paio di anni si è aperto un terzo tempo, legato all’ascesa di Matteo Renzi: prima alla guida del Pd, poi alla guida del Paese.

Si tratta naturalmente di un racconto parziale. Qualunque elettore di centrosinistra si preoccuperà di aggiungere che no, c’è stato anche l’Ulivo (e la sinistra al governo, e il primo capo di governo ex-comunista). Ma in quel racconto ordinario – che non ha doveri di accuratezza storiografica – queste cose figurano come intermezzi rispetto ai due elementi assiali, determinanti l’uno nella destrutturazione del campo politico, l’altro nella sua successiva riconfigurazione. Ma soprattutto l’uno e l’altro evento sono fra di loro legati, nel discorso pubblico, dalla centralità che vi ha avuto il conflitto con la magistratura. Cosicché è difficile sottrarsi alla domanda, se non stia accadendo la stessa cosa oggi: mentre un nuovo assetto politico prova a consolidarsi attorno alle riforme di Renzi (e alla madre di tutte: la riforma costituzionale), si acutizzano i motivi di tensione con le toghe. E così prende di nuovo forma una narrazione imperniata principalmente sui temi della legalità e della giustizia da una parte, della corruzione e dell’inquinamento della politica dall’altra.

Le dichiarazioni rilasciate a più riprese da Piercamillo Davigo, neo-Presidente dell’Anm, o da ultimo quelle attribuite al membro togato del CSM, Piegiorgio Morosini, hanno avuto anzitutto questo significato. Prima ancora di riguardare punti di merito, esse hanno rilanciato il genere letterario di maggior successo in questi anni, quello nel quale la magistratura fa la parte del protagonista buono, mentre la politica ha il ruolo dell’antagonista cattivo.

Ora, a ben vedere né gli anni di Tangentopoli né quelli del berlusconismo possono essere ricondotti sotto quest’unico canone. Un conto è la vulgata, un altro è la realtà storica. Per quanto forti siano stati nei primi anni Novanta gli scossoni dell’inchieste del pool di Mani Pulite, la caduta del Muro, la fine dell’ordine internazionale fondato sui due blocchi – americano e sovietico – e infine la nuova realtà europea (con i relativi vincoli economico-finanziari) sono stati almeno altrettanto decisivi, perché l’Italia voltasse pagina. Lo stesso dicasi per il berlusconismo: gli appassionati del genere letterario di cui sopra lo racconteranno magari come un improvviso bubbone di illegalità, ma lo spostamento di orizzonte prodottosi con l’egemonia del Cavaliere intorno ai temi di una possibile agenda liberale del Paese – certo mescolati con dose abbondanti di moderatismo, leghismo e populismo –è stato ben più significativo dei problemi di legge e pubblica moralità nei quali è più volte inciampato Berlusconi, ogni volta tirandosi dietro polemiche al calor bianco con le cosiddette toghe rosse.

Però quel racconto resiste, anzi si cronicizza, e rimane così la sceneggiatura di gran lunga più sfruttata non solo per raccontare quel tempo, ma anche per interpretare la stagione corrente.

La qual cosa certamente non giova alla politica, e giova invece a tutti gli altri poteri che prendono maggiore forza dalla debolezza delle istituzioni rappresentative. Non c’è ovviamente bisogno di immaginare complotti orditi da chissà chi. Perché quando si tratta di trame occulte, è facile cominciare ipotizzando piccoli interessi di bottega per poi finire col tirar dentro i servizi segreti, la Cia e il Mossad. Oppure gli immancabili poteri forti, tipo la DeutscheBank su cui indaga nientemeno che la procura di Trani. Molto più banalmente, è ragionevole ritenere che più leggero si fa il peso della volontà politica, la quale sempre meno riesce ad essere davvero sovrana, e più corpi e organi dello Stato se ne vanno per proprio conto, «iuxta propria natura». Ampliando i propri spazi d’intervento, acquisendo di fatto un ruolo politico, soddisfacendo pure a qualche più prosaica esigenza sindacal-corporativa (vedi alle voci: ferie dei magistrati).

In Italia, questa dinamica è stata peraltro preparata da un progressivo smottamento della cultura garantista, che viene da lontano: dall’emergenza terroristica prima, da quella mafiosa poi. L’una e l’altra hanno alimentato la convinzione che prima viene il contrasto e la lotta, poi, se mai, il diritto e le garanzie. Se dunque il fenomeno della corruzione si presenta come la nuova emergenza, il gioco è fatto, e si può riprendere il filo di quella venticinquennale narrazione che alla magistratura continua ad assegnare una decisiva, e a volte debordante,funzione surrogatoria.

E invece: c’è o no un tema di durata ragionevole dei processi? C’è un problema con la diffusione straripante delle intercettazioni? C’è uno squilibrio fra la fase delle indagini, e quella della celebrazione vera ed effettiva dei processi? C’è un’esigenza ordinamentale, anzitutto di riforma del CSM? Ci sono abusi nell’uso della custodia cautelare? E ci sarà sempre bisogno di legislazioni speciali e doppi binari processuali? C’è, infine e soprattutto, spazio per discutere questi punti «sine ira ac studio», senza cioè che si opponga che, poche storie, il problema è la corruzione, e chi suggerisce altri motivi è semplicemente complice, colluso o connivente?

Insomma: il terzo tempo di questa lunghissima transizione oltre i confini della prima Repubblica si accoderà ai primi due, seguendo il medesimo palinsesto, oppure proverà a costruirne uno nuovo?

(Il Mattino, 9 maggio 2016)

La rinuncia ad eleggere i migliori

20101005105013-8d9cbeba-864x400_cLa scadenza è stamane: fra poche ore si saprà quanti sono i candidati al consiglio comunale, e quanti quelli che puntano a entrare invece nei consigli circoscrizionali. Ma se il numero esatto non lo si conosce ancora, si conosce invece l’ordine di grandezza: sono tanti. Più di quanti siano mai stati in passato. E non solo a Napoli, ma un po’ dappertutto in giro per l’Italia proliferano le liste, neanche fosse rivolto proprio a loro l’antico precetto biblico: crescete e moltiplicatevi.

Perché si moltiplicano davvero, secondo un’esigenza che si direbbe però topografica o toponomastica, più che politica. Il principio sembra essere infatti: non vi sia un solo quartiere, isolato, condominio che non abbia il suo candidato. Il poliziotto di quartiere non lo si riesce a trovare, per quante volte sia stato istituito; di candidatidi quartiere invece sì, ormai ne abbiamo in gran quantità.

Non è un paradosso. È la risposta in termini di quantità ad una perdita di qualità. Ma è dubbio che sia la risposta giusta, quella che rimette in sesto i partiti, migliora la rappresentanza, avvicina i cittadini alle istituzioni. Sembra anzi il contrario: un sintomo grave della mancata tenuta del sistema dei partiti. Che non riescono a rivolgere all’elettorato una proposta politico-programmatica chiara, forte e riconoscibile. Una proposta, cioè, che per essere votata non debba essere sostenuta in maniera palesemente surrettizia dalla pletora dei candidati. Se infatti il rapporto fra costoro e il numero di posti disponibili nei vari consigli cresce in maniera esponenziale, di elezione in elezione, è perché diminuisce inversamente il numero delle motivazioni alle quali attingere, per dare il proprio voto a un partito o a una coalizione. Rimane il rapporto personale, fondato sulla conoscenza diretta di qualcuno che sia in lista, e che ti chiede il voto sol perché lo conosci, perché è un amico o l’amico di un amico che te lo ha presentato, o semplicemente perché vive nella stessa strada dove vivi tu. E per nessun’altra ragione.

Si potrebbe dire: è la via con cui i partiti tradizionali, in tempi di disintermediazione e perdita di autorevolezza, rispondono all’«uno vale uno» che i grillini sbandierano da che sono entrati in Parlamento. Si dovrebbe dire piuttosto: è un’altra maniera di dimostrare, per li rami, che la rappresentanza è azzerata, non rafforzata da quel principio. Si potrebbe dire: è la via per eleggere dei candidati che finalmente siano proprio come noi, proprio uguali a noi, che così li votiamo più volentieri. Si dovrebbe dire invece: è la rinuncia ad un’ambizione che anche in democrazia dovrebbe essere tenacemente coltivata, che quelli che ci rappresentano siano eletti non perché uguali, ma perché migliori di noi (nel senso almeno di essere più adeguati ai compiti che li aspettano).

Ma il fenomeno che esplode nella corsa al consiglio comunale riproduce in piccolo quanto peraltro la storia politica del Paese dimostra in più grande formato. Perché nel corso della prima Repubblica, quando pure vigeva un sistema elettorale proporzionale, il numero dei partiti era contenuto entro limiti fisiologici, e così anche il numero di liste confezionate in vista delle elezioni amministrative. Il declino dei partiti tradizionali, che è stato insieme declino della loro base ideologica e del loro personale politico, si è tradotto in un incremento impressionante di formazioni politiche, con conseguente espansione delle possibilità di cambiare casacca, utilizzando spesso formazioni minori, liste e altre aggregazioni costituite ad hoc. Da questo punto di vista, può molto poco il correttivo maggioritario introdotto ai diversi livelli istituzionali, con leggi più o meno fortunate. In particolare, l’elezione diretta del sindaco è considerata la miglior legge elettorale che sia stata introdotta da vent’anni o poco più a questa parte, e forse lo è davvero. Ma anche la migliore ingegneria elettorale può poco, se i partiti non riescono più a raccogliere voti. Il meccanismo elettorale può assicurare governabilità, rafforzando i poteri del primo cittadino, ma non può sostituirsi a quello che una volta si chiamava il lavoro politico, e che non si capisce più come, da chi e perché debba essere fatto.

Prima ho detto che non è un paradosso, ma l’espressione più lampante della crisi e della difficoltà della politica di articolare ragioni per conquistare consenso. Ora però aggiungo che un paradosso c’è, dal momento che facciamo tutti i giorni la critica della casta politica in nome della società civile, e al dunque ci accorgiamo che rovesciare l’una nell’altra, come avviene massicciamente con la carica dei candidati, non dà affatto i risultati sperati. E, a giudicare dagli ultimi turni elettorale, non li dà nemmeno in termini di affluenza. Rischia anzi di finire come in «Le vie del signore sono finite», con Massimo Troisi che rinuncia a leggere perché lui è uno, mentre a scrivere sono in milioni. La scena sembra la stessa: migliaia di candidati, e l’elettore votante che nemmeno lui, da solo, ce la può fare.

(Il Mattino– Napoli ed., 7 maggio 2016)