Archivi del mese: giugno 2016

Maturità, i bei temi mai studiati in classe

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Anna Trieste: Posto che secondo me l’analisi del testo è la soluzione più facile (non devi scrivere niente, sta già tutto scritto, devi solo analizzarlo e eventualmente fare delle considerazioni) io penso che, esattamente come al mio esame di maturità, anche stavolta avrei scelto questa tipologia. Al di là dell’autore, Umberto Eco, che può piacere o meno ai ragazzi soprattutto per via di questo fatto che disse, non senza reazioni indignate soprattutto da parte dei giovani internauti, che i social networks hanno dato diritto di parola a “legioni di imbecilli”, penso che il brano scelto dal Miur sia proprio bello perché finalmente mette nero su bianco a che serve la letteratura. Certo, per gli studenti della letteratura stessa forse sarebbe stato meglio scoprirlo un poco prima, magari all’inizio del corso di studi e non l’ultimo giorno agli esami, e però, visti i tempi della burocrazia italiana, meglio tardi che mai. Magari adesso i maturandi sapranno che leggere Dante non serve soltanto a prendere voti alti in pagella ma pure a rispondere “Non ragioniam di loro ma guarda e passa” quando qualcuno li apostrofa come imbecilli

M. A.: Facile l’analisi del testo? Non so, a me – tanto per cominciare – avrebbero spaventato tutti quei puntini e quelle parentesi quadre, con cui hanno spezzettato il testo di Eco per proporlo debitamente accorciato agli studenti, o forse per offrire loro qualche spunto in più. Col risultato che gli spunti sono un po’ troppi, almeno per me: lingua, manutenzione della lingua, interpretazione, fedeltà e libertà dell’interpretazione… Ma i buchi! Chissà cosa c’era lì, in quei buchi, che gli studenti non han potuto leggere! Ecco, se tra i maturandi di quest’anno ce ne fosse uno particolarmente brillante, e capace di ironia quanto il buon Umberto Eco, uno che sapesse quali abissi deve superare il ponte di inchiostro nero costruito dalle lettere dell’alfabeto sul mare della pagina bianca, ebbene: questo studente potrebbe dedicarsi all’analisi di tutti quei buchi, delle intenzioni che celano e delle libertà che così si prendono. Invece di commentare il testo, proverebbe a fare lui un esercizio di letteratura degno dei calembour di cui Eco era maestro, dedicandosi ai puntini sospensivi, ai vuoti invece dei pieni. Un romanzo sulla costruzione del testo, tra funzionari che si rubano le parole, e ambigue paranoie ministeriali sulle dimensioni della pagina. Ho il sospetto che però la commissione non avrebbe apprezzato

A. T.: E dipende. Se nella commissione ci stava quello che all’esame mio mi chiese se avevo mai aperto un telecomando per vedere com’era fatto da vicino un campo elettromagnetico, forse sì! Ma ne dubito. Così come dubito che i ragazzi abbiano fatto i salti di gioia a vedere le tracce del cosiddetto saggio breve o articolo di giornale. Il rapporto padre/figlio; l’avventura dell’uomo (della donna in questo caso) nello spazio; il rapporto conflittuale di Bob Kennedy col Pil e quello di Vittorio Sgarbi col paesaggio. Rapporto altrettanto conflittuale, eh, chi se la scorda l’invettiva del critico contro i cancelli fallici che nascondevano ai napoletani la vista delle tuileries! Non so, a leggere le tracce ci mancava solo la fame nel mondo e la tossicodipendenza e poi gli argomenti da intervista a miss Italia erano completi. Ma si possono domandare cose come il valore del Pil a studenti cui la domanda più ardita che viene posta durante un’interrogazione di storia o di italiano è se effettivamente Ranieri con Leopardi ci andava solo a fare le escursioni sul Vesuvio o qualcosa in più?

M.A.: Io non ho obiezioni alle tracce “saggistiche” salvo una: le avrei prima sottoposte ai docenti. Cioè dico: le avrei prima fatte svolgere a loro, per vedere come se la cavano, e poi ai ragazzi. Ho l’impressione infatti che siano un po’ lontane dalla concreta attività scolastica. Poi magari mi sbaglio, ma temo che con i programmi svolti durante l’anno c’entrino assai poco. E forse ancora meno col metodo d’insegnamento. Siccome però le tracce mi piacciono, mi paiono tutte suggerire una qualche forma di “uso del mondo”. Concetti per capire il presente. Bella impresa, però allora rivedrei qualcosa dei programmi, e soprattutto dei metodi (non oso dire del corpo docente). Oppure le tracce sono scritte apposta per dire che bisogna cambiare, svecchiare, rottamare? (Lo so, non sono le giornate giuste per queste parole). Poi però confesso di non sapere se davvero a miss Italia chiedono il PIL, o dei viaggi nello spazio. Vorrà dire che quest’anno che viene me la guardo, oppure intervisto Samantha (Cristoforetti, intendo)

A. T.: Vabbe’ ma tu sei un professore, questa è una chiarissima ciceronata pro domo tua! Quanto a miss Italia, uà (forma sincopata di Uh All’anima delle anime del purgatorio)! L’anno scorso è successo quel finimondo per la risposta della miss sulla seconda guerra mondiale… Comunque, a proposito di storia, la traccia sulla prima volta delle donne al voto mi è piaciuta. Insomma, visto il dibattito (dibattito, mo’, ‘e mazzate!) sul referendum di ottobre tutti si aspettavano qualcosa sulla Costituzione e il fatto che il Miur non abbia tradito le attese declinandole però al femminile mi è parsa una buona idea. Se l’avessi scelto, io non avrei mancato pure un riferimento all’astensionismo registratosi alle ultime amministrative. A Napoli, ad esempio, tra i 7 su 10 che non sono andati a votare ci saranno state anche donne. Forse non sanno quanto è costato alle protagoniste della traccia d’esame quel voto che hanno deciso di non usare

M. A.: Se faccio il professore ti chiedo subito: quanti ragazzi sanno però chi sono e cosa hanno scritto Alba De Cespedes e Anna Banti, al cui ricordo è affidato il racconto di quel primo voto? Però hai ragione: bella traccia, e bel timing. A me sarebbe piaciuto anche affiancarvi il nome delle donne che quel due giugno di settanta anni fa sono entrate nell’Assemblea Costituente: ventuno. E poi avrei chiesto di riflettere sui cambiamenti dei costumi, e sulle battaglie in cui le donne sono impegnate oggi. Che non sono più battaglie per vedersi riconosciuti diritti, ma per raggiungere un’effettiva parità nel loro esercizio e nel loro godimento. Colpisce Anna Banti quando dice che solo le donne e gli analfabeti possono capire l’emozione di quella storica giornata. Perché si tratta di un’emozione tutta politica e tutta affermativa, più forte anche dei bisogni sociali o economici. Però ho parlato delle donne italiane. Ma le donne irachene con le dita sporca d’inchiostro, dopo il voto: che fine hanno fatto? E le donne musulmane che in Italia non possono ancora oggi andare in bicicletta, perché è sconveniente?

A. T.: Già. Come forse era troppo “sconveniente”, nella traccia del tema di attualità, parlare apertamente di “immigrazione” e non di “confine”? Non so, è vero che ponendo l’accento sul concetto di “frontiera” si è data ai maturandi l’opportunità di sviluppare il tema sia dal punto di vista dell’economia di mercato sia dal punto di vista dei rapporti tra paesi UE (vedi Brexit) e dell’altrettanto aperto mercato dei rifugiati (perché di mercato si tratta, purtroppo) ma mi sarebbe piaciuto infinitamente di più se il ministero avesse scelto precipuamente l’immigrazione e l’inclusione dei migranti come tema da sottoporre ai ragazzi. Usando una terminologia cara agli economisti, in fin dei conti dipende da loro se nel “medio e lungo periodo” il nostro Paese riuscirà davvero ad essere senza confini: antirazzista e multiculturale

M. A.: E qui invece io avrei fatto il contrario (ma mi rendo conto: è questione di gusti): tu Ministero vuoi la butti in politica, coi muri e coi confini, però lo fai con concetti alti, anzi alati. Allora io mi prendo i concetti alati e volo via sulle ali della metafisica (cercando però di non uscire fuori traccia). Torno infatti a una preoccupazione che prima ti manifestavo. Vanno bene le tracce, ma quanto sono aiutati i ragazzi, nello svolgerle, dalle cose che hanno studiato durante l’anno? Temo molto poco. Questa traccia potrebbero svolgerla da attenti scrutatori del presente, ma sarebbero dei veri fenomeni – e io mi auguro che lo siano, o che lo saranno – se riuscissero a legarci Kant e i limiti della ragione, o l’infinito di Leopardi, o il via alle navi di Nietzsche, o il trascendentalismo americano e il mito della frontiera, o persino Auschwitz e se è possibile Dio dopo Auschwitz, o quello che vuoi, ma insomma: pezzi del loro percorso di studio. Se ci riescono, allora sì che meritano il massimo dei voti. Varcano la frontiera dell’esame di Stato, dimostrano che quello che hanno imparato gli può servire anche per capire il mondo.

(Il Mattino, 23 giugno 2016)

L’Europa e il divorzio di ideali e interessi

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Qual è il significato storico e politico dell’Unione Europea? Ci attendono, dopo la folgore del referendum britannico sulla Brexit, settimane, forse mesi e anni di grande incertezza, ma più ancora dell’incertezza che peserà sui mercati, a preoccupare è l’incertezza circa quello che l’Unione Europea potrà ancora significare per i cittadini europei. Senza prendere sul serio questa domanda di senso, tutto il resto difficilmente basterà.

In questi anni il discorso sul progetto comunitario ho preso due strade. Lungo nessuna delle due l’Unione ha compiuto effettivi passi avanti, e lungo la via che i paesi europei avrebbero dovuto imboccare sono invece comparse le erbacce. Bisogna tornare al 2005, all’anno in cui la Francia e l’Olanda bocciano, in un referendum, la nuova Costituzione europea. I commenti di allora sono gli stessi di oggi (benché la decisione britannica di giovedì scorso sia ancor più deflagrante di quella francese). Ma soprattutto, da allora ad oggi nessun progresso è stato fatto. Il cammino dell’integrazione europea si è fermato quel giorno. Poco dopo, le economie occidentali vengono investite dalla crisi dei subprime americani, e si infilano in un tunnel recessivo di cui vediamo solo in lontananza, molto in lontananza, l’uscita. Di fatto, per paesi come l’Italia è ancora una chimera il ritorno ai livelli pre-crisi. Cosa succede, allora, in tutti questi anni? Vengono imbastiti due discorsi. Quello di gran lunga dominante è il discorso a cui è affidata la legittimazione delle scelte di politica economica e finanziaria che i governi europei sono chiamati a prendere. Sarebbe brutale, e anche falso, dire: è il discorso della troika, ma sta il fatto che alle opinioni pubbliche arriva così. E così soprattutto arriva agli strati più deboli della popolazione, quelli impoveriti e spaventati dalla crisi: per loro l’apertura dei mercati e la libera circolazione non sono nuove opportunità ma solo nuove incognite.

In ogni caso, è un discorso difficile, perché i fondamentali dell’economia dei paesi dell’area euro sono molto diversi: diversi i sistemi produttivi e i rispettivi mercati del lavoro, diverse le condizioni di finanza pubblica e i livelli di indebitamento pubblico e privato. Ovviamente, la materia rimane una materia prevalentemente economica, ma proprio perché si coltiva l’illusione di una soluzione puramente economicistica dei contrasti di interesse fra i paesi deboli della periferia e i paesi forti che ruotano intorno alla Germania, si lascia libero corso, per un inevitabile contraccolpo, ad una chiave di lettura sempre più nazionalistica della fase. E tra una paura vicina e una speranza lontana è sempre la prima a dominare.

D’altra parte, l’Europa rimane l’area del mondo che offre ai suoi cittadini la maggior quota di diritti, di libertà, e anche di sicurezza. Ma questo dato evapora quasi sempre in un secondo discorso puramente idealistico, condotto in termini sempre più astratti, fumosi, a colpi di valori e di principi, con evocazioni e aspirazioni imprecisate, con contorno di padri nobili ed eredità spirituali del tutto scollegate, però, dal terreno concreto della storia e della politica.

Questo terreno è dunque quello dove sorgono, ormai, soltanto erbacce. Sappiamo tutto dello spirito europeo – o almeno: c’è chi ne sa discettare – ma quotidianamente ci imbattiamo in una realtà molto più prosaica, dal respiro sempre più corto, e più gretto. Se una cosa l’Europa è stata, nel passato, è proprio il luogo di una mediazione che non sembra più in grado di esercitare. Le due strade – dell’interesse e dell’ideale – divaricano, e la sintesi storica e politica che dovrebbe congiungerle insieme non è più trovata.

Ma era chiaro a tutti, fin da principio, che qualunque cosa l’Unione fosse diventata, lo sarebbe diventata solo mantenendo la capacità di piegare alle ragioni di una politica internazionale di pace e di prosperità gli egoismi nazionali, e di avvicinare le altrimenti velleitarie idealità alla realtà concreta di vita dei popoli. Era chiaro a Roma, quando furono firmati i trattati, ma lo è stato in tutti i momenti di svolta della recente storia europea.

Compreso l’euro. Si ha ragione a dire che una moneta unica non può reggere da sola, ma chi ha mai dubitato che l’euro fosse figlio di condizioni politiche, ben prima che di condizioni economiche? Queste ultime non erano, e non sono, ottimali. Bisognava però pagare un prezzo perché, dopo l’‘89, non prevalessero spinte disgregatrici. A chi è stato pagato? Alla Germania, perché rimanesse europea, ottenendo però il risultato opposto di aver reso tedesca l’Europa? Può darsi. Ma se ad uscire sono i britannici, che sono sempre rimasti ancorati alla sterlina, e che hanno potuto godere per questo di alcune condizioni di vantaggio, non vorrà dire che più dell’euro ha potuto la sempre più grave miopia politica, l’incapacità dei governi di perseguire, oltre i confini dello Stato nazionale, obiettivi di crescita, di espansione, di progresso, di fiducia, l’adozione di policies sempre più prive di tutto questo?

Noi oggi ci chiediamo quale sarà il futuro dell’Unione. Nessuno lo sa. In realtà, nessuno lo sapeva o era in grado di dirlo anche il giorno prima del voto. Ma se Il discorso politico pubblico si riempie di paure, non possono certo essere gli operai della working class britannica a trovare il coraggio di dichiarare che, a dispetto di tutte le difficoltà, l’Unione Europea esiste e può ancora esistere. Chi, allora? Chi farà questa dichiarazione? Possiamo attendercela da Renzi, Hollande, Merkel, che si vedono domani? C’è da augurarselo. Ma il metodo intergovernativo, che finora ha consentito (vedi le politiche migratorie) che ci si accordasse in ventotto, salvo poi rimanere in quattro o cinque a dar seguito alle decisioni prese, è evidente che non basta più. Ci vuole tutt’altra forza, e volontà politica. Ma qual è, oggi, la volontà politica dei popoli europei?

(Il Mattino, 26 giugno 2016)

L’idea metafisica del confine

oltreQuando Kant, un filosofo che nessun liceale può dimenticare, mette la parola fine alla sua opera più grande, la Critica della ragione pura, di una cosa è particolarmente fiero, oltre che sicuro: di aver indicato i limiti della ragione umana. Quello che si può sapere, e quello che si può al più pensare (cioè immaginare), ma non certo sapere. Tutto l’illuminismo – del quale in larga parte è figlia la civiltà moderna – è fatto così: tira limiti, stabilisce confini, misura e ordina, mappa territori e ripartisce competenze (e, certo, anche diritti di proprietà). Non è proprio una brutta cosa, ma forse è vero: forse non basta. Il tema di ordine generale che il Ministero ha assegnato contiene un brivido metafisico che a un ragionatore come Kant, campione di razionalismo critico, faceva un po’ paura, ma che è difficile non avvertire, soprattutto intorno ai diciotto anni. Quello che il tema dice a proposito della frontiera, con parola settecentesca Kant chiamava sublime: se ne impadroniranno i romantici, e diventeranno per esempio gli interminati spazi e i sovraumani silenzi dell’infinito di Leopardi. Però il Ministero la butta in politica: e suggerisce al candidato di riflettere sui muri che tornano ad alzarsi in Europa, e sulle guerre che si combattono lungo i confini. Ma il candidato, se è un ragazzo in gamba, e se ha voglia di cucire le cose che legge sui giornali con quelle che avrà imparato a scuola, proverà a far meglio dell’estensore della traccia, e a riflettere sul significato politico delle categorie scomodate nel tema, ma pure sull’emozione metafisica che si nasconde oltre la frontiera, di là dal limite. E nel volto dell’Altro.

(Il Messaggero, 23 giugno 2016)

Il vento che spira tra Napoli e Bruxelles

vento

Caro Direttore,
tutti gli analisti sono d’accordo su un punto: l’analisi del voto in termini amministrativi e locali non è minimamente sufficiente. Di sicuro non dice nulla sugli effetti politici che il voto potrà avere. Io però vorrei far notare che in tutti i Paesi europei colpiti dalla crisi, vanno bene le forze politiche anti-sistema, anti-establishment, con tratti populisti e un forte rifiuto della politica e dei partiti tradizionali. C’è una stretta corrispondenza fra i dati dell’economia e quelli della rappresentanza politica: più è alta la disoccupazione, in specie giovanile, e più crescono i consensi alle forze di opposizione. Non si scopre nulla di nuovo, in realtà. Se non che questo esercizio di opposizione prende vie diverse da quelle legate ai partiti europeisti tradizionali, moderati o riformisti, conservatori o socialisti. Se insomma non sei in Germania e non ti chiami Angela Merkel, ti puoi chiamare anche Renzi e aver fatto la rottamazione, ma rischi di finirci dentro pure tu. Come del resto c’è finito Fassino, a Torino, e ha rischiato di finirci persino Merola, a Bologna.

Caro Professore,
è di prima evidenza che nel voto si intrecciano specificità municipali – penso per esempio a quanto il fallimento di Marino sia stato a Roma la premessa della vittoria dei Cinquestelle – con un vento di protesta che spira nei confronti delle élite. Che ha carattere identitario, verso contrappositivo e ribellistico, tratto generazionale, e che avvicina questa consultazione al referendum inglese. Ci sono due motivi per contestare le élite. Uno è interno a queste e riguarda la loro tendenza a diventare corporative non appena si formano, e quindi a costituirsi come entità chiuse che perdono contatto con la realtà. Purtroppo questa è una malattia molto italiana, che si può raccontare nel modo che segue: tu fai rientrare dall’estero dieci scienziati e li metti a lavorare in equipe. Dopo due settimane cercheranno di far assumere l’un altro parenti e amici, scambiandosi favori.
La seconda critica alle élite è esterna ad esse. Cresce nelle società occidentali, alimentata dalla suggestione di una democrazia diretta che sta diventando pensiero politico. Anche qui mi viene da raccontarla con un’immagine che non vuol essere ingenerosa nei confronti del successo grillino: nelle scuole italiane, ogni anno, alla fine di novembre gli studenti cacciano per due settimane i docenti dalle aule e fanno autogestione, o piuttosto occupazione. Cioè si impossessano della cattedra, azzerando con la loro protesta le forme simboliche dell’Autorità, che sono anche le forme della delega democratica: il potere e il sapere. Con un atto di autodeterminazione dal basso, soggetti che non hanno esperienza politica fanno propria la stanza dei bottoni. Chiara Appendino, che ieri dopo il risultato elettorale leggeva cono enfasi e retorica post-adolescenziale il suo commento scritto davanti alle telecamere, sembrava – sia detto senza arroganza – una liceale che espone la sua tesina alla prova di Maturità. Poi, naturalmente, può darsi che gli studenti facciano meglio dei professori. Non si può escludere, vista la qualità media dei «docenti» defenestrati. Il fatto è che nella protesta vengono travolti anche uomini di qualità come Piero Fassino. Questo fa temere che, oltre ad essere anti-elitaria, la rivoluzione in atto possa essere «senza qualità».
C’è un ultimo spunto che lei mi offre, e riguarda il fatto che la democrazia italiana non oppone contro il vento anti-elitario finestre o persiane adeguate. Certo, non è lo stesso chiamarsi Renzi o piuttosto Merkel, e aver rinnovato la classe dirigente o piuttosto aver avviato solo la sua rottamazione. Ma, se di fronte all’avanzata dell’antipolitica, la politica non ha alzato una solidarietà cosiddetta «delle larghe intese» è perché la dimensione civile della democrazia in Italia è diversa da quella francese, dove al secondo turno socialisti e moderati hanno fatto blocco sbarrando la strada al lepenismo. Vent’anni di bipolarismo violento e vendicativo, in cui qualunque mezzo è stato usato dal centrosinistra per buttare giù dalla torre Berlusconi, hanno forgiato un paradigma che ha funzionato a parti invertite. Così gli elettori della Meloni a Roma e di Rosso a Torino sono stati offerti in dono, o piuttosto si sono autoconsegnati, alle due candidate dei Cinquestelle, secondo lo schema «meglio i grillini purché Renzi perda». Con l’effetto di aizzare l’estremismo latente nel centrodestra ma umiliare i suoi elettori moderati, che certo non si riconoscono in questo esito. È il prezzo di un’immaturità civile che la democrazia italiana paga per non aver mai voluto desacralizzare il totem del disconoscimento dell’avversario, che segna la storia del suo lessico politico.

Caro Direttore,
penso di trovarmi d’accordo con lei su molte cose. Anzitutto sul fatto che la sua analisi mi risparmia commenti su cosa ha funzionato o non ha funzionato in termini di comunicazione, oppure sulla novità che viene ogni volta premiata. Lo diceva Leopardi, nel dialogo sulla moda e sulla morte, che le due cose vanno insieme, e quello che oggi è di moda domani è già morto. Il fatto è che nessun Paese può divorare così rapidamente le sue classi dirigenti, cambiarne una ad ogni nuova stagione primavera-estate. Per questo, io sono ad esempio tra coloro che non sono affatto confortati dal sapere che la Raggi mollerà tutto fra cinque anni, in omaggio alla regola grillina dei due mandati.
Questo per dire che, certo, lei ha ragione: abbiamo, come Paese, un problema di élite. Siamo addirittura alle prese con l’idea che le élite, in politica, non ci devono proprio essere (ma chissà se quegli stessi che issano questa bandiera si accorgono che, in tutti gli altri mondi sociali ed economici, le élite ci sono, e come, e durano pure un bel po’).
Io mi limito a pensare che contro il vento, che lei dice soffia forte, prima ancora che le persiane o le serrande italiane sono quelle europee a non offrire riparo. Però è vero anche che in Italia più che in altri paesi un riflesso ideologico residuale spinge il centrodestra a votare Cinquestelle, pur di fregare Renzi, proprio come del resto il centrosinistra votò cinque anni fa De Magistris, pur di fregare Lettieri (anche se questa volta sembra aver preferito l’astensione). E a proposito di Napoli, colpisce che mentre a Roma e a Torino i Cinquestelle hanno vinto ingentilendo il loro profilo e cercando anzi di presentarsi con un volto pragmatico, qui De Magistris ha accentuato, al contrario, i tratti populisti e movimentisti. Forse pensa che all’inizio di un’avventura negli spazi della politica nazionale ha bisogno anche lui di un bel Vaffa day (declinato – si capisce – napoletanamente). O, più semplicemente, pensa di dover distogliere l’attenzione dai temi amministrativi della città.

Caro Professore,
c’è un confronto che spiega per intero il senso e il limite della vittoria di De Magistris a Napoli. Che è vittoria piena, mai messa in discussione né durante né prima del ballottaggio. Ma è anche il plebiscito di una minoranza che, in quanto unica ad essere organizzata tra altre minoranze frantumate, diventa maggioranza. Che intendo dire? Che a Napoli ha votato il 36 per cento degli elettori, poco più di un terzo, pari a 288mila persone, il 66 per cento delle quali, cioè poco più di due terzi, ha scelto il sindaco con 186mila voti. Ma i due terzi di un terzo fanno meno di un quarto. Solo un napoletano su quattro ha votato De Magistris. Vuol dire forse che la sua è una vittoria dimidiata? No, per nessun motivo, lo ribadisco a scanso di equivoci: è vittoria netta. Ma in una città dove tre elettori su quattro, pari a 600 mila cittadini, non hanno votato per il vincitore, e 500 mila non hanno votato al secondo turno per nessuno. Per comprendere le dimensioni del fenomeno ci basti pensare che cinquecentomila sono gli elettori di Palermo, che è la quinta città d’Italia per popolazione.
Con questo intendo dire che, in un contesto elettorale come quello qui descritto, De Magistris dovrebbe sfuggire al rischio o alla tentazione di diventare il capo di un popolo, ancorché coeso, che occupi uno spazio simbolico desertificato dalla diserzione civile di gran parte dei cittadini. E dovrebbe invece porsi in concreto l’obiettivo di essere il sindaco per tutti e di tutti, soprattutto di coloro che non lo hanno votato, interpretando il suo ruolo nel segno del dialogo e della riconciliazione. Non solo con le istituzioni, come il governo, contro le quali ha indirizzato la sua retorica elettorale, ma anche con le residue soggettività civili di una città orfana di politica. Se guardo al lessico rivendicativo delle sue prime dichiarazioni da sindaco, dovrei ritenere che questa preoccupazione continui ad essergli estranea. Che, anzi, la percezione di una debolezza della premiership galvanizzi le sue velleità. Tuttavia l’ottimismo della volontà m’induce a sperare in un rasserenamento del clima.
Caro Direttore,

io non confido molto, lo confesso, nella volontà di De Magistris di rivolgersi ai napoletani che non lo hanno votato. Mentre scriviamo, lui sta già rivolgendosi piuttosto agli italiani a cui chiederà il voto. E di sicuro punta a indebolire la leadership di Renzi. Aggiungo: purtroppo, perché i voti assoluti dicono con maggior precisione delle percentuali che cosa sta succedendo. In realtà, io non demonizzo, in generale, l’astensione, non sono tra quelli che pensa che una democrazia è veramente tale solo se votano tutti. Ma chi non vota può farlo perché ha poco interesse per la politica, o perché la respinge in blocco. Può trattarsi cioè di un non-giudizio, o di un giudizio negativo, di rifiuto. In Italia temo prevalga purtroppo il secondo atteggiamento.
Però resta vero quello che Lei diceva prima a proposito di forme nuove di democrazia e partecipazione. Io declinerei il tema in questo modo: che cosa significa «rappresentanza»? Se indica solo una tecnica di organizzazione dei corpi politici, il concetto farà la felicità di giuristi e ingegneri elettorali, ma non della politica. Che ha bisogno di mettere effettiva rappresentatività nella rappresentanza. E intendo: non solo autorevolezza, ma anche fiducia, affidamento. Dubito che ci sia, non verso questo o quel singolo candidato del Pd, perché francamente non avrei troppe obiezioni da muovere a Giachetti o a Fassino, ma proprio verso il Pd, e verso molta parte della politica italiana.
Sia o non sia così, il confronto è anche fra un Movimento, che declina senza incertezze i propri obiettivi strategici, e due schieramenti – quello di centrosinistra e quello di centrodestra – in chiara difficoltà di visione e di orizzonte. Quanto al centrodestra, anche in crisi di leadership.
Renzi ha certamente la carta del referendum costituzionale. Deve giocarla bene, però, e non è facile. E deve soprattutto ripensare il Pd, un minuto dopo (o un minuto prima?) il voto d’autunno. Chiaro che, se lo perde, quel ripensamento ci sarà lo stesso, ma non è detto che ci sarà a lungo il Pd. Perché, caro Direttore, tutte le spinte di rinnovamento degli ultimi vent’anni sono venute insieme a nuove sigle politiche: Renzi è l’unico che ha invece scommesso di farlo, tenendo la sigla che ha trovato. Da ieri, si starà domandando se ha fatto bene.

Caro Professore,

la retorica elettorale del centrodestra è stata quella di dire: «Uniti si vince». Dopo l’esito del voto di Milano si potrebbe al più dire: «Uniti si tengono insieme i cocci di quello che resta e si perde con onore». Sono due cose molto diverse. Perché la necessità di essere e apparire coeso è, per il centrodestra, una pregiudiziale, rassicurante per un Paese che non sarà mai, per fortuna, estremista o lepenista in maggioranza, ma che esprime piuttosto una domanda di politica moderata da tempo rimasta senza risposte. Riunire i cocci di una guerra fredda che ha visto letteralmente evaporare la classe dirigente liberale è solo il primo passo, Occorre riattivare una dialettica e soprattutto individuare un leader capace di sostenere una proposta moderata credibile, di aggiornarla ai tempi e di renderla visibile e diversa da quella che fin qui da sinistra ha proposto Renzi. Non basta la memoria riverniciata di quello che fu il 1994, occorre un coraggio politico che ancora non si vede e che non è surrogabile né da un’investitura monocratica di Berlusconi, né dalla scoperta del tecnocrate di turno, prestato alla politica e pronto a vestire per una settimana o due i panni dell’erede, per poi essere accantonato.

Quanto alla sfida referendaria, colgo nel suo racconto una drammatizzazione che indubbiamente non è infondata. Tuttavia i due voti, quello per le città e quello per la riforma costituzionale, non sono sovrapponibili. Non foss’altro perché da qui a ottobre c’è tempo e modi per mobilitare quanti l’altro ieri hanno disertato le urne. Le coordinate della sfida sono già scritte e a mio avviso non più modificabili, e cioè: uno contro tutti. Non tanto per l’errore di personalizzazione compiuto dal premier, quando ha detto «se perdo mi dimetto». Grillo e questo centrodestra non avevano bisogno dell’assist, ingenuo in verità, del premier per coalizzarsi contro di lui. Il tratto contrappositivo è un elemento della cultura civile e politica di un Paese dove persino i costituzionalisti paiono regolare sul referendum i loro conti accademici. Renzi, che con la sua consueta onestà intellettuale ha ammesso la sconfitta dimostrando di voler cogliere in pieno il suo significato politico, ha tre mesi per rimettersi in sintonia con gli italiani e convincerli che la riforma costituzionale e quella del suo partito sono credibili e possono diventare due spinte al cambiamento per il Paese. Per farlo dovrà ridurre il tasso di verticalizzazione della sua politica e aumentare l’ascolto e il dialogo con le diverse piazze, e tra queste soprattutto quella virtuale, La Rete resta centrale nella formazione del consenso politico e i partiti, tutti tranne i grillini, ne ignorano l’importanza e l’uso migliore.

(Il Mattino, 21 giugno 2016)

E il sindaco si prepara a sbarcare a Roma

Dema

Quella di ieri è la seconda vittoria, ma la prima fu un vero sconquasso, e bisogna cominciare da lì per raccontare Luigi De Magistris. Che fu eletto primo cittadino di Napoli il 30 maggio 2011, in un momento di enorme difficoltà tanto del centrosinistra quanto del centrodestra. Per Berlusconi fu l’«annus horribilis», conclusosi con le dimissioni da Palazzo Chigi, in novembre. Per il Pd, di orribili c’erano già state a Napoli le primarie, annullate per sospetti brogli. Il centrosinistra andò al voto con una carta di ripiego, il prefetto Morcone, terzo al primo turno. Al ballottaggio i suoi voti si riversarono quasi interamente sull’uomo nuovo, quello con la bandana arancione, che la sera del voto a braccia alzate griderà: «Avimme scassato tutte cose!».

De Magistris veniva da una breve esperienza come parlamentare europeo. Di quei due anni a Strasburgo si ricorda solo l’enorme numero di preferenze: più di quattrocentomila. L’Italia dei Valori, il partito di Antonio Di Pietro che lo aveva candidato, di lì a poco sparirà dalla scena politica nazionale. Perso il taxi dell’IdV, De Magistris sposa «Rivoluzione civile», il movimento inventato dal pm palermitano Antonino Ingroia nel 2013. De Magistris lo sostiene, ma le elezioni si rivelano un disastro: anche Ingroia finisce dietro le quinte (ora fa l’avvocato).

La vittoria di quest’anno prepara dunque, in prospettiva, il terzo assalto di De Magistris ai palazzi romani.

Lo schema è quello provato all’ombra del Vesuvio: legalità, democrazia, partecipazione. Ma anche: antagonismo dei centri sociali, rivoluzione senza partiti, indignazione sociale, benecomunismo e diritti civili. Luigi De Magistris è un magistrato, che ha lasciato la toga con l’aureola dell’uomo senza macchia che ha osato sfidare i potenti. Dalle sue inchieste non sono venute condanne, ma lui ha sempre sostenuto che è perché gli sono state sottratte. Di sicuro, l’impegno in politica è nato in nome della lotta contro la corruzione e la camorra. Più che servizi pubblici efficienti e buche stradali riempite, De Magistris ha promesso la «liberazione di Napoli», e ora gli piacerebbe esportarla nel resto del Paese. La spina nel fianco sono i conti pubblici: l’economista Riccardo Realfonzo predispose, da assessore, un piano di razionalizzazione delle spese che al sindaco dispiacque assai. Realfonzo si dimise, e il piano non fu mai attuato. Ora Realfonzo giudica fallimentare la situazione del bilancio comunale.

Durante la scorsa consiliatura un momento di svolta però c’è stato, quando il sindaco, condannato in primo grado per abuso d’ufficio (per una storia legata alla sua attività di Pm), per effetto della legge Severino viene sospeso dalle funzioni. Prima ancora della assoluzione che lo ristabilisce nei suoi poteri, lui trasforma la disavventura in una medaglia sul petto. Diviene sindaco di strada, riuscendo a stare, per la gente, fuori dalle stanze del potere pur sedendo a Palazzo San Giacomo.

Infine il colore. Il bell’aspetto, l’aria guascona, l’orgoglio napoletano, una comunicativa diretta, un tratto giacobino e qualche sguaiataggine, una certa dose di meridionalismo rivendicativo e di romantici riferimenti alla rivoluzione zapatista. Il risultato è il voto di ieri. Lui ha sempre detto che i partiti personali non lo riguardano, però ha dato le proprie iniziali al movimento che ha fondato («Dema»). Ci pensava già nel 2011, ci torna a pensare adesso. Dalla procura di Catanzaro, passando per Napoli, provare a sbancare Roma: nell’anno in cui gli oppositori di Renzi tentano tutti insieme lo sgambetto finale, ad allungare la gamba in un tipico fallo di reazione c’è anche Luigi De Magistris.

(Il Messaggero, 20 giugno 2016)

Ecco quanto vale il test delle metropoli

Città

Al ballottaggio vanno oggi le principali città italiane. Roma, Milano, Napoli, ma anche Torino, e Bologna. Test amministrativo ma anche test politico. Per molte ragioni: per il numero di elettori chiamati al voto; per il valore simbolico che hanno le città interessate; per le figure politiche nuove che affrontano la prova elettorale; per il momento in cui cade questo voto, dopo due anni di governo Renzi e poco prima del voto sulla riforma costituzionale; infine, per il profondo cambiamento della scena politica rispetto a cinque anni fa, quando Berlusconi era al governo, Renzi invece a Firenze e i Cinquestelle  erano solo Beppe Grillo. Nessuna delle tre principali forze politiche del Paese aveva cioè la fisionomia che ha attualmente. Anche gli umori del Paese sono cambiati: alla crisi del centrodestra, che culminerà con le dimissioni del Cavaliere, schiacciato dalla montagna dello spread, c’era ancora chi immaginava di dare una risposta di segno moderato, oppure tecnocratica. Questa ipotesi è definitivamente tramontata: Monti è sparito, il successore Letta è a Parigi, e chissà se tornerà, le piccole formazioni centriste che provavano a imbastire un terzo polo (Rutelli, Casini, Fini) hanno già subito la dura replica delle urne. Oggi l’alternativa è piuttosto immaginata sotto il segno della rottura, della discontinuità di programmi, ma soprattutto di classe dirigente e di sistema. La posta in gioco è molto alta. La si può rappresentare in due modi. Come la partita che l’establishment gioca contro gli homines novi che provano a espugnare la Capitale e, così, il Paese. Oppure come la resistenza contro la deriva populista della democrazia diretta. Ma anche: come l’ultima spallata ad un sistema corrotto e irriformabile, o come l’ultima zattera di salvataggio per la politica italiana. Non tutto dipende dal voto di oggi, ma una buona metà sì. L’altra metà sarà in autunno. E anche se le partite si possono ribaltare nel secondo tempo, giocare bene il primo non è inutile.

Quale impatto sulla leadership di Renzi e sulla battaglia per il referendum.

Prima ipotesi. Renzi e il Pd tengono bene. Il che significa che eleggono Sala a Milano, Fassino a Torino e Merola a Bologna. Napoli è ormai fuori dai giochi, e a Roma solo un miracolo può portare Giachetti in Campidoglio. Ma se Renzi mantiene le città del Nord, la sua leadership esce rafforzata, in vista del referendum di autunno. Col passare delle settimane la campagna elettorale ha subito infatti una brusca virata. Il premier aveva cercato di fare del prossimo appuntamento referendario il momento vero del giudizio sulla sua leadership, per distogliere da sé l’amaro calice del voto amministrativo. Lo spingeva in tale direzione non solo l’ovvia considerazione che il voto sulle riforme tocca essenzialmente il suo programma di governo, nato proprio con un simile mandato. Ma anche un dubbio circa la credibilità e forza del Pd nelle diverse realtà locali. Perché legare allora la sua sorte a quella dei sindaci, che avevano avuto in questo quinquennio di crisi un bel po’ di gatte da pelare? Le cose non sono però andate in questo modo. Vuoi per il tipo di campagna elettorale condotta, vuoi perché questo voto ha il valore di un’elezione di mid-term, in cui al governo si fa una specie di tagliando, sta di fatto che si è costruito un fronte anti-Renzi, che ha sovrapposto al giudizio di merito sull’operato delle amministrazioni locali un giudizio più generale sul premier. È ciò che permette a Salvini di fare l’endorsement per la Raggi a Roma o per la Appendino a Torino. Nello stesso gioco si è infilato pure De Magistris, che aspira a una ribalta nazionale e vorrebbe essere lui a derenzizzare il Paese: così anche da lui piovono auguri ai candidati pentastellati.

Seconda ipotesi. Renzi perde Milano e Torino. Si arriverà lo stesso all’appuntamento autunnale, ma a quel punto l’onda avversa a Renzi si sarà ulteriormente sollevata. Anche dentro il Pd. Il voto referendario, peraltro, è fatto allo stesso modo: non si vota per il proprio partito, e può quindi di nuovo accadere – come sta già accadendo – che si saldino insieme tutte le opposizioni contro Renzi. Che nel frattempo temerà anche di aver perso il feeling col suo popolo. Il referendum costituzionale potrebbe divenire davvero, in quel caso, un’ordalia sul capo di Renzi.

Quale spazio per una politica “altra” o per una sinistra (?) altra costruita sull’asse Roma Napoli tra Cinquestelle e Arancioni.

Lo spazio c’è. Il primo ad averlo capito è stato Matteo Salvini, quando ha preso la Lega, ha mollato tutta o quasi la retorica nordista e federalista, e ha cominciato a prendersela con l’Europa e con Renzi. Come mai? Perché quello spazio si è di molto ampliato, in particolare, nel Mezzogiorno. La Lega vorrebbe intercettarlo, si è sposata a Roma con Fratelli d’Italia per questo, ma non ce l’ha fatta. Diversamente è andata per i Cinquestelle. Che a Milano sono rimasti di gran lunga al di sotto della media nazionale. E anche a Torino, dove pure hanno messo in campo la loro migliore candidata, sono sì cresciuti ma, salvo sorprese, non abbastanza da rovesciare il tavolo. La prova amministrativa di Fassino ha consentito al centrosinistra di costruire almeno un argine all’avanzata dei grillini. Ma questo argine non c’è più da tempo al Sud. La bandiera arancione della rivoluzione ha già svettato per cinque anni su Palazzo san Giacomo, e probabilmente svetterà ancora. Si tratta di una proposta politica tinta di demagogia e di populismo, certo, ma con la vittoria della Raggi a Roma si salderebbe comunque un terreno comune, nel quale far crescere una forma nuova di appassionamento alla politica. E istanze di partecipazione, di democrazia diretta, di ambientalismo e benecomunismo. Si tratterebbe, in un linguaggio più posato, del rifiuto del moderatismo e del riformismo, cioè delle due principali risposte di governo reperibili nelle tradizioni politiche e partitiche europee, che in modo diverso hanno guidato i passi dei governi italiani negli ultimi cinque anni. Compreso Renzi, la cui carica di rottura è andata giocoforza attenuandosi, una volta arrivato a Palazzo Chigi. Nel 2011, Ermanno Rea, intellettuale storico della sinistra, scrisse che avrebbe votato il pm napoletano proprio per sottrarre la città al moderatismo all’italiana di cui Napoli era rimasta vittima. Questo sentimento rimane diffuso in larghi strati della popolazione, insieme a un giudizio negativo sulla classe dirigente del Paese. Per questo, la retorica della novità rimane quella principale con cui caratterizzare una forza politica, e i Cinquestelle la usano abbondantemente.

Quale esito per la sfida nel centrodestra e per una leadership berlusconiana o post berlusconiana moderata?

C’è vita nel centrodestra? Sì, c’è vita, e il caso di Stefano Parisi a Milano lo dimostra. Bisogna però ricordare un dato: l’ultimo governo Berlusconi è caduto la bellezza di cinque anni fa. Sembrava già allora che il Cavaliere sarebbe uscito di scena. In realtà, dopo cinque anni, è ancora intorno al suo letto d’ospedale che si riuniscono i maggiorenti di Forza Italia per capire il da farsi. Segno della longevità politica di Berlusconi? Sicuramente, ma anche espressione plastica della difficoltà ancora irrisolta di trovare una via d’uscita al problema della leadership. Se Parisi, ribaltando i pronostici, dovesse vincere a Milano, un centrodestra a guida moderata, capace di tener dentro anche la Lega, prenderebbe di nuovo forma. Non è stato così, del resto, anche in Liguria, lo scorso anno? Lì vinse Giovanni Toti, candidato berlusconiano, approfittando delle divisioni del centrosinistra. A Roma quest’anno è andata diversamente, e anzi la spaccatura ha raggiunto il punto di massima intensità: di là Meloni e Salvini, la destra-destra, di qua invece Marchini e Bertolaso e tutto il mondo dialogante del centro. Risultato: niente ballottaggio. Ma con la vittoria di Parisi il centrodestra saprebbe almeno di avere ancora davanti a sé una strada, percorribile con una leadership pragmatica, aperta, con tratti liberali e europeisti. Disponibile alle maniere ferme sui temi della sicurezza e dell’immigrazione, ma anche capace di stabilire buoni agganci col mondo imprenditoriale, finanziario e delle professioni che aveva guardato con fiducia al primo Berlusconi. Questo significa oggi Milano, insieme all’idea di una rinnovata centralità della capitale morale del Paese, soprattutto se Roma dovesse andare ai Cinquestelle. La ricostruzione del centrodestra richiede tempo, ovviamente, e non sarebbe indolore per la vecchia guardia berlusconiana. Ma la vittoria di Parisi accelererebbe il processo. La sua sconfitta, invece, lascerebbe ancora la destra italiana in balia del ruolo di interdizione di Matteo Salvini.

Quale destino per la classe dirigente nuova, seminuova e vecchia, del Pd?

Le cose vecchie sono destinate comunque a perire. E nel Pd a perire anche prima del solito, perché si tratta di un partito che nel suo codice genetico ha iscritto una retorica dell’innovazione, del rinnovamento, della rottamazione, che spinge persino il premier ad assicurare che lui andrà via comunque dopo due legislature. Crono che divora i suoi figli.

Se Renzi dovesse essere messo in difficoltà dal voto di oggi, e magari perdere a ruota il referendum, tutto l’asse del partito ruoterebbe ancora una volta. Ma anche se la ruota dovesse fare un altro giro, è più probabile immaginare che vengano su nuove figure, che non prefigurare il ritorno in auge degli uomini in panchina. Il sindacato di blocco esercitato fin dai tempi della segreteria Veltroni, e poi con Franceschini e Bersani, è saltato.

Sui territori, poi, in molti casi è saltato il Pd. Lo si vede bene al Sud. Cos’è il Pd napoletano? Un aggregato di micronotabili. E quello salernitano? Un «nom de plume» di Vincenzo De Luca. Quello pugliese? L’esercito di riserva di Emiliano. E via così. Renzi ha ereditato questa situazione: non è riuscito a cambiarla. Probabilmente, sarà la nuova legge elettorale, con i capilista bloccati e le preferenze, a modificare più in profondità le cose e a formare una nuova classe dirigente. L’ultima leva di sindaci non ha infatti portato lo stesso vento che si sollevò negli anni Novanta, coi vari Bassolino, Cacciari, Chiamparino. Non c’è nessun candidato del Pd, nelle principali città italiane, che possa svolgere lo stesso ruolo di allora (ruolo in verità effimero, più gonfiato mediaticamente che incisivo politicamente). Se dunque deve passare per i sindaci la novità della politica italiana, sarà sull’altro versante, quello dell’antipolitica arancione o a Cinquestelle. Il che però vuol dire che, usi o no il lanciafiamme, come ha promesso di fare a Napoli, Renzi dovrà darsi molto da fare, per rimettere in carreggiata il partito. A meno di non convincersi che è solo una irreformabile zavorra, un parto malriuscito, la bad company da mollare al suo destino.

(Il Mattino, 19 giugno 2016)

Se la politica si cela dietro una maschera

neutraTra Virginia Raggi e il Campidoglio c’è di mezzo il voto di domenica, ma pure qualche grana, scoppiata nelle ultime ore con la rivelazione che tra le cose non dichiarate dalla Raggi ci sono pure incarichi ricevuti da aziende pubbliche. Il principio grillino dell’assoluta trasparenza di tutti su tutto e innanzi a tutti sembra violato, e così pure la veridicità delle autocertificazioni presentate dalla aspirante sindaco al Comune di Roma, ma per i Cinquestelle sono solo schizzi di fango, sollevati strumentalmente. O al massimo pagliuzze, a confronto delle travi che sarebbero negli occhi di tutti gli altri.

Ed effettivamente di pagliuzze si tratta, a confronto con le inchieste di Mafia Capitale, o con i quotidiani conti che l’opinione pubblica è chiamata a fare con le inchieste per corruzione. E però se uno impronta tutta la propria retorica, e coltiva il proprio elettorato, e fa manbassa di voti sulla base di una intransigente discrimine morale – per cui di qui ci sono solo gli onesti, mentre di là non vi sono che farabutti, o complici dei farabutti – è chiaro che pure le pagliuzze rendono l’occhio meno limpido. E magari un Pizzarotti qualunque potrebbe accorgersene e chiederne conto: perché al sindaco di Parma si è imputato di non aver comunicato l’avviso di garanzia ricevuto, mentre a Virginia Raggi si permette di presentare dichiarazioni omissive, e forse mendaci?

La risposta c’è, in realtà, ed è pure molto semplice: è la politica, bellezza. E cioè: non quella cosa sporca e ignominiosa che i Cinquestelle pensano che la politica sia, ma quella logica intrisa di realismo, di prudenza, di mali minori, di fini che non giustificano tutti i mezzi ma qualcuno sì, per la quale un movimento politico che si appresta a conquistare la Capitale non butta tutto a mare per qualche piccola furbizia della propria candidata di turno. Si tratta di una logica che però, per farla breve, non permetterebbe di usare l’argomento che tanto sono tutti uguali e fanno tutti schifo (tutti gli altri, beninteso). E tuttavia è proprio questo l’argomento che connota il voto qualunquista che gonfia il risultato elettorale del movimento pentastellato. Sicché come si fa? In un modo solo: accettando non la disonestà morale, ma una certa quota di disonestà intellettuale, per cui certe cose si fanno ma non si dicono, e anzi si dice se mai il contrario. Si dice a gran voce che basta una bugia, un silenzio, la minima violazione di una regola, il più sottile dei veli di ipocrisia per essere espulsi dalle integerrime file dei cittadini a cinque stelle, ma poi si espelle solo se  e quando conviene (oppure solo se non conviene fare il contrario). Se poi nelle regole non c’è salvezza, tocca a chi sta al di sopra delle regole, cioè il garante supremo, Grillo. Ed è lui insindacabilmente a risolvere il caso. a sua totale discrezione.

Sul voto di domenica questa vicenda non inciderà più di tanto. Ma c’è un problema più di fondo, che va oltre il voto e che perciò merita di essere segnalato. Perché quella logica della politica che i Cinquestelle rifiutano a parole, ha dalla sua la forza delle cose reali. Le cose reali sono quelle che ritornano, e che le parole, alla lunga, non riescono a superare. Si prenda il caso De Magistris, il più clamoroso scollamento fra la demagogia messa in campo per raccogliere consenso, e i concreti atti amministrativi e di governo della città. Sui quali De Magistris non chiede di essere giudicato, preferendo invece parlare di laboratorio Napoli e di un movimento politico transnazionale che rivoluzionerà la democrazia italiana e, perché no?,quella mondiale.

Anche nel caso del voto napoletano, al tornante elettorale si presenterà probabilmente davanti il populismo «non leaderistico» di De Magistris (non leaderistico, dice il Sindaco: e se lo fosse stato, di grazia: cosa sarebbe stato?). Ma resta la doppiezza retorica: non solo la fuga dai problemi veri della città, ma, più gravemente ancora, la rimozione di quell’esercizio di responsabilità in cui la politica consiste.

Le maniere di proporsi dei grillini, come di Giggino, si somigliano molto: e infatti il sindaco di Napoli lancia abboccamenti e manifesta simpatie. Non direi però che sono tutte e integralmente di destra. Se mai, di una destra populista e demagogica, disposta a buttare all’aria tutto il quadro degli strumenti politici e istituzionali disponibili, in una democrazia, pur di indossare quella eterna maschera della incorruttibile virtù morale, che consente di fare piazza pulita di tutto il resto e di tutti gli altri.

Capiterà, a un certo punto, di doverla togliere. E non sarà per i peccati veniali della Raggi, o magari di De Magistris col fratello Claudio, ma per la obiettiva necessità di trovare compromessi, condurre mediazioni, assumersi responsabilità, accettare qualche sana incoerenza pur di portare a casa qualche risultato.

Che ne sarà allora del sacro furore dei grillini, o della confusa caciara del bel Gigi?

(Il Mattino, 18 giugno 2016)

Il lato oscuro dei cugini coltelli

coltello_schiena-6Pur di fare cadere Renzi, Massimo D’Alema è disposto a votare Virginia Raggi. L’indiscrezione pubblicata ieri da Repubblica è stata immediatamente smentita, e tuttavia è rimasta in pagina, sul sito del quotidiano, l’intera giornata: come mai? Pura malevolenza? Forse no, forse il retroscena francamente impastocchiato – e però confermato, anche dopo la smentita, dal giornale – ha un grado di plausibilità tale che non riesce difficile credere ad esso, e può reggere l’apertura della homepage di Repubblica, e il susseguirsi delle dichiarazioni, per tutto il santo giorno. C’è infatti un punto politico, che regge l’articolo, e che non si può liquidare con una smentita ufficiale. È il seguente: che fare con Renzi? Che fare con un premier che, qualora vincesse il referendum costituzionale, si guadagnerebbe il via libera per il restante della legislatura e pure per la prossima? Che fare, se non provare ad assestargli una prima botta con le amministrative, sfilandogli Milano, Roma, e magari pure Torino, per togliergli definitivamente l’aura del vincitore, e poi dargli una seconda botta in autunno, con il no alla riforma costituzionale? Per l’uno-due, c’è bisogno però che prevalga il leit-motiv dell’antipolitica, che il comune denominatore sia il ritornello del «mandare tutti a casa», anche se i vessilliferi di una simile bandiera dovessero essere i grillini (anzi le grilline, la Raggi a Roma e la Appendino a Torino)?

Questa idea, del resto, è formulata in maniera del tutto esplicita da Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel: meglio che Renzi perda. Chi è contro le politiche del governo ne vuole la caduta e deve votare di conseguenza: Roma e Torino c’entrano poco (e i cittadini romani e torinesi pazienza,capiranno). Questo ragionamento si capisce che faccia breccia alla sinistra del Pd, perché lì, in quell’amalgama politico abbastanza indefinito che obiettivamente stenta a prendere forma, si trovano, certo, dirigenti politici (come Fassina, o D’Attore) usciti dal Pd in rotta di collisione col segretario, ma pur sempre provenienti da una nobile e lunga tradizione di realismo politico, ma anche pezzi di sinistra radicale e antagonista, che invece praticano da tempo la logica del «tanto peggio, tanto meglio», in cui quasi sempre finisce col rovesciarsi ogni professione di purezza, o di intransigenza.

Questi ultimi, probabilmente, non hanno nemmeno bisogno di turarsi il naso, per votare i Cinquestelle. Ma nel Pd? Nella minoranza bersanian-dalemiana? In uomini che sono stati al governo, che quando erano al governo hanno provato pure loro a fare la riforma costituzionale, e che ai tempi della Bicamerale hanno saputo reggere per anni alla critica di inciuciare con il Cavaliere? Uomini che, quanto a duttilità e a spirito di compromesso, necessario dopo l’89, in un processo di ridefinizione della sinistra riformista condotto spesso al buio, a tentoni, senza lumi ideologici, in condizioni di obiettiva debolezza politica e programmatica, uomini– anzi: capi comunisti – che, in simili condizioni,si sono spinti molto avanti su molti terreni, e hanno votato cose come il pacchetto Treu sul mercato del lavoro, o, in politica estera, i bombardamenti nella ex-Jugoslavia, e la religione del pareggio di bilancio in politica economica: in questa generazione di uomini politici che è riuscita a cambiare pelle, completando impensabilmente l’avvicinamento e l’ingresso del partito comunista nell’area di governo, proprio quando sembrava invece che tutto sarebbe finito con il crollo del muro, in costoro, com’è possibile che l’esperienza di governo di Renzi sia vissuta come una specie di sopruso, consumato ai loro danni? Se l’analisi scivola nella psicologia, subito viene in causa la profondità insondabile dell’animo umano, e allora va’ a capire. Però è difficile non ricavare da certi atti e comportamenti l’impressione che a Renzi l’abbiamo giurata, e che c’entri il risentimento personale, più che il giudizio politico. Nella storia comunista c’è forse l’una e l’altra cosa: c’è tanto la fraseologia occorrente per dire che un’altra fase storica di è aperta, e dunque si possono fare accordi persino con quello che una volta era il nemico (li può fare Togliatti con la svolta di Salerno e l’amnistia, Berlinguer con Moro e persino D’Alema con Berlusconi), quanto però l’accoltellamento fra cugini, se non proprio fra fratelli, e una scia di scissioni, espulsioni ed epurazioni in cui prevalgono vendette, rancori e tradimenti.

Questo, per dirla in una maniera grande e tragica. Ma c’è sempre il dubbio che il formato di tutta questa vicenda sia più piccolo, e che i piani della storia politica e della psicologia individuale non si separino mai del tutto. Ed è anzi facile che chi teme di scivolare via dalla prima, finisce col rimanere sempre più confinato, nelle proprie mosse e nelle proprie scelte, solo nella seconda.

(Il Mattino, 16 giugno 2016)

Linus e Bonino con Sala. Parisi: ha scelto bene

bruschettiEmma Bonino e Linus, il direttore di Radio Deejay, saranno in giunta con Beppe Sala, se il candidato del centrosinistra dovesse vincere il ballottaggio contro il candidato del centrodestra, Stefano Parisi. Il lettore indovini ora chi ha rilasciato il seguente commento: «Li conosco entrambi sono due persone molto diverse e tutte e due di grande valore, Sala ha fatto bene a metterli nella sua squadra». Prima ipotesi: l’ha detto il premier Renzi, che su Sala ha puntato molto, e dunque non perde occasione per supportarne le scelte. Seconda ipotesi: l’ha detto Giuliano Pisapia, il sindaco uscente, che aveva sostenuto nelle primarie del Pd la sua vicesindaco, Francesca Balzani (uscita perdente dal confronto), ma che ha poi dimostrato grande cavalleria e spirito unitario affiancando Sala nel corso della campagna elettorale. Terza Ipotesi: l’ha detto Vasco Rossi, che dei radicali è storicamente amico e sicuramente ascolta Radio Deejay che gli passa i pezzi. Quarta e ultima ipotesi: l’ha detto Stefano Parisi, cioè proprio il candidato del centrodestra, che deve provare a battere Sala, e che però, quanto a spirito di cavalleria, non è evidentemente secondo a nessuno.

Ora è facile: ebbene sì, è stato quest’ultimo, che invece di fare dell’ironia sul disc jokey prestato alla politica, novello Gerry Scotti, o, che so, su una storica militante radicale un po’ agée, ha dimostrato di apprezzare le scelte del suo competitor. Come mai? Si tratta solo di buona educazione, di squisitezza personale, di un elegante segno di stile? In realtà no, o meglio: non solo. Tutta la campagna elettorale milanese è stata condotta in realtà in punta di fioretto, senza colpi sotto la cintola, senza toni sguaiati, senza polemiche pretestuose. Da Parisi come da Sala. E entrambi gli schieramenti hanno offerto complessivamente un profilo che altri diranno forse moderato, o liberale, ma che sarebbe più corretto – credo – definire concreto, pragmatico, raziocinativo. È forse merito di Milano, dello spirito meneghino, della tradizione illuministica lombarda, che vive ancora all’ombra della Madonnina? Com’è che lì non c’è nemmeno un candidato sindaco che del premier dica che si deve fare sotto dalla paura, o che inneggi a Zapata e Panchi Villa?

La risposta non è difficile. C’entra naturalmente lo spirito civico – ma sarebbe il caso di ricordare che l’illuminismo, in Italia, ha avuto non una, ma due capitali: Milano e Napoli; solo che una delle due dà ancora a vederlo, mentre l’altra no – c’entra ovviamente il contesto ambientale, sociale ed economico – e qui si aprono evidenti abissi fra il Nord e il Sud del Paese, fra la seconda e la terza città d’Italia – ma c’entra anche la maturità della proposta politica. Milano è anche la città in cui si sente forte la voce di Matteo Salvini, è la città capoluogo della Lombardia a guida leghista, con Roberto Maroni. E però il caso vuole – no, non il caso: ma Stefano Parisi – che a precisa domanda il candidato sindaco del centrodestra rispondesse, con lo stesso garbo: «Salvini mio assessore alla sicurezza? No, mi serve uno a tempo pieno, e Salvini deve fare il leader di partito. E ho già spiegato che nel non dire chi sono i miei assessori io difendo la mia autonomia».

Milano l’è sempre Milàn, ma i temi della sicurezza, della paura dell’immigrato, dell’Europa cattiva si sentono anche lì. E anche a Milano ci sono i centri sociali, ma il centrosinistra di Pisapia, pur senza demonizzarli, ha evitare di fare l’elogio dell’occupazione abusiva o del vento liberatorio dell’anarchia. Il fatto è che lì tanto il centrodestra quanto il centrosinistra riescono a dimostrare di aver acquisito un tratto di credibilità, profilo programmatico, e anche un certo equilibrio politico, e di coalizione, che altrove invece fanno molta fatica a tenere. Prova ne è il fatto che a Milano le percentuali grilline non sono minimamente paragonabili a quelle che i Cinquestelle hanno toccato in città come Torino o Roma. A Napoli il Movimento di Grillo è andato di nuovo in difficoltà, ma in compenso c’è De Magistris che ne fa abbondantemente le veci.

Ancora: a Torino e a Roma si è riusciti, tra grandi sforzi, ad arrivare ad un confronto televisivo diretto fra i candidati in lizza, ma i toni sono rimasti quelli di una fortissima diffidenza: i grillini dilettanteschi e incapaci di governare; i piddini compromessi coi poteri forti e moralmente discutibili. Questi i toni. A Napoli peggio ancora. De Magistris non ne ha proprio voluto sapere di sedersi in mezzo agli altri candidati, e ora, in vista del secondo turno, di fronte a Gianni Lettieri. C’è di mezzo, naturalmente, la strategia elettorale, che sconsiglia a chi è davanti di dare spazio a chi insegue, ma c’è anche una diversa maniera di interpretare, cioè di misinterpretare, il confronto pubblico, elevando pregiudiziali morali e rifiutando la normale dialettica del riconoscimento reciproco.

Ma cosa c’è di normale, oggi, nella dialettica politica napoletana?

(Il Mattino, 14 giugno 2016)

Quel bivio tra populismo e governo

immagine 12 giugno 1

Niente polemiche. Almeno di qui al 19 giugno. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, per una volta non alimenta polemiche, non usa accenti da campagna elettorale, non esagera i modi e non esaspera i toni. Renzi viene in Campania, a Marcianise, e De Magistris non ne trae il preteso per nuove bordate all’indirizzo del premier, dei poteri forti o di quelli collusi, ma anzi si preoccupa di assicurare il pieno «rispetto di tutti i luoghi istituzionali, quindi anche Governo e Presidenza del Consiglio». Un insolito registro linguistico: esce il rivoluzionario, entra l’uomo delle istituzioni. Ovviamente, De Magistris sostiene di poter sostenere egregiamente entrambe le parti, ma resta il fatto che per tutta la campagna elettorale sono prevalsi i tratti populisti – passionali o demagogici a seconda di chi li guarda, e li giudica – mentre nelle parole di ieri si sono trovate espressioni molto più pacate, quasi da amministratore oculato, preoccupato di aver un buon rapporto con gli altri poteri dello Stato.

Come mai? Sarà forse perché siamo tra il primo ed il secondo turno elettorale? In effetti, De Magistris ha già interpretato l’anima rivoluzionar-popolare, ha già pigiato il più possibile il pedale retorico della Napoli liberata, ha già giocato la parte dell’uomo capace di vincere da solo, senza i partiti. Ma se ha evidentemente convinto buona parte dell’elettorato che con i partiti si governa male – e, certo, i partiti, fanno molto per dargli ragione – non è detto che sia altrettanto convincente l’idea che si può amministrare Napoli in solitudine, senza alcuna capacità di interlocuzione con gli altri livelli di governo. Così De Magistris ha deciso di rivolgersi anche a quei settori dell’opinione pubblica che sono meno affascinati dall’anarchia come forma suprema della democrazia, e più interessati al concreto esercizio amministrativo. Una città sarà pure fatta dell’effervescenza dei centri sociali e delle passeggiate sul lungomare, infatti, ma è fatta anche di bilanci in ordine, di strade illuminate, di autobus che arrivano in orario. Napoli ha sicuramente mondi giovanili, centri culturali, vivacità intellettuali a cui il messaggio zapatista del sindaco arriva come manna dal cielo, ma ha anche un’economia cittadina preoccupata per un verso di ottenere un livello di servizi pubblici più efficienti, e per l’altro di un più abbondante uso di fondi pubblici. A questo segmento di opinione pubblica interessa poco una Napoli modello Caracas, o Buenos Aires, e molto più un’idea urbana di formato e taglio europeo.

Cosa però interessa davvero De Magistris? Quale strada prenderà dopo il 19 giugno? Come sarà, se sarà, la seconda consiliatura guidata dall’ex magistrato? La prima volta De Magistris ha scassato tutto, ma ora? Cos’altro rimane da scassare? E soprattutto, non è fin d’ora chiaro che il giudizio su un sindaco è anzitutto un giudizio sulla sua politica urbanistica, sulla gestione della macchina comunale, sulle percentuali di raccolta differenziata? A detta di molti, però, il voto di domenica scorsa è stato meno un voto su questi aspetti del lavoro del sindaco, e molto più un voto sul personaggio, o meglio: sulla sua capacità di interpretare un sentimento profondo di diffidenza nei confronti del vecchio ceto politico e delle vecchie consorterie locali. Un’altra scrollata, dopo quella del 2011, che Giggino è riuscito a dare nonostante i cinque anni di governo, tempestivamente ribaltati in un’esperienza di strada invece di una gestione di Palazzo.

Ma ora, cos’altro rimane da ribaltare? Ben poco. Così, è chiaro il bivio che si disegna dinanzi a De Magistris. O portare la croce dell’amministratore, alle prese con le difficoltà di bilancio, con le buche stradali o con la sicurezza degli edifici scolastici. O prendere le vesti responsabili del primo cittadino che dialoga con gli altri livelli istituzionali e prova insieme a far ripartire Bagnoli, a far rinascere Napoli Est, a far ripartire gli investimenti del Centro storico. Oppure imboccare tutt’altra strada, quella nazionale, internazionale e mondiale (all’ambizione politica non c’è limite, però fateci caso: per descrivere questi orizzonti di gloria la parola «europeo» non viene usata quasi mai: lo spirito internazionalista non lo consente), e proiettarsi ben oltre i decumani cittadini, in uno spazio politico più ampio in cui cercare il modo di incassare il capitale di popolarità accumulato in questi anni di battaglie populiste con la bandana arancione.

Quale via De Magistris prenderà lo si vedrà fra una settimana. Ma siccome nel primo caso sarebbe costretto al faticoso e molto prosaico esercizio del dare conto e ragione dei propri atti, mentre nel secondo caso no, non ci sono molti dubbi su quale sarà la scelta. Beninteso: dopo  una settimana intera tutta british, senza ombra di polemica alcuna.

(Il Mattino – Napoli ed., 12 giugno 2016)

De Luca junior e il partito formato famiglia

Immagine2.jpgLe analisi del voto si fanno sui numeri, ma a volte contano anche le storie. Come quella di Salerno. I numeri parlano chiaro. A Salerno, Enzo Napoli è stato eletto sindaco con la percentuale record per questa tornata elettorale del 70,5% dei voti. Il secondo arrivato ha preso il 9,6%: un abisso. Nella sua giunta entra Roberto De Luca, figlio del governatore campano, con deleghe pesanti al bilancio e allo sviluppo. La nuova consiliatura si apre dunque nel segno della più assoluta continuità con un’esperienza politica che dura dal 1993, da quando cioè Vincenzo De Luca subentrò al dimissionario sindaco socialista, Vincenzo Giordano. In quello stesso anno, De Luca affrontò il voto e venne eletto per la prima volta, con quasi il 58% dei voti, alla testa dei «Progressisti per Salerno». Nel 1993 il Pd non esisteva: esisteva il Pds, Partito democratico della sinistra, che sarebbe poi diventato Ds, Democratici di sinistra, e infine – insieme con la Margherita – Pd, partito democratico. In tutto questo tempo, i «Progressisti per Salerno» hanno mantenuto la guida della città, ripresentandosi ad ogni elezione. De Luca è stato sindaco finché ha potuto, finché cioè il limite dei due mandati non lo ha costretto a lasciare. Ora è alla Regione, ma la giunta cittadina è, in tutto e per tutto, una sua diretta emanazione. Un caso analogo, in una città di medie dimensioni, in giro per l’Italia non c’è. Un caso analogo: cioè il caso di una città che tributa un consenso reale, vero, largamente maggioritario (una volta si diceva bulgaro), ad una stessa formazione politica ininterrottamente per un quarto di secolo. In uno strano gioco di eredità, non c’è solo il testimone che passa di padre in figlio, con il neo-eletto sindaco Napoli nei panni del Mazzarino di turno, che assume la reggenza in attesa che si perfezioni la successione; c’è anche un’eredità che si trasmette graziosamente al Pd, il quale riceve in dote i clamorosi successi politici di De Luca pur senza mai affrontare il voto col proprio simbolo.

Napoli: tutt’altra storia. Anche lì cominciata nel ’93, con l’elezione di Antonio Bassolino (che di De Luca è praticamente coetaneo), e proseguita poi per un secondo mandato. A Napoli il passaggio in Regione arriva prima, nel 2000, e nei dieci anni successivi il centrosinistra tiene sia il Comune (con la Iervolino) che la Regione (con Bassolino). Poi, con la drammatica crisi dei rifiuti, perde tutto: prima la Regione, dove sale il centrodestra di Caldoro, quindi la città, dove viene eletto De Magistris, dopo il clamoroso autogol delle primarie annullate. Ma da allora sono trascorsi cinque anni, e il Pd non ha dato segnali di inversione di rotta. Ha cambiato segretari regionali e provinciali, è passato per esperienze di commissariamento, ha ottenuto sottosegretariati al governo, ma nulla è servito. In realtà, il 2011 non era stato solo l’anno di una sconfitta politica, ma anche il punto in cui di fatto si rompeva un rapporto politico e sentimentale con la città. Cinque anni non sono valsi a ricucirlo. Il Pd ha continuato a dividersi, lacerato da polemiche intestine, dominato da piccoli capi locali, quasi disperso come comunità politica. Quel che è peggio, continua a non apparire degno di fiducia a settori larghi della popolazione cittadina, che non avrebbero motivo per seguire le rodomondate di De Magistris, e che però non trovano sufficienti doti reputazionali (eufemismo) nella classe dirigente che il partito democratico esprime. D’altronde lo si è visto: Valeria Valente ha portato per tutta la campagna elettorale la croce di una diffidenza profonda e di un malcontento che venivano dallo stesso partito democratico. Al di là dei suoi meriti o demeriti personali, è un fatto che non c’era nessuno che avrebbe potuto federare i diversi pezzi del Pd e offrire l’immagine di un partito unito e di una causa comune. Lo stesso Bassolino era sceso in campo non già come l’uomo che avrebbe potuto mettere d’accordo tutti, ma come quello che avrebbe potuto vincere da solo, o quasi, sospendendo i giochi correntizi, sempre meno redditizi, che paralizzano il partito democratico

Due storie opposte, dunque: a Napoli, un quadro a dir poco frammentato, una dirigenza di fatto priva di autorevolezza, e la mancanza di parole che entrino nel discorso pubblico e aggreghino società civile, intellettualità diffusa, mondo produttivo. Che facciano cioè quel che la politica deve fare. A Salerno, invece, un monolite costruito intorno alla figura carismatica di Vincenzo De Luca, in una forma di affidamento personale, capace di trasmettersi anche oltre i limiti naturali di un ciclo politico, edi ridurre le dinamiche di partito a un ruolo subordinato e quasi ornamentale. A Salerno tutta la città segue De Luca, a Napoli quasi nessuno si fida del Pd, ma in tutte e due i casi, per troppo successo o per un completo insuccesso, i democratici non si capisce cosa ci stiano a fare. E poiché purtroppo poche altre storie offre il Mezzogiorno, usi o no il lanciafiamme, Renzi un pensiero serio alle condizioni in cui si trova il partito di cui è il segretario lo deve dedicare.

(Il Mattino, 10 giugno 2016)

Il Paese dove tutti i partiti perdono voti

Boetti

I dati messi a disposizione dall’Istituto Cattaneo non stravolgono le valutazioni immediatamente successive al voto di domenica, ma consentono di offrire analisi più accurate. L’Istituto avverte che il raffronto con le politiche del 2013 non è omogeneo, ma rimane il retroterra più sicuro per studiare l’evoluzione del comportamento elettorale. Soprattutto in relazione ai risultati del Movimento Cinquestelle, che aveva a sorpresa conquistato, tre anni fa, un quarto circa dell’elettorato. Alla domanda se quel risultato debba essere considerato un effimero exploit il Cattaneo risponde di no, dati alla mano. Perché l’analisi dei flussi elettorali, in entrata e in uscita, mostra che quella parte dell’elettorato si sta fidelizzando: chi ha votato M5S tre anni fa è tornato a farlo domenica scorsa. L’astensionismo, in crescita, tocca anche i grillini, ma il grosso di quegli elettori è rimasto fedele al Movimento: nonostante la tragica uscita di scena di Casaleggio e il relativo disimpegno di Grillo. Fa eccezione Napoli, dove sono consistenti i flussi elettorali in direzione di De Magistris. In vista del ballottaggio, il Sindaco di Napoli sembra perciò poter dormire fra due guanciali, visto il distacco da Lettieri e la relativa facilità con cui può attrarre la parte del voto grillino andata a Brambilla (mentre l’impresa di Lettieri, di motivare il voto democrat, appare obiettivamente più complicata).

C’è stato dunque un fenomeno di assestamento del M5S. Il calcolo sui voti validi dimostra però che, sia in termini assoluti sia in percentuale, i Cinquestelle hanno perso voti. E questo nonostante il trascinante successo di Virginia Raggi a Roma. Significa forse che il gran battage mediatico sulla candidata romana ha oscurato il dato reale, che nel complesso non è stato affatto clamoroso? In parte almeno è così. È evidente, infatti, che i Cinquestelle non hanno ancora una leva di candidati all’altezza: basti pensare a quanti pochi siano i casi di ballottaggio con un esponente pentastellato. E anche le performance deludenti di Napoli e Milano lo dimostrano. Ma è vero pure che, in un sistema che eredita il bipolarismo ventennale della seconda Repubblica, il destino di un partito che non esercita nessuna attrattiva coalizionale è quello del tutto o nulla. In questa prospettiva, Roma rimane ancora, per i Cinquestelle, la fiche posta sul tavolo per far saltare il banco, indipendentemente dai risultati a macchia di leopardo nelle restanti città capoluogo.

I dati del Cattaneo riservano però qualche sorpresa anche al centrodestra e al centrosinistra. E, si direbbe, non negativa. Entrambi i poli infatti realizzano un certo recupero rispetto alle politiche di tre anni fa. Dal report dell’Istituto non è chiarissimo cosa si intenda per centrosinistra o per centrodestra: e questa è anche un altro dei problemi che affliggono il nostro sistema politico: dove iniziano e dove finiscono i due schieramenti non lo si sa bene, e spesso non si sa neppure quale nome abbiano. Ad ogni modo, è indubbio che c’è ancora un voto polarizzato alla sinistra e alla destra del campo politico, e quel voto è, sia pure di poco, in crescita, almeno in termini percentuali. Il centrosinistra guadagna un punto, il centrodestra ben quattro. Questo significa che, quando si saranno riattaccati i cocci, che sia per la residua capacità federativa di Berlusconi o per l’emergere di nuove figure e stili politici, è presumibile che la guida del Paese tornerà contendibile anche da quella parte politica.

A leggere i dati, e a guardare anche i flussi (che riguardano tuttavia solo sette città, tra le quali non ci sono Roma e Milano) si può forse indovinare meglio il bivio dinanzi al quale ci troviamo. Si vede infatti che contano senz’altro le situazioni particolari, come quelle di Napoli e Salerno, dove proposte politiche molto peculiari determinano flussi più marcati, in particolare in entrata verso i sindaci uscenti, Luigi De Magistris e Enzo Napoli, e in uscita, nel capoluogo partenopeo, soprattutto dal Pd. A dimostrazione di una crisi conclamata del partito democratico, che dura da parecchi anni e che queste elezioni non hanno affatto superato, se mai acuito. Conta tutta ciò, ma nel complesso si fa chiaro che la divisione in tre blocchi del consenso politico, fra centrosinistra, centrodestra e Cinquestelle è in via di consolidamento, con pochi, marcati travasi di voti da una parte all’altra. A fare la differenza è se mai la capacità di non perdere ulteriori consensi verso l’area dell’astensione. I ricercatori del Cattaneo mostrano infatti che neanche i M5S riesce a riportare al voto gli astenuti. Resta così il bivio al quale il voto amministrativo ci consegna per i mesi a venire: da una parte si restringe la base di legittimazione degli istituti della democrazia rappresentativa; dall’altra, rimane la necessità di assicurare governabilità pur in presenza di un Paese diviso in tre. E la formula risolutiva del problema è ancora da trovare.

(Il Mattino, 8 giugno 2016)

Se l’elettore non si tura più naso e orecchie

Cicladi

Forse questo primo turno amministrativo può dispensare qualche certezza anche se, a quanto pare, nelle principali città italiane, quelle sulle quali si concentra in prevalenza l’attenzione dell’opinione pubblica, non eleggerà alcun sindaco e bisognerà attendere il ballottaggio. Nel frattempo, infatti, gli uscenti sono dati in vantaggio: sia a Torino che a Napoli; sia Fassino che De Magistris. Due uomini che non potrebbero essere più diversi. In realtà, da quando c’è l’elezione diretta del sindaco la regola – che pure ammette un buon numero di eccezioni – è che il sindaco che si ripresenta viene rieletto. La stessa legge, imponendo il limite dei due mandati, dimostra consapevolezza del vantaggio da cui parte chi detiene il controllo della macchina comunale. E questo è un primo punto, dal quale ogni volta si riparte.

Un altro punto, più importante, è che l’elettorato tende a premiare liste e candidature che non sono state logorate da conflitti interni. Questa regola riguarda tanto le forze politiche tradizionali, quanto le nuove formazioni. Prendiamo i Cinquestelle: a Napoli hanno avuto non pochi problemi a individuare il candidato; i big hanno preferito non scendere in campo; una parte dei militanti non ha digerito la scelta abbastanza incolore di Matteo Brambilla, minacciando addirittura di adire le vie legali. Risultato: il Movimento è abbondantemente al di sotto della media nazionale, e fa probabilmente peggio anche del risultato ottenuto con la Ciarambino alle Regionali dello scorso anno. Pesa sicuramente il consenso per De Magistris, ma i grillini ci hanno sicuramente messo del loro. Stessa cosa a Milano, dove la candidata indicata in un primo momento, Patrizia Bedori, si è fatta (o è stata fatta) da parte. Fortissima fibrillazione, e Milano uscita fuori dai riflettori del Movimento. Risultato: la partita se la giocano Sala e Parisi, centrosinistra e centrodestra, e i Cinquestelle ottengono percentuali tutto sommato modeste. Del candidato, Gianluca Corrado, si conserverà traccia solo in qualche almanacco di figurine.

Guardiamo altrove. Nel centrodestra, Roma è stato l’epicentro di tutti i conflitti, il caso più eclatante. Da una parte un elettorato di centrodestra moderato, con Alfio Marchini; da un’altra parte un elettorato di destra populista, con Giorgia Meloni (e Salvini a supporto). Conseguenza: la destra è con ogni probabilità fuori dalla partita finale, quella del ballottaggio. E la lista di Forza Italia, che ha prima provato a puntare su Bertolaso per poi accodarsi a Marchini fra mille polemiche tocca il suo minimo storico, con percentuali dai quali è dubbio che possa in futuro riprendersi.

Nel centrosinistra, l’impresa più difficile è stata Napoli. A Napoli le primarie hanno decretato un vincitore, Valeria Valente, che Antonio Bassolino, il perdente, ha a lungo mostrato di non riconoscere: impugnando il risultato, chiedendo di rivotare, contestando poi puntualmente tutte le scelte compiute nel corso della campagna elettorale. Risultato: la lista del partito democratico rimane ferma, grosso modo, alle percentuali ottenute cinque anni fa col prefetto Morcone, dopo la debàcle dell’annullamento delle primarie, e al momento gli exit poll danno la Valente terza, e dunque fuori del ballottaggio.

Conclusione: gli elettori non si turano più il naso. Essendo venuto meno il sentimento forte di un’appartenenza ideologica o di partito, non hanno più motivo di farlo. Una proposta politica diviene quindi inevitabilmente più convincente, quando è rappresentata con chiarezza dal candidato prescelto, mentre divengono sempre meno comprensibili i disaccordi e i contrasti interni: non essendo più riconoscibili divisioni di carattere ideologico, culturale o programmatico, non resta che la lotta di potere e l’ambizione personale. Che in genere l’elettore non apprezza.

C’entra anche la personalizzazione della politica? Sicuramente. Tanto più in una competizione come quella municipale, con l’elezione diretta, dove quindi imbroccare il candidato giusto può fare la differenza. E anche in questo caso, ciò è vero a destra come a sinistra, così come dalle parti dei grillini. Vale cioè per Parisi a Milano, che porta il centrodestra molto più in alto che altrove, ma anche per la Appendino a Torino, che rimane in partita nonostante il credito di cui godeva Fassino alla vigilia. Vale infine pure per Giachetti a Roma, che ha permesso al Pd di superare lo sbandamento seguito alle dimissioni di Marino e alla fine traumatica della consiliatura, e probabilmente di rimanere in partita.

C’entra dunque il fattore personale. Ma pesa pure l’esiguità di quelli che erano una volta gli «interna corporis» dei partiti. Che quasi non esistono più. E che comunque non riescono più a tener dentro un bel nulla. Ed ecco allora l’ultimo risultato: la legittima, e insopprimibile, lotta politica si riversa nei canali artificiali di una sorta di circolazione extra-corporea, cioè su media, rete e giornali, e là fuori di legittimità ne conquista sempre meno. L’elettore sente tutti i miasmi che si sollevano e siccome il naso non se lo tura più, vota da un’altra parte o, più spesso, si astiene.

(Il Mattino, 6 giugno 2016)

Riuscirebbero i grillini a reggere se fallisse la conquista di Roma ?

Superstudio

Tutti in piazza per Brambilla sindaco, a Napoli. Tutti in piazza per Bugani sindaco, a Bologna. E soprattutto: tutti in piazza per Raggi sindaco, a Roma. E piazza del Popolo si è riempita: la mobilitazione c’è stata, e l’aspettativa di una vittoria della candidata a cinque stelle rimane molto alta. La lunga marcia nelle istituzioni del Movimento avrebbe sicuramente una svolta, se Virginia Raggi dovesse diventare sindaco di Roma. L’assalto al cielo della politica italiana sarebbe cominciato. A Renzi rimarrebbe la partita del referendum istituzionale, ma un sindaco grillino nella Capitale trasformerebbe immediatamente il Movimento in un’altra cosa, cioè in un’alternativa politica reale. Finora, chi vota cinque stelle ha molto chiaro a cosa dice no, e chi vuole mandare a casa, ma è molto meno sicuro di cosa significhi dare il governo del Paese ai Cinquestelle. A quale cultura politica? A quale ceto politico? Per farsene un’idea, non possono bastare Parma, Livorno o Quarto. Roma invece sì, il Campidoglio sarebbe il terreno ideale per dimostrare, in vista delle politiche, che da quella parte non ci sono solo grillini chiassosi e intransigenti, ma una classe dirigente in grado di gestire la capitale del Paese, e dunque anche di andare su su, fino a Palazzo Chigi. E poiché nemmeno i Cinquestelle possono venire tutti dalla luna, si vedrà anche come riempiranno le seconde e terze file, a quali serbatoio di ceto politico e professionale attingeranno, e in che modo si confronteranno con le burocrazie pubbliche.

Ma anche il contraccolpo sul Movimento, nel caso in cui la Raggi non dovesse farcela, sarebbe di non poco momento. Nel 2013, i Cinquestelle sono arrivati primi, dietro solo alla coalizione del Pd di Bersani (peraltro subito accantonata dai democratici). Pur rappresentando un quarto circa dell’elettorato, dopo circa tre anni i grillini non riescono ancora a presentare proprie liste in tutti i comuni. È una situazione paradossale, mai altrove verificatasi: che il primo partito su base nazionale non sia rappresentato ovunque, su base locale. Se la Raggi non dovesse vincere, se i Cinquestelle non raggiungessero il ballottaggio nelle principali città italiane, la fisionomia sfilacciata del Movimento non sarebbe nascosta dal valore simbolico del sacco di Roma, e le spinte centrifughe si moltiplicherebbero.

Anche sul piano organizzativo, il Movimento è su un crinale sottile. Perché parla sempre meno di streaming, sempre meno di «uno vale uno», sempre meno di decisioni prese dagli iscritti, mentre sempre più chiaramente emergono leadership o potenziali leadership, direttori, riunioni riservate e cerchi magici. La Raggi che promette di ascoltare, in caso di elezione a sindaco, i parlamentari, e il deputato europeo, e il consigliere regionale, non sembra proprio che prenderà le decisioni riunendo la base dei meetup della capitale. Ma finché vinci, o i sondaggi ti danno vincente, è difficile che ti venga rinfacciata la contraddizione. Diverso è però se perdi: allora i mugugni crescono, la conflittualità interna sale, viene anche per i grillini l’ora livida dell’analisi del voto e la piega presa dal Movimento  può facilmente esserti rimproverata come una deviazione dal progetto originario.

Fin qui, Grillo e Casaleggio hanno tenuto insieme il Movimento a colpi di sospensioni ed espulsioni. I gruppi parlamentari grillini di deputati e senatori ne hanno persi parecchi, e però le sorti del Movimento non ne hanno finora risentito. Se il Movimento si conferma sulle percentuali del 2013 ed elegge la Raggi sindaco, queste sono bazzecole. Se le cose vanno diversamente, allora son dolori (forse).

(Il Mattino, 5 giugno 2016)

Se la vigilia ricompatta la politica

isto

Che il 5 giugno, con il voto amministrativo nelle principali città italiane, non sia in gioco il governo Renzi, è sicuramente vero: se non altro perché in molti casi, se non in tutti, la partita si giocherà al secondo turno, due settimane dopo. Sia a Napoli, che a Roma, che a Milano – ma forse anche in altre città come Torino o Bologna – ci sarà infatti bisogno del ballottaggio. E al ballottaggio, ha detto ieri Renzi parlando a Napoli, si gioca un’altra partita, si parte dallo zero a zero. Ed è vero, per diverse ragioni. È vero perché a metà giugno cambia la percentuale dei votanti, che cala fisiologicamente e costringe i candidati rimasti in lizza a moltiplicare gli sforzi per spingere i propri elettori a tornare alle urne una seconda volta. È vero perché si riposiziona il voto dei perdenti, usciti di scena al primo turno. È vero perché emergono con maggiore nettezza le differenze fra i due candidati rimasti in gara e gli schieramenti che li sostengono. È vero perché cambiano le stesse motivazioni del voto, e la logica da «second best», la logica del male minore, può cambiare le scelte degli elettori (e le percentuali del primo turno). È vero soprattutto quando la competizione è stata drogata dalla pletora di liste e candidati messi in campo per acchiappare consenso pur che sia. Questa volta è andata proprio così, molto più che in passato. E la polverizzazione del consenso, che viene raccolto dalle lunghe code di candidati infilati nelle liste più diverse, comporta un forte rischio di dispersione, quando le liste scompaiono di scena e s’alza forte il vento del ballottaggio: la polvere rischia di volare via, o di non depositarsi dove si è raccolta al primo turno.

Ma è il meccanismo stesso del doppio turno che rende possibile la rimonta. Il secondo voto non ha infatti il significato di un voto confermativo. E di casi in cui chi era dietro e dato per sconfitto è riuscito a ribaltare i pronostici e a vincere al secondo turno ce ne sono stati di clamorosi. A Napoli, innanzitutto. Cinque anni fa, De Magistris arriva dietro a Gianni Lettieri di quasi dieci punti: 27,5 contro il 38,5 di Lettieri. Due settimane dopo, Giggino ha scassato tutto: 65 contro 35. Un risultato eclatante, reso possibile anzitutto dal voto in libera uscita del centrosinistra e del Pd: un flusso di voti che solo il ballottaggio poteva innescare. Ma è successo anche altrove: a Roma per esempio, dove nel 2008 Rutelli manca la riconferma nonostante il 45,8 per cento del primo turno e quasi centomila voti in più rispetto a Gianni Alemanno. Al secondo turno, finisce centomila voti dietro: 54 per cento contro 46 per cento.

A Venezia protagonisti di rimonte sono una volta Cacciari, col centrosinistra, e un’altra, dieci anni dopo, Brugnaro, col centrodestra. E tutte e due le volte a farne le spese fu la sinistra-sinistra di Felice Casson, per due volte davanti al primo turno e per due volte trombato al secondo. Tutte e due le volte non gli è bastato di sopravanzare il secondo arrivato di più di dieci punti percentuali. Ovviamente, chi è davanti rimane il favorito. Ma il doppio turno va interpretato così, come una doppia partita, non come la stessa partita giocata due volte.

Questa logica è ancora più evidente quando al voto non arrivano schieramenti tradizionali, dai lineamenti chiaramente profilati, come invece accade a Milano, dove il confronto avviene effettivamente tra un centrosinistra e un centrodestra sostanzialmente uniti. Non a caso, a Milano neanche in passato ci sono stati rovesciamenti come quelli verificatisi a Roma o a Napoli. Dove invece le carte si sono mescolate, dove le forze antisistema hanno raggiunto percentuali ragguardevoli, come a Roma o a Napoli, lì è molto più complicato leggere un turno in continuità con l’altro.

Nelle ultime ore, del resto, qualcosa forse è cambiato. L’epopea di De Magistris a Napoli, o il fascino della Raggi a Roma si fondano anche sui disastri delle forze politiche tradizionali,  in particolare del centrosinistra: sui rovesci delle passate primarie a Napoli; sulla fine ingloriosa della giunta Marino a Roma. Ma sia a Roma che a Napoli, benché Renzi abbia cercato di non accollarsi in prima persona il risultato del 5 giugno, e soprattutto i suoi effetti politici, un tentativo di ricomposizione del quadro politico è stato avviato. Ieri Bassolino era alla Mostra d’Oltremare, a fare il suo dovere di «padre fondatore del Pd». A Roma, Giachetti ha avuto il sostegno di quasi tutto il Pd, da Orfini a Veltroni a Zingaretti, e i distinguo residuali di D’Alema si sono persi nelle polemiche della minoranza democrat, sempre più sbiadita e meno convinta.  Difficile capire se questo profilo più compatto del  partito democratico avrà un seguito anche nelle urne. Però contribuisce a rendere più chiara la posta in gioco. E gioverebbe anche al centrodestra, come giova a Milano, con Parisi, presentarsi coeso intorno a un candidato capace – come si dice – di fare la sintesi. Quando questo accade, al secondo turno rimane ancora la possibilità di decidere se continuare a scassare, ma almeno dall’altra parte c’è qualcosa di più delle macerie della volta scorsa.

(Il Mattino, 4 giugno 2016)