La storia giudiziaria ‘pubblica’ di Nicola Cosentino è cominciata sette anni fa. E non finisce certo con la concessione degli arresti domiciliari disposta ieri dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Siamo anzi ancora lontani dal primo round, cioè dalla celebrazione del processo di primo grado. Eppure, dopo il primo lancio di agenzia, sul sito di un importante quotidiano nazionale si poteva leggere: «Cosentino lascia il carcere di Terni: Il resto della pena ai domiciliari». E più sotto: «Dovrà scontare il resto della condanna fuori dalla Campania». L’infortunio si spiega facilmente: se uno trascorre in cercare più di mille giorni, è naturale pensare che stia scontando una pena a seguito di una condanna definitiva. Invece la condanna non c’è, e i mille giorni e più sono stati per Cosentino soltanto un acconto sulla condanna, un sostanzioso assaggio, posto però che una condanna gli verrà comminata. Cosa che ovviamente nessuno sa. Ma chi allora ha il potere di porre o presupporre ciò?
Nella stessa giornata di ieri, la Corte Costituzionale ha stabilito che è possibile sospendere la pena detentiva per il reato di furto con strappo, cioè per uno scippo. La Corte ha rilevato infatti che la semplice rapina prevede la possibilità della sospensione, ed è dunque contrario al principio di uguaglianza che al rapinatore sia offerta questa possibilità, mentre allo scippatore no. La questione è insomma di quelle che vanno affrontate in punta di diritto, ed è bello che la Corte abbia deciso senza avvertire la pressione di un’opinione pubblica che trova odiosi e intollerabili aggressioni e borseggi per strada. Per la gente comune, infatti, altro che sospensione eventuale: aggressori, scippatori e borseggiatori dovrebbero finire tutti in carcere e restarci il più a lungo possibile. Di ciò che pensa la gente comune la Corte però non deve tenere conto e non ha, in effetti, fatto alcun conto. Il giudizio della Corte si basa sui principi costituzionali, che per il bene di tutti sono sottratti all’indignazione popolare, agli sbalzi d’umore o alle pulsioni demagogiche della politica. Non solo, ma l’istituto della sospensione della pena offre in genere un beneficio a chi non ha una storia criminale alle spalle, a chi non ha commesso un reato particolarmente grave, o a chi ha riparato interamente al danno arrecato. Il che, oltre ad essere rispondente al senso di umanità, è del tutto ragionevole, se si considera per di più che il soggiorno in un istituto penitenziario aumenta e non diminuisce la probabilità che si torni a delinquere.
Resta però il fatto che la Corte ha deciso a proposito dell’eventuale sospensione di una pena in presenza di un giudicato. C’è un sistema di diritti e di garanzie, evidentemente, che vale anche per chi ha subito una condanna definitiva. Per fortuna, si deve aggiungere. Com’è possibile allora che gli arresti domiciliari di Nicola Cosentino siano durati così a lungo? Che Cosentino non si sia meritato alcuna ‘sospensione’, fino a ieri? Non finisce con l’essere sempre più vero, agli occhi almeno dell’uomo della strada, che la pena non segue ma precede la condanna? E non c’è il rischio che persino tra gli operatori del diritto si insinui la tentazione di infliggere robusti anticipi di pena, nell’incertezza su come andranno le cose dopo, quando dovesse venire per davvero il momento di scontare la pena?
Ora, non vorrei che si sommassero le mele e le pere. E soprattutto non vorrei che si pensasse che la cosa migliore sarebbe allora dare certezza di pena «a prescindere», come direbbe Totò: la si sconti prima o dopo, l’importante è tenere in carcere i delinquenti. Perché il prima e il dopo non sono affatto sullo stesso piano, e protezioni e garanzie dovrebbero essere mille volte più robuste prima, per chi attende un processo, che dopo, a processo celebrato.
Il caso di Cosentino è eclatante. La prima custodia cautelare è di sette anni fa, e le condotte contestate risalgono a diversi anni prima. Eppure per i magistrati Cosentino non poteva fino a ieri affrontare il processo da uomo libero, e anzi neppure ai domiciliari. Ogni caso fa storia a sé, si dirà, ed è certamente vero. Ma riflettete: se proprio non riuscite a mettervi nei panni dell’ex potente sottosegretario all’Economia, o proprio non avete voglia di rallegrarvi con lui per l’avvenuta scarcerazione, mettetevi almeno nei panni del legislatore, dell’oikistès, del «fondatore di uno Stato», e ditemi: vi convince davvero l’idea che nel vostro Stato si possa rimanere in carcere per tre anni di fila, prima ancora di sapere se in carcere ci sia un colpevole o un innocente? Cosa e quanto siete disposti a sacrificare, in nome della sicurezza? E soprattutto: qualunque sia l’entità del sacrificio, davvero c’è da sentirsi più sicuri, o non piuttosto massimamente insicuri tutti, di fronte alla possibilità che si verifichino eventualità di questo tipo?
(Il Mattino, 2 giugno 2016)