Archivi del giorno: giugno 5, 2016

Riuscirebbero i grillini a reggere se fallisse la conquista di Roma ?

Superstudio

Tutti in piazza per Brambilla sindaco, a Napoli. Tutti in piazza per Bugani sindaco, a Bologna. E soprattutto: tutti in piazza per Raggi sindaco, a Roma. E piazza del Popolo si è riempita: la mobilitazione c’è stata, e l’aspettativa di una vittoria della candidata a cinque stelle rimane molto alta. La lunga marcia nelle istituzioni del Movimento avrebbe sicuramente una svolta, se Virginia Raggi dovesse diventare sindaco di Roma. L’assalto al cielo della politica italiana sarebbe cominciato. A Renzi rimarrebbe la partita del referendum istituzionale, ma un sindaco grillino nella Capitale trasformerebbe immediatamente il Movimento in un’altra cosa, cioè in un’alternativa politica reale. Finora, chi vota cinque stelle ha molto chiaro a cosa dice no, e chi vuole mandare a casa, ma è molto meno sicuro di cosa significhi dare il governo del Paese ai Cinquestelle. A quale cultura politica? A quale ceto politico? Per farsene un’idea, non possono bastare Parma, Livorno o Quarto. Roma invece sì, il Campidoglio sarebbe il terreno ideale per dimostrare, in vista delle politiche, che da quella parte non ci sono solo grillini chiassosi e intransigenti, ma una classe dirigente in grado di gestire la capitale del Paese, e dunque anche di andare su su, fino a Palazzo Chigi. E poiché nemmeno i Cinquestelle possono venire tutti dalla luna, si vedrà anche come riempiranno le seconde e terze file, a quali serbatoio di ceto politico e professionale attingeranno, e in che modo si confronteranno con le burocrazie pubbliche.

Ma anche il contraccolpo sul Movimento, nel caso in cui la Raggi non dovesse farcela, sarebbe di non poco momento. Nel 2013, i Cinquestelle sono arrivati primi, dietro solo alla coalizione del Pd di Bersani (peraltro subito accantonata dai democratici). Pur rappresentando un quarto circa dell’elettorato, dopo circa tre anni i grillini non riescono ancora a presentare proprie liste in tutti i comuni. È una situazione paradossale, mai altrove verificatasi: che il primo partito su base nazionale non sia rappresentato ovunque, su base locale. Se la Raggi non dovesse vincere, se i Cinquestelle non raggiungessero il ballottaggio nelle principali città italiane, la fisionomia sfilacciata del Movimento non sarebbe nascosta dal valore simbolico del sacco di Roma, e le spinte centrifughe si moltiplicherebbero.

Anche sul piano organizzativo, il Movimento è su un crinale sottile. Perché parla sempre meno di streaming, sempre meno di «uno vale uno», sempre meno di decisioni prese dagli iscritti, mentre sempre più chiaramente emergono leadership o potenziali leadership, direttori, riunioni riservate e cerchi magici. La Raggi che promette di ascoltare, in caso di elezione a sindaco, i parlamentari, e il deputato europeo, e il consigliere regionale, non sembra proprio che prenderà le decisioni riunendo la base dei meetup della capitale. Ma finché vinci, o i sondaggi ti danno vincente, è difficile che ti venga rinfacciata la contraddizione. Diverso è però se perdi: allora i mugugni crescono, la conflittualità interna sale, viene anche per i grillini l’ora livida dell’analisi del voto e la piega presa dal Movimento  può facilmente esserti rimproverata come una deviazione dal progetto originario.

Fin qui, Grillo e Casaleggio hanno tenuto insieme il Movimento a colpi di sospensioni ed espulsioni. I gruppi parlamentari grillini di deputati e senatori ne hanno persi parecchi, e però le sorti del Movimento non ne hanno finora risentito. Se il Movimento si conferma sulle percentuali del 2013 ed elegge la Raggi sindaco, queste sono bazzecole. Se le cose vanno diversamente, allora son dolori (forse).

(Il Mattino, 5 giugno 2016)

Se la vigilia ricompatta la politica

isto

Che il 5 giugno, con il voto amministrativo nelle principali città italiane, non sia in gioco il governo Renzi, è sicuramente vero: se non altro perché in molti casi, se non in tutti, la partita si giocherà al secondo turno, due settimane dopo. Sia a Napoli, che a Roma, che a Milano – ma forse anche in altre città come Torino o Bologna – ci sarà infatti bisogno del ballottaggio. E al ballottaggio, ha detto ieri Renzi parlando a Napoli, si gioca un’altra partita, si parte dallo zero a zero. Ed è vero, per diverse ragioni. È vero perché a metà giugno cambia la percentuale dei votanti, che cala fisiologicamente e costringe i candidati rimasti in lizza a moltiplicare gli sforzi per spingere i propri elettori a tornare alle urne una seconda volta. È vero perché si riposiziona il voto dei perdenti, usciti di scena al primo turno. È vero perché emergono con maggiore nettezza le differenze fra i due candidati rimasti in gara e gli schieramenti che li sostengono. È vero perché cambiano le stesse motivazioni del voto, e la logica da «second best», la logica del male minore, può cambiare le scelte degli elettori (e le percentuali del primo turno). È vero soprattutto quando la competizione è stata drogata dalla pletora di liste e candidati messi in campo per acchiappare consenso pur che sia. Questa volta è andata proprio così, molto più che in passato. E la polverizzazione del consenso, che viene raccolto dalle lunghe code di candidati infilati nelle liste più diverse, comporta un forte rischio di dispersione, quando le liste scompaiono di scena e s’alza forte il vento del ballottaggio: la polvere rischia di volare via, o di non depositarsi dove si è raccolta al primo turno.

Ma è il meccanismo stesso del doppio turno che rende possibile la rimonta. Il secondo voto non ha infatti il significato di un voto confermativo. E di casi in cui chi era dietro e dato per sconfitto è riuscito a ribaltare i pronostici e a vincere al secondo turno ce ne sono stati di clamorosi. A Napoli, innanzitutto. Cinque anni fa, De Magistris arriva dietro a Gianni Lettieri di quasi dieci punti: 27,5 contro il 38,5 di Lettieri. Due settimane dopo, Giggino ha scassato tutto: 65 contro 35. Un risultato eclatante, reso possibile anzitutto dal voto in libera uscita del centrosinistra e del Pd: un flusso di voti che solo il ballottaggio poteva innescare. Ma è successo anche altrove: a Roma per esempio, dove nel 2008 Rutelli manca la riconferma nonostante il 45,8 per cento del primo turno e quasi centomila voti in più rispetto a Gianni Alemanno. Al secondo turno, finisce centomila voti dietro: 54 per cento contro 46 per cento.

A Venezia protagonisti di rimonte sono una volta Cacciari, col centrosinistra, e un’altra, dieci anni dopo, Brugnaro, col centrodestra. E tutte e due le volte a farne le spese fu la sinistra-sinistra di Felice Casson, per due volte davanti al primo turno e per due volte trombato al secondo. Tutte e due le volte non gli è bastato di sopravanzare il secondo arrivato di più di dieci punti percentuali. Ovviamente, chi è davanti rimane il favorito. Ma il doppio turno va interpretato così, come una doppia partita, non come la stessa partita giocata due volte.

Questa logica è ancora più evidente quando al voto non arrivano schieramenti tradizionali, dai lineamenti chiaramente profilati, come invece accade a Milano, dove il confronto avviene effettivamente tra un centrosinistra e un centrodestra sostanzialmente uniti. Non a caso, a Milano neanche in passato ci sono stati rovesciamenti come quelli verificatisi a Roma o a Napoli. Dove invece le carte si sono mescolate, dove le forze antisistema hanno raggiunto percentuali ragguardevoli, come a Roma o a Napoli, lì è molto più complicato leggere un turno in continuità con l’altro.

Nelle ultime ore, del resto, qualcosa forse è cambiato. L’epopea di De Magistris a Napoli, o il fascino della Raggi a Roma si fondano anche sui disastri delle forze politiche tradizionali,  in particolare del centrosinistra: sui rovesci delle passate primarie a Napoli; sulla fine ingloriosa della giunta Marino a Roma. Ma sia a Roma che a Napoli, benché Renzi abbia cercato di non accollarsi in prima persona il risultato del 5 giugno, e soprattutto i suoi effetti politici, un tentativo di ricomposizione del quadro politico è stato avviato. Ieri Bassolino era alla Mostra d’Oltremare, a fare il suo dovere di «padre fondatore del Pd». A Roma, Giachetti ha avuto il sostegno di quasi tutto il Pd, da Orfini a Veltroni a Zingaretti, e i distinguo residuali di D’Alema si sono persi nelle polemiche della minoranza democrat, sempre più sbiadita e meno convinta.  Difficile capire se questo profilo più compatto del  partito democratico avrà un seguito anche nelle urne. Però contribuisce a rendere più chiara la posta in gioco. E gioverebbe anche al centrodestra, come giova a Milano, con Parisi, presentarsi coeso intorno a un candidato capace – come si dice – di fare la sintesi. Quando questo accade, al secondo turno rimane ancora la possibilità di decidere se continuare a scassare, ma almeno dall’altra parte c’è qualcosa di più delle macerie della volta scorsa.

(Il Mattino, 4 giugno 2016)