Archivi del giorno: giugno 10, 2016

De Luca junior e il partito formato famiglia

Immagine2.jpgLe analisi del voto si fanno sui numeri, ma a volte contano anche le storie. Come quella di Salerno. I numeri parlano chiaro. A Salerno, Enzo Napoli è stato eletto sindaco con la percentuale record per questa tornata elettorale del 70,5% dei voti. Il secondo arrivato ha preso il 9,6%: un abisso. Nella sua giunta entra Roberto De Luca, figlio del governatore campano, con deleghe pesanti al bilancio e allo sviluppo. La nuova consiliatura si apre dunque nel segno della più assoluta continuità con un’esperienza politica che dura dal 1993, da quando cioè Vincenzo De Luca subentrò al dimissionario sindaco socialista, Vincenzo Giordano. In quello stesso anno, De Luca affrontò il voto e venne eletto per la prima volta, con quasi il 58% dei voti, alla testa dei «Progressisti per Salerno». Nel 1993 il Pd non esisteva: esisteva il Pds, Partito democratico della sinistra, che sarebbe poi diventato Ds, Democratici di sinistra, e infine – insieme con la Margherita – Pd, partito democratico. In tutto questo tempo, i «Progressisti per Salerno» hanno mantenuto la guida della città, ripresentandosi ad ogni elezione. De Luca è stato sindaco finché ha potuto, finché cioè il limite dei due mandati non lo ha costretto a lasciare. Ora è alla Regione, ma la giunta cittadina è, in tutto e per tutto, una sua diretta emanazione. Un caso analogo, in una città di medie dimensioni, in giro per l’Italia non c’è. Un caso analogo: cioè il caso di una città che tributa un consenso reale, vero, largamente maggioritario (una volta si diceva bulgaro), ad una stessa formazione politica ininterrottamente per un quarto di secolo. In uno strano gioco di eredità, non c’è solo il testimone che passa di padre in figlio, con il neo-eletto sindaco Napoli nei panni del Mazzarino di turno, che assume la reggenza in attesa che si perfezioni la successione; c’è anche un’eredità che si trasmette graziosamente al Pd, il quale riceve in dote i clamorosi successi politici di De Luca pur senza mai affrontare il voto col proprio simbolo.

Napoli: tutt’altra storia. Anche lì cominciata nel ’93, con l’elezione di Antonio Bassolino (che di De Luca è praticamente coetaneo), e proseguita poi per un secondo mandato. A Napoli il passaggio in Regione arriva prima, nel 2000, e nei dieci anni successivi il centrosinistra tiene sia il Comune (con la Iervolino) che la Regione (con Bassolino). Poi, con la drammatica crisi dei rifiuti, perde tutto: prima la Regione, dove sale il centrodestra di Caldoro, quindi la città, dove viene eletto De Magistris, dopo il clamoroso autogol delle primarie annullate. Ma da allora sono trascorsi cinque anni, e il Pd non ha dato segnali di inversione di rotta. Ha cambiato segretari regionali e provinciali, è passato per esperienze di commissariamento, ha ottenuto sottosegretariati al governo, ma nulla è servito. In realtà, il 2011 non era stato solo l’anno di una sconfitta politica, ma anche il punto in cui di fatto si rompeva un rapporto politico e sentimentale con la città. Cinque anni non sono valsi a ricucirlo. Il Pd ha continuato a dividersi, lacerato da polemiche intestine, dominato da piccoli capi locali, quasi disperso come comunità politica. Quel che è peggio, continua a non apparire degno di fiducia a settori larghi della popolazione cittadina, che non avrebbero motivo per seguire le rodomondate di De Magistris, e che però non trovano sufficienti doti reputazionali (eufemismo) nella classe dirigente che il partito democratico esprime. D’altronde lo si è visto: Valeria Valente ha portato per tutta la campagna elettorale la croce di una diffidenza profonda e di un malcontento che venivano dallo stesso partito democratico. Al di là dei suoi meriti o demeriti personali, è un fatto che non c’era nessuno che avrebbe potuto federare i diversi pezzi del Pd e offrire l’immagine di un partito unito e di una causa comune. Lo stesso Bassolino era sceso in campo non già come l’uomo che avrebbe potuto mettere d’accordo tutti, ma come quello che avrebbe potuto vincere da solo, o quasi, sospendendo i giochi correntizi, sempre meno redditizi, che paralizzano il partito democratico

Due storie opposte, dunque: a Napoli, un quadro a dir poco frammentato, una dirigenza di fatto priva di autorevolezza, e la mancanza di parole che entrino nel discorso pubblico e aggreghino società civile, intellettualità diffusa, mondo produttivo. Che facciano cioè quel che la politica deve fare. A Salerno, invece, un monolite costruito intorno alla figura carismatica di Vincenzo De Luca, in una forma di affidamento personale, capace di trasmettersi anche oltre i limiti naturali di un ciclo politico, edi ridurre le dinamiche di partito a un ruolo subordinato e quasi ornamentale. A Salerno tutta la città segue De Luca, a Napoli quasi nessuno si fida del Pd, ma in tutte e due i casi, per troppo successo o per un completo insuccesso, i democratici non si capisce cosa ci stiano a fare. E poiché purtroppo poche altre storie offre il Mezzogiorno, usi o no il lanciafiamme, Renzi un pensiero serio alle condizioni in cui si trova il partito di cui è il segretario lo deve dedicare.

(Il Mattino, 10 giugno 2016)

Il Paese dove tutti i partiti perdono voti

Boetti

I dati messi a disposizione dall’Istituto Cattaneo non stravolgono le valutazioni immediatamente successive al voto di domenica, ma consentono di offrire analisi più accurate. L’Istituto avverte che il raffronto con le politiche del 2013 non è omogeneo, ma rimane il retroterra più sicuro per studiare l’evoluzione del comportamento elettorale. Soprattutto in relazione ai risultati del Movimento Cinquestelle, che aveva a sorpresa conquistato, tre anni fa, un quarto circa dell’elettorato. Alla domanda se quel risultato debba essere considerato un effimero exploit il Cattaneo risponde di no, dati alla mano. Perché l’analisi dei flussi elettorali, in entrata e in uscita, mostra che quella parte dell’elettorato si sta fidelizzando: chi ha votato M5S tre anni fa è tornato a farlo domenica scorsa. L’astensionismo, in crescita, tocca anche i grillini, ma il grosso di quegli elettori è rimasto fedele al Movimento: nonostante la tragica uscita di scena di Casaleggio e il relativo disimpegno di Grillo. Fa eccezione Napoli, dove sono consistenti i flussi elettorali in direzione di De Magistris. In vista del ballottaggio, il Sindaco di Napoli sembra perciò poter dormire fra due guanciali, visto il distacco da Lettieri e la relativa facilità con cui può attrarre la parte del voto grillino andata a Brambilla (mentre l’impresa di Lettieri, di motivare il voto democrat, appare obiettivamente più complicata).

C’è stato dunque un fenomeno di assestamento del M5S. Il calcolo sui voti validi dimostra però che, sia in termini assoluti sia in percentuale, i Cinquestelle hanno perso voti. E questo nonostante il trascinante successo di Virginia Raggi a Roma. Significa forse che il gran battage mediatico sulla candidata romana ha oscurato il dato reale, che nel complesso non è stato affatto clamoroso? In parte almeno è così. È evidente, infatti, che i Cinquestelle non hanno ancora una leva di candidati all’altezza: basti pensare a quanti pochi siano i casi di ballottaggio con un esponente pentastellato. E anche le performance deludenti di Napoli e Milano lo dimostrano. Ma è vero pure che, in un sistema che eredita il bipolarismo ventennale della seconda Repubblica, il destino di un partito che non esercita nessuna attrattiva coalizionale è quello del tutto o nulla. In questa prospettiva, Roma rimane ancora, per i Cinquestelle, la fiche posta sul tavolo per far saltare il banco, indipendentemente dai risultati a macchia di leopardo nelle restanti città capoluogo.

I dati del Cattaneo riservano però qualche sorpresa anche al centrodestra e al centrosinistra. E, si direbbe, non negativa. Entrambi i poli infatti realizzano un certo recupero rispetto alle politiche di tre anni fa. Dal report dell’Istituto non è chiarissimo cosa si intenda per centrosinistra o per centrodestra: e questa è anche un altro dei problemi che affliggono il nostro sistema politico: dove iniziano e dove finiscono i due schieramenti non lo si sa bene, e spesso non si sa neppure quale nome abbiano. Ad ogni modo, è indubbio che c’è ancora un voto polarizzato alla sinistra e alla destra del campo politico, e quel voto è, sia pure di poco, in crescita, almeno in termini percentuali. Il centrosinistra guadagna un punto, il centrodestra ben quattro. Questo significa che, quando si saranno riattaccati i cocci, che sia per la residua capacità federativa di Berlusconi o per l’emergere di nuove figure e stili politici, è presumibile che la guida del Paese tornerà contendibile anche da quella parte politica.

A leggere i dati, e a guardare anche i flussi (che riguardano tuttavia solo sette città, tra le quali non ci sono Roma e Milano) si può forse indovinare meglio il bivio dinanzi al quale ci troviamo. Si vede infatti che contano senz’altro le situazioni particolari, come quelle di Napoli e Salerno, dove proposte politiche molto peculiari determinano flussi più marcati, in particolare in entrata verso i sindaci uscenti, Luigi De Magistris e Enzo Napoli, e in uscita, nel capoluogo partenopeo, soprattutto dal Pd. A dimostrazione di una crisi conclamata del partito democratico, che dura da parecchi anni e che queste elezioni non hanno affatto superato, se mai acuito. Conta tutta ciò, ma nel complesso si fa chiaro che la divisione in tre blocchi del consenso politico, fra centrosinistra, centrodestra e Cinquestelle è in via di consolidamento, con pochi, marcati travasi di voti da una parte all’altra. A fare la differenza è se mai la capacità di non perdere ulteriori consensi verso l’area dell’astensione. I ricercatori del Cattaneo mostrano infatti che neanche i M5S riesce a riportare al voto gli astenuti. Resta così il bivio al quale il voto amministrativo ci consegna per i mesi a venire: da una parte si restringe la base di legittimazione degli istituti della democrazia rappresentativa; dall’altra, rimane la necessità di assicurare governabilità pur in presenza di un Paese diviso in tre. E la formula risolutiva del problema è ancora da trovare.

(Il Mattino, 8 giugno 2016)

Se l’elettore non si tura più naso e orecchie

Cicladi

Forse questo primo turno amministrativo può dispensare qualche certezza anche se, a quanto pare, nelle principali città italiane, quelle sulle quali si concentra in prevalenza l’attenzione dell’opinione pubblica, non eleggerà alcun sindaco e bisognerà attendere il ballottaggio. Nel frattempo, infatti, gli uscenti sono dati in vantaggio: sia a Torino che a Napoli; sia Fassino che De Magistris. Due uomini che non potrebbero essere più diversi. In realtà, da quando c’è l’elezione diretta del sindaco la regola – che pure ammette un buon numero di eccezioni – è che il sindaco che si ripresenta viene rieletto. La stessa legge, imponendo il limite dei due mandati, dimostra consapevolezza del vantaggio da cui parte chi detiene il controllo della macchina comunale. E questo è un primo punto, dal quale ogni volta si riparte.

Un altro punto, più importante, è che l’elettorato tende a premiare liste e candidature che non sono state logorate da conflitti interni. Questa regola riguarda tanto le forze politiche tradizionali, quanto le nuove formazioni. Prendiamo i Cinquestelle: a Napoli hanno avuto non pochi problemi a individuare il candidato; i big hanno preferito non scendere in campo; una parte dei militanti non ha digerito la scelta abbastanza incolore di Matteo Brambilla, minacciando addirittura di adire le vie legali. Risultato: il Movimento è abbondantemente al di sotto della media nazionale, e fa probabilmente peggio anche del risultato ottenuto con la Ciarambino alle Regionali dello scorso anno. Pesa sicuramente il consenso per De Magistris, ma i grillini ci hanno sicuramente messo del loro. Stessa cosa a Milano, dove la candidata indicata in un primo momento, Patrizia Bedori, si è fatta (o è stata fatta) da parte. Fortissima fibrillazione, e Milano uscita fuori dai riflettori del Movimento. Risultato: la partita se la giocano Sala e Parisi, centrosinistra e centrodestra, e i Cinquestelle ottengono percentuali tutto sommato modeste. Del candidato, Gianluca Corrado, si conserverà traccia solo in qualche almanacco di figurine.

Guardiamo altrove. Nel centrodestra, Roma è stato l’epicentro di tutti i conflitti, il caso più eclatante. Da una parte un elettorato di centrodestra moderato, con Alfio Marchini; da un’altra parte un elettorato di destra populista, con Giorgia Meloni (e Salvini a supporto). Conseguenza: la destra è con ogni probabilità fuori dalla partita finale, quella del ballottaggio. E la lista di Forza Italia, che ha prima provato a puntare su Bertolaso per poi accodarsi a Marchini fra mille polemiche tocca il suo minimo storico, con percentuali dai quali è dubbio che possa in futuro riprendersi.

Nel centrosinistra, l’impresa più difficile è stata Napoli. A Napoli le primarie hanno decretato un vincitore, Valeria Valente, che Antonio Bassolino, il perdente, ha a lungo mostrato di non riconoscere: impugnando il risultato, chiedendo di rivotare, contestando poi puntualmente tutte le scelte compiute nel corso della campagna elettorale. Risultato: la lista del partito democratico rimane ferma, grosso modo, alle percentuali ottenute cinque anni fa col prefetto Morcone, dopo la debàcle dell’annullamento delle primarie, e al momento gli exit poll danno la Valente terza, e dunque fuori del ballottaggio.

Conclusione: gli elettori non si turano più il naso. Essendo venuto meno il sentimento forte di un’appartenenza ideologica o di partito, non hanno più motivo di farlo. Una proposta politica diviene quindi inevitabilmente più convincente, quando è rappresentata con chiarezza dal candidato prescelto, mentre divengono sempre meno comprensibili i disaccordi e i contrasti interni: non essendo più riconoscibili divisioni di carattere ideologico, culturale o programmatico, non resta che la lotta di potere e l’ambizione personale. Che in genere l’elettore non apprezza.

C’entra anche la personalizzazione della politica? Sicuramente. Tanto più in una competizione come quella municipale, con l’elezione diretta, dove quindi imbroccare il candidato giusto può fare la differenza. E anche in questo caso, ciò è vero a destra come a sinistra, così come dalle parti dei grillini. Vale cioè per Parisi a Milano, che porta il centrodestra molto più in alto che altrove, ma anche per la Appendino a Torino, che rimane in partita nonostante il credito di cui godeva Fassino alla vigilia. Vale infine pure per Giachetti a Roma, che ha permesso al Pd di superare lo sbandamento seguito alle dimissioni di Marino e alla fine traumatica della consiliatura, e probabilmente di rimanere in partita.

C’entra dunque il fattore personale. Ma pesa pure l’esiguità di quelli che erano una volta gli «interna corporis» dei partiti. Che quasi non esistono più. E che comunque non riescono più a tener dentro un bel nulla. Ed ecco allora l’ultimo risultato: la legittima, e insopprimibile, lotta politica si riversa nei canali artificiali di una sorta di circolazione extra-corporea, cioè su media, rete e giornali, e là fuori di legittimità ne conquista sempre meno. L’elettore sente tutti i miasmi che si sollevano e siccome il naso non se lo tura più, vota da un’altra parte o, più spesso, si astiene.

(Il Mattino, 6 giugno 2016)