Quella di ieri è la seconda vittoria, ma la prima fu un vero sconquasso, e bisogna cominciare da lì per raccontare Luigi De Magistris. Che fu eletto primo cittadino di Napoli il 30 maggio 2011, in un momento di enorme difficoltà tanto del centrosinistra quanto del centrodestra. Per Berlusconi fu l’«annus horribilis», conclusosi con le dimissioni da Palazzo Chigi, in novembre. Per il Pd, di orribili c’erano già state a Napoli le primarie, annullate per sospetti brogli. Il centrosinistra andò al voto con una carta di ripiego, il prefetto Morcone, terzo al primo turno. Al ballottaggio i suoi voti si riversarono quasi interamente sull’uomo nuovo, quello con la bandana arancione, che la sera del voto a braccia alzate griderà: «Avimme scassato tutte cose!».
De Magistris veniva da una breve esperienza come parlamentare europeo. Di quei due anni a Strasburgo si ricorda solo l’enorme numero di preferenze: più di quattrocentomila. L’Italia dei Valori, il partito di Antonio Di Pietro che lo aveva candidato, di lì a poco sparirà dalla scena politica nazionale. Perso il taxi dell’IdV, De Magistris sposa «Rivoluzione civile», il movimento inventato dal pm palermitano Antonino Ingroia nel 2013. De Magistris lo sostiene, ma le elezioni si rivelano un disastro: anche Ingroia finisce dietro le quinte (ora fa l’avvocato).
La vittoria di quest’anno prepara dunque, in prospettiva, il terzo assalto di De Magistris ai palazzi romani.
Lo schema è quello provato all’ombra del Vesuvio: legalità, democrazia, partecipazione. Ma anche: antagonismo dei centri sociali, rivoluzione senza partiti, indignazione sociale, benecomunismo e diritti civili. Luigi De Magistris è un magistrato, che ha lasciato la toga con l’aureola dell’uomo senza macchia che ha osato sfidare i potenti. Dalle sue inchieste non sono venute condanne, ma lui ha sempre sostenuto che è perché gli sono state sottratte. Di sicuro, l’impegno in politica è nato in nome della lotta contro la corruzione e la camorra. Più che servizi pubblici efficienti e buche stradali riempite, De Magistris ha promesso la «liberazione di Napoli», e ora gli piacerebbe esportarla nel resto del Paese. La spina nel fianco sono i conti pubblici: l’economista Riccardo Realfonzo predispose, da assessore, un piano di razionalizzazione delle spese che al sindaco dispiacque assai. Realfonzo si dimise, e il piano non fu mai attuato. Ora Realfonzo giudica fallimentare la situazione del bilancio comunale.
Durante la scorsa consiliatura un momento di svolta però c’è stato, quando il sindaco, condannato in primo grado per abuso d’ufficio (per una storia legata alla sua attività di Pm), per effetto della legge Severino viene sospeso dalle funzioni. Prima ancora della assoluzione che lo ristabilisce nei suoi poteri, lui trasforma la disavventura in una medaglia sul petto. Diviene sindaco di strada, riuscendo a stare, per la gente, fuori dalle stanze del potere pur sedendo a Palazzo San Giacomo.
Infine il colore. Il bell’aspetto, l’aria guascona, l’orgoglio napoletano, una comunicativa diretta, un tratto giacobino e qualche sguaiataggine, una certa dose di meridionalismo rivendicativo e di romantici riferimenti alla rivoluzione zapatista. Il risultato è il voto di ieri. Lui ha sempre detto che i partiti personali non lo riguardano, però ha dato le proprie iniziali al movimento che ha fondato («Dema»). Ci pensava già nel 2011, ci torna a pensare adesso. Dalla procura di Catanzaro, passando per Napoli, provare a sbancare Roma: nell’anno in cui gli oppositori di Renzi tentano tutti insieme lo sgambetto finale, ad allungare la gamba in un tipico fallo di reazione c’è anche Luigi De Magistris.
(Il Messaggero, 20 giugno 2016)