Archivi del mese: luglio 2016

Occidente e Islam sconfitti entrambi dalla Tecnica (int. a E. Severino)

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Chi è il giovane che guida un camion contro la folla, a Nizza, o che sino i due killer che in Normandia, a Saint-Etienne du Rouvray, irrompono all’interno di una chiesa, e tagliano la gola a un parroco, un uomo di 84 anni, Jacques Hamel? Chi è il terrorista? Che cosa lo muove, che cosa lo arma? La conversazione con Emanuele Severino, filosofo, tra i massimi pensatori del nostro tempo, ha preso le mosse da questa domanda, ma anche dal dubbio che dietro le fedi, le ideologie, le psicologie individuali e collettive, vi sia qualcos’altro, e che almeno una parola della filosofia, la parola nichilismo, aiuti a indicarlo. Chi è dunque il terrorista? Chi è il tagliagole, il kamikaze, l’uomo che uccide a sangue freddo, quello che spara indiscriminatamente a giovani, donne, bambini?

«Oggi sta diventando chiaro che il terrorismo include ma non coincide con il terrorismo fondamentalista islamico. Certo, è venuto in chiaro come siano radicalmente sbagliati i motivi che spingono quelli che non si sentono a proprio agio nelle società occidentali a reagire in modo così violento. Il terrorismo islamista è però solo la componente eminente, non l’unica. È vero tuttavia che le diverse forme di disagio trovano una giustificazione, forse persino una santificazione nella causa islamica. Ma ci sono anche casi in cui questo non avviene. Definire il terrorismo come esclusivamente terrorismo islamico fondamentalista è, dunque, improprio. Vi sono altre componenti: anzitutto il disagio, il risentimento degli emarginati. Ma anche la sublimazione di patologie mentali: la sublimazione, dico, nel senso di una giustificazione religiosa, ma anche nel senso dell’esibizione di un coraggio cieco e assoluto di fronte alla morte. Perché questa gente appartiene alla categoria dei candidati al suicidio. Temo anzi che saranno sempre di più, tra quanti pensano al suicidio, quelli che risolveranno il problema motivandolo religiosamente o politicamente o ideologicamente».

Il pensiero corre ai demoni di Födor Dostoevskij. Il rivoluzionario, il teorico, il fanatico, ma anche l’ingegnere disoccupato, il nichilista Kirillov, ossia il suicida, quello che accetta di firmare una falsa confessione, prima di togliersi la vita con un colpo alla testa, per accollarsi la responsabilità di un assassinio. E nel modo in cui si forma, nel grande romanzo russo, la cellula di rivoluzionari che dovrebbe gettare la Russia nel caos con una serie di attentati terroristici, nel modo in cui vi entrano i demoni, divorati da passioni ideologiche e motivazioni personali diverse, non vi è forse qualcosa dei profili così diversi dei terroristi che hanno agito in queste settimane: persone emarginate, ma anche ricchi rampolli della borghesia islamica? Ragazzi con gravi disturbi mentali, ma anche giovani radicalizzatisi in un crescendo di odio e fanatismo? Non avremmo ragione di usare allora come denominatore comune, una parola della filosofia (che peraltro Dostoevskij ben conosceva), la parola nichilismo?

«Se per nichilismo si intende quello che per esempio intendevano i nichilisti russi nell’800, ma anche Friedrich Nietzsche, allora sì, la categoria di nichilismo può essere appropriata. Io credo però che la categoria abbia un significato più profondo».

Qual è allora il più profondo della crisi in gioco? Che cosa dobbiamo vedere, che non vediamo quando ragioniamo sulle modalità di una strage, o anche quando ci interroghiamo intorno alle cause economiche o sociali, politiche o religiose che la ispirano?

«Credo che tutte quelle affermazioni in cui si dice che la crisi attuale non è semplicemente una crisi economica o culturale ma è una crisi molto più profonda, rimangano in realtà alla superficie. Se si va a vedere cosa indicano come il più profondo, si trova che non è tale. Certo è vero: non ci troviamo semplicemente alle soglie di una crisi economica, o culturale, ma ciò di cui propriamente si tratta è quel rovesciamento radicale e inevitabile, in cui la tradizione dell’Occidente è portata al tramonto dai protagonisti autentici della contemporaneità. Bisogna anzi parlarne al singolare: questo protagonista autentico è la Tecnica».

Severino introduce con accortezza al cuore del suo pensiero. È sempre difficile portare lo sguardo dalla superficie delle cose a ciò che avviene al di sotto di essa, e vi è sempre il rischio che questo rivolgimento dello sguardo venga considerato un modo per allontanarsi dalla drammatica attualità del conflitto in corso. Come se non contassero più i morti ammazzati, la terribile contabilità di queste settimane, le immagini concitate che rimbalzano ogni giorno sullo schermo, ma solo potenze astratte e impersonali che, nella loro nitida silhouette concettuale, trascendono però infinitamente le nostre piccole vite umane. In realtà, ciò che suona il più astratto è, per Severino e per la filosofia, il più concreto: chi pensa astrattamente, diceva Hegel, è chi non riesce a vedere la tremenda concretezza delle forze che dominano l’orizzonte del presente.

«Si parla di una terza guerra mondiale. Ne ha parlato il Papa, ma prima del Papa ne ha parlato Friedman [il riferimento è al politologo americano George Friedman, che si è dichiarato pronto a scommettere che il XXI secolo non farà eccezione: come i precedenti, anche il secolo in corso avrà il suo conflitto mondiale]. Se comincia qualcosa come una guerra non possiamo pensare che si dia una risoluzione a breve termine. Ma se ci sono gli elementi per dire che una guerra è possibile, c’è anche la possibilità di indicare l’esito inevitabile di una simile guerra».

Severino resta uno degli ultimi filosofi che mantiene alla parola filosofica il suo carattere originario, di parola vera e incontrovertibile. Mi richiama, dunque, appena provo ad usare la parola «scenario», come si trattasse della prospettazione di un corso possibile di eventi accanto ad altri, e continua:

«Vado da tempo dicendo nei miei scritti che ad uscire vittorioso da questo non breve conflitto non è nessuno dei confliggenti: né l’Occidente democratico-capitalistico, né il mondo islamico, bensì lo strumento di cui l’uno e l’altro sono costretti a servirsi. Questo strumento è la Tecnica».

Appare chiaro allora che per Severino la conflittualità più visibile, che attualmente terrorizza il mondo, non dice il più profondo dello scontro in atto. È una lotta di retroguardia, non la vera anima del conflitto. Più avanti Severino ricorderà come l’Islam, come tutte le forze della tradizione, individui in realtà nella civiltà della tecnica il suo vero nemico. Anche quando parla del Satana americano, l’Islam prende di mira l’America e l’Occidente per via del suo consumismo, del suo allontanamento dalla dimensione religiosa, e infine del suo essere un frutto della civiltà della tecnica. Così è per l’intera civiltà degli ultimi cinque secoli, figlia dell’incontro fra cristianesimo e tecnica e scienza moderna.

«Se si è d’accordo che la Tecnica è lo strumento di cui tutte le forze si servono per prevalere, allora ognuno degli avversari ha uno scopo, per raggiungere il quale gli è necessario il continuo incremento dello strumento di cui si serve. Ognuno dei contendenti deve aumentare all’infinito la potenza. Ma in questo modo l’incremento della potenza, grazie alla tecnica, occupa sempre più spesso l’area dello scopo che la forza in conflitto si propone di realizzare».

Ecco il teorema fondamentale: la Tecnica da mezzo diviene scopo, e così riduce inevitabilmente al silenzio gli scopi per i quali i confliggenti – un tempo gli USA e l’URSS, oggi l’Occidente e l’Islam – sono scesi in campo. È ciò che nel suo libro su «Islam e Prometeo» Severino ha chiamato non «pax americana», ma «pax tecnica», perché l’America, come ogni altra forza storico-politica mondiale – il capitalismo, il nazionalismo, il comunismo, ma anche l’Islam – è ad essa assoggettata.

«La tecnica che in ultimo prevarrà sarà la Tecnica capace di ascoltare quella distruzione assoluta della tradizione, che la grande filosofia ha pensato, quella distruzione radicale Nietzsche chiama per esempio «morte di Dio». Che non è una parola in libertà di un uomo un po’ folle, ma anzi ha una potenza che la cultura contemporanea e la stessa Chiesa non comprendono. La Chiesa vede nel relativismo il suo nemico, e non scorge il sottosuolo filosofico del nostro tempo dove si dimostra l’impossibilità di ogni limite che arresti l’agire dell’uomo».

Questa impossibilità di porre un limite, la parola della filosofia che dice alla tecnica «tu puoi» è, insomma, la più grande volontà di potenza. Nessun contrattacco della tradizione potrà mai prevalere su di essa, secondo Severino. E però, nel salutarlo e nel ringraziarlo per la lunga conversazione, un dubbio mi assale: ma questa fede nell’impossibilità di porre un limite all’agire dell’uomo non è, da ultimo, proprio la stessa che nutre il terrorista che lancia il suo camion sulla folla del lungomare di Nizza, o spinge a tagliare la gola a un anziano curato di provincia?

(Il Mattino, 27 luglio 2016)

Legalizzare

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Caro Direttore,

ho letto con attenzione l’intervento, serio e informato, di Giovanni Serpelloni su questo giornale, sul tema della legalizzazione delle droghe leggere, di cui è avviata in Parlamento la discussione (con probabile rinvio a settembre). Nel modo più conciso possibile, e spero fedelmente, provo a riassumerne i punti principali: la droga fa male; la droga fa male soprattutto in età adolescenziale (e gli adolescenti sono i primi consumatori di droghe leggere); il mercato legale di droga, sotto controllo statale, non potrà mai battere quello illegale, che sarà sempre più competitivo, e potrà tra l’altro affiancare alle droghe legali altre sostanze, dal più alto potere psicotropo; quanto alle organizzazioni criminali, potranno comunque vendere anche ai minorenni, le rivendite legali invece no. Poi ancora: nel considerare costi e interessi economici, non si tiene conto da un lato dei costi sociali dell’uso della droga, prevalentemente a carico del sistema sanitario nazionale, dall’altro degli interessi economici che spingono per la legalizzazione. Infine, la legge in vigore non criminalizza e non è criminogena (a volerla però seriamente applicare), mentre la legalizzazione indebolisce il disvalore sociale connesso al consumo di droghe, e concede una libertà di cui i più deboli e i più fragili pagheranno il prezzo.

Mi prendo ora un po’ di spazio per provare ad argomentare non su ciascuno di questi punti, ma su quelli che a mio parere sono rilevanti ai fini della decisione che il Parlamento dovrà prendere. Non mi soffermo dunque su quanto male le droghe facciano o su quante morti causino: se più o meno dell’abuso di cioccolata, dell’alcool o del tabacco. Non discuto nemmeno il diritto dello Stato di incentivare o disincentivare comportamenti individuali o collettivi: non sono un liberale agnostico, per il quale lo Stato meno fa e meglio è, e dunque capisco bene e anzi apprezzo il fatto che si preoccupi della salute degli adolescenti (come di quella dei conducenti di automobili, a cui prescrive la cintura di sicurezza, o di quella degli operai edili, che obbliga a indossare il casco). Discuto invece dell’efficacia delle condotte sin qui tenute, e trovo sorprendente che un serio dibattito non cominci da questo: dagli effetti delle politiche proibizioniste e repressive adottate per decenni. Quegli effetti sono sotto gli occhi di tutti: la droga è libera, e non c’è adolescente che non abbia la possibilità di procurarsene quando e come vuole. La droga è un enorme affare per la criminalità. La droga, infine, comporta una mole ingente di spese dello Stato in termini di impiego delle forze di polizia, oneri per l’amministrazione della giustizia, impegno del sistema penitenziario. Su questo c’è un parere ufficiale della Direzione Nazionale Antimafia, che in un indirizzo al governo ha spiegato come la legalizzazione consentirebbe di liberare ingenti risorse dello Stato da un lato, e comporterebbe una «perdita secca di importanti risorse finanziarie per le mafie» dall’altro. Non mi pare poco.

Ma una discussione in termini di costi e benefici dovrebbe prendere atto innanzitutto del fallimento delle politiche sin qui adottate. Io capisco anche che si voglia assegnare alla legge dello Stato un significato che va al di là delle concrete conseguenze della sua adozione: l’affermazione di un principio o di un valore, ad esempio. Capisco, ma non fino al punto di ignorare che le conseguenze concrete hanno clamorosamente smentito quel valore e quel principio. D’altra parte, non c’è nessuna ragione per cui la legalizzazione delle droghe non dovrebbe essere affiancata, faccio per dire, da campagne di informazione e sensibilizzazione: lo Stato ha molti modi per far capire da che parte sta, senza dover per questo ricorrere allo strumento grandemente inefficace dell’illecito penale o amministrativo.

C’è poi un punto generale, nell’intervento di Serpelloni, che non mi convince proprio, e cioè l’idea che siccome la legalizzazione avrebbe degli ovvii limiti, allora lascerebbe campo libero alla criminalità che di quei limiti si farebbe beffe (per esempio nel trattamento delle sostanze, o nella vendita a minori). Ma io direi: qualunque mercato ha delle regole, e proprio perciò mette fuori legge chi volesse agire al di fuori delle regole. Ma il fatto che vi sarà sempre chi proverà ad aggirare le regole, o a trasgredirle, cosa ha a che vedere con il tentativo di regolamentazione di quel mercato? E cosa vi ha a che fare pure il fatto che vi sono interessi pro legalizzazione, quando sicuramente vi sono interessi criminali ben più corposi che prosperano proprio grazie al proibizionismo? In realtà, la questione è, di nuovo, se quel mercato illegale, pericoloso e criminogeno, si amplierebbe o si restringerebbe grazie alla legalizzazione, e mi pare molto difficile sostenere che si amplierebbe.

Si dice infine che con la legalizzazione la pubblica autorità si sottrarrebbe alle sue responsabilità. Ma a me pare proprio il contrario, che legalizzare significhi, un minuto dopo, impegnarsi per responsabilizzare: le famiglie come la scuola, quelle che oggi si chiamano agenzie educative e i singoli cittadini. E soprattutto, mi dolgo che, proibendo, si pensi di aver fatto tutto, mentre invece non si è fatto proprio niente.

La verità è che la droga fa paura. In tempi in cui di paure ne circolano molte, spesso non controllate e non misurate, io resto però fedele all’idea che non si sconfiggano con gli anatemi e le grida manzoniane, ma con l’uso pubblico della ragione. Ho provato ad applicarmici, spero con qualche risultato.

(Con il titolo “Perché iberalizzare le droghe leggere è togliere linfa alla criminalità”: Il Mattino, 26 luglio 2016)

«Lobby del cancro», Di Maio nuova gaffe

Acquisizione a schermo intero 22072016 172411.bmp.jpgLa cosa sta così, ha spiegato Luigi Di Maio. C’è questa potente società di lobbying che ha studiato il comportamento parlamentare dei Cinque Stelle: cosa votano, cosa non votano, se votano tutti insieme oppure in dissenso, se avanzano proposte e vanno a buon fine oppure no. Allora io, che sono Di Maio, vicepresidente della Camera dei Deputati, membro del direttorio e per i giornali candidato premier in pectore, sono andato a sentire. Tutto qui: che c’è di male?

Nulla. Se non fosse che non c’era lo streaming (l’hanno rottamato da un bel po’). Se non fosse che il post in cui Di Maio ha fornito le sue spiegazioni lo ha scritto a cose fatte, solo dopo esserci andato, per cercare di spegnere le polemiche: prima, nessuno sapeva nulla. Se non fosse che i mugugni han preso a circolare fra i suoi stessi colleghi parlamentari, che – anche loro – avrebbero gradito sapere prima, se non altro perché stanno lavorando a una legge di regolamentazione delle attività dei portatori di interesse e hanno quindi motivo di vederci più chiaro. Se non fosse infine che lo stesso Di Maio ha fatto orecchie da mercante e ha tirato dritto facendo finta di nulla quando un giornalista gli ha chiesto chi andasse a incontrare a due passi dal Parlamento.

Prudenza, discrezione, imbarazzo? Forse anche un pizzico di vergogna. Ma la vicenda, di per sé, è del tutto irrilevante. Di Maio ha fatto qualcosa perfettamente in linea con la normale attività di un parlamentare della Repubblica. E però sarebbe utile se dedicasse un minuto di riflessione ai commenti e alle voci che lo hanno costretto a precisare, a chiarire, a rassicurare i molti simpatizzanti che proprio non se l’aspettavano: un grillino attovagliato coi lobbisti! Un cittadino (e che cittadino!) che stringe e si frega le mani incontrando chissà quali faccendieri!

Nella spiegazione Di Maio ha infilato un’altra gaffe, perché è sembrato mettere sullo stesso piano la lobby dei malati di cancro e quella dei petrolieri, mentre lui voleva dire l’opposto: che incontra solo i primi e non i secondi, solo i buoni e non i cattivi. Ma insomma: che la facesse davvero una piccola riflessione su come ci si sente a finire sotto il fuoco di parole di sdegno e riprovazione morale, su cosa significa passare anche solo qualche ora per quello che traffica e maneggia nei retrobottega della politica. Cosa significa rispondere a domande inquisitorie del tipo: se non c’era nulla di male, perché non lo hai fatto alla luce del sole? Con il sottinteso: evidentemente hai qualcosa da nascondere! Pensi anche, Di Maio, a quanto faticoso sia risalire la china della reputazione a colpi di smentite, perché per adesso gli può bastare un post su Facebook, ma la prossima volta chissà. Per adesso è stato solo un piccolo incidente, ma in futuro? Lui non incontra i petrolieri, ha tenuto a precisare, ma putacaso si scoprisse che fra i lobbisti che ha incontrato ieri ce n’è qualcuno che è finanziato dai petrolieri, che farà? Scriverà un altro post? E poi?

(Il Mattino, 22 luglio 2016)

Pokemon, se la caccia nasce con Platone

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Dov’è la novità? Fra spazi e luoghi c’è sempre stata una bella differenza. Se la teniamo presente, non sarà difficile collocare i Pokemon che furoreggiano nel mondo – da Central Park al giardinetto pubblico sotto casa – non in uno spazio, ma in un luogo. Che poi è daccapo uno spazio fisico, però riempito di significati, percorso e orientato dalle attività senso-motorie che noi compiamo in esso. A questa fittissima rete di movimenti con cui da sempre avviciniamo o allontaniamo le cose del mondo – le persone, i beni, le merci – si aggiungono ora quelli suggeriti da questa gigantesca caccia al mostriciattolo virtuale. Con le guance paffute, gli occhi grandi, le orecchie a punta e un nome stravagante.

Certo, una complicazione è rappresentata dal fatto che i mostri virtuali non si vedono a occhio nudo, ma solo sullo schermo dello smartphone o del tablet. Grazie alla geolocalizzazione, il mondo in cui si muove l’avatar – cioè il personaggio che noi stessi incarniamo nel gioco – non è infatti altro che una riproduzione del mondo reale, l’immagine della realtà che circonda effettivamente il giocatore, ma lo spostamento da un punto all’altro di questa mappa virtuale può essere compiuto solo spostandosi davvero, fisicamente, nel mondo reale.

Ricordate «Ricomincio da tre», la scena in cui Massimo Troisi prova a convincere un vaso a spostarsi (farebbe la sua fortuna)? Il vaso in realtà continua testardamente a non spostarsi, ma grazie a Pokemon Go gli potete lanciare contro una biglia virtuale e catturarlo. Catturare non lui, per la verità, ma magari il Pokemon che si è nascosto dietro, e che una volta catturato finisce nel vostro zainetto immateriale.

La chiamano realtà aumentata, per il fatto che nuovi elementi si aggiungono alla realtà grazie al gioco. Il mondo si popoli di nuovi personaggetti. Ma in verità è da quando l’uomo è uomo che la realtà va aumentando. Non in atomi ma, appunto, in significati. Un filosofo contemporaneo, scomparso di recente, Hans Georg Gadamer, ha sostenuto – prima ancora che inventassero la Rete – che tutta l’arte è un simile aumento di realtà: che l’arancia di un quadro di Cézanne è la stessa arancia che sta appesa all’albero, solo che ha subito un aumento d’essere, ed è ora più vera di quanto non sia l’arancia che spremiamo al mattino. O per meglio dire: chi ha visto le arance di Cèzanne, d’ora innanzi guarderà le arance fisiche a partire dalla loro rappresentazione, e non viceversa. Adeguerà insomma le arance del mondo reale all’arancia del quadro, e un po’ è vero: l’estetizzazione della nostra esperienza, la tirannia quotidiana del gusto non spinge forse a portare in frutteria solo arance, mele, e ciliegie tutte tirate a lucido come se fossero dipinte?

Ma i Pokemon? Di che aumento si tratta? Detto che la realtà si continua da sempre in nuove direzioni di senso, detto che non c’è corpo che non si prolunghi ben oltre il perimetro della sua pelle, questo diabolico gioco, più che aumentare la realtà, in verità la inverte. Perché il giocatore che va a in cerca dei piccoli mostri non si immette più profondamente nella realtà grazie a questa caccia virtuale, ma se mai, proprio grazie alla realtà, chiamata a fare da sfondo alla sua avventura online, entra più profondamente dentro la trappola del gioco. Quello che succede, insomma, succede sullo schermo: quello che aumenta, sono il numero di mostriciattoli catturati, gli oggetti collezionati e il livello di forza raggiunto.

È per questo che al telegiornale ci raccontano che per colpa di questi maledetti Pokemon la gente sbatte la testa contro i pali della luce. Perché ci si muove nel mondo reale, ma con la testa si sta dentro il mondo virtuale.

Ora però, nemmeno questa cosa è nuova del tutto. Posso ben dirlo io, per tutte le volte che ho scansato in extremis un ostacolo, mentre camminavo per strada leggendo il giornale. Ma prima di me e di tutti lo ha ben detto Platone, quando ha invitato gli uomini a intraprendere quella seconda navigazione che porta a cogliere «le cose che sono nei discorsi», non cioè le cose banalmente fisiche ma le idee, i concetti. Non ha cioè inventato lui il più virtuale di tutti i giochi, quello della metafisica occidentale (al cui fuoco, dopo tutto, ci scaldiamo ancora)?

Subito dopo averlo fatto, Platone cominciò a chiedersi – senza mai venire a capo della questione – in qual rapporto stessero tutte quelle idee con la realtà sensibile, e se dovessero servirci per allontanarci da essa o per introdursi in essa veramente (cioè: con mente vera). Per uscire dalla caverna della vita, insomma, o per meglio entrarvi.

Ma questo è il bello del gioco che, come uomini, giochiamo da sempre. Alcuni se ne vanno, altri restano. Alcuni hanno un tesoro di verità nascosto altrove, che qui proprio non può rivelarsi; altri non conoscono verità che non sia destinata infallibilmente a manifestarsi. Altri ancora, da ultimo, vanno a caccia di Pokemon. Ma si divertono: perché no, allora?

(Il Mattino, 21 luglio 2016)

 

 

La lezione di Olivetti per il Sud

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«Spesso il termine utopia è il modo migliore per liquidare qualcosa che non si ha voglia o coraggio o capacità di fare»: Matteo Renzi cita Adriano Olivetti, nel giorno della sua visita a Pozzuoli, e prova a rilanciare le ragioni del Mezzogiorno a partire da una delle sue eccellenze, il centro Tigem di Pozzuoli. Al Tigem, si fa ricerca sulle malattie genetiche rare, spesso trascurate dalla stessa industria farmaceutica. Una ricerca d’avanguardia, sostenuta da numerose istituzioni e centri di ricerca, ma molto limitatamente da fondi pubblici, tanto che il governatore De Luca scherzando ha detto che forse sta qui una delle ragioni del suo successo.

Ma né a De Luca né a Renzi premeva far polemiche. Piuttosto, le parole di Olivetti citate dal premier hanno un duplice significato: da una parte, un invito a non cercarsi alibi, dall’altro l’esortazione a puntare alto.

Naturalmente rimangono tutti i nodi di fondo di uno sviluppo che fatica a ripartire, tutte le contraddizioni di una realtà quotidiana le mille miglia lontana dai microscopi avanzatissimi del centro Tigem: si vedono anzi ad occhio nudo, senza bisogno di alcun ingrandimento.

Ma tra le cose che alla politica tocca sicuramente di fare, mentre denuncia criticamente (e anche autocriticamente) tutte le occasioni perse da una classe dirigente incapace di immaginare il futuro, c’è sicuramente quello di reinventare le condizioni dello spazio pubblico e dell’azione collettiva. Come hanno spiegato qualche anno fa George Akerlof e Robert Shiller, i famosi «spiriti animali» che guidano l’economia sono animali anzitutto nel senso latino del termine: hanno a che fare con ciò che ci anima, con le convinzioni che guidano gli attori economici, la prima delle quali è la fiducia. Renzi si può dire che non abbia parlato d’altro, ieri. Certo, ci vuole una dose di coraggio, nello sfidare lo scetticismo con le parole. E infatti questo governo sta provando a rilanciare anche una politica per gli investimenti per il Mezzogiorno. Ma il punto, ieri, era un altro. L’accento era messo su quell’elemento immateriale, impalpabile, su cui è ancora più difficile scommettere: quella cosa per cui, se nessuno si muove, tu non ti muovi, ma se qualcuno vicino a te si muove e si dà da fare, allora ti muovi anche tu. E cambia il vento.

Dinanzi sta la sfida che può essere riassunta nella seguente domanda: la situazione italiana, e del Sud in particolare, è la manifestazione di un declino storico, strutturale, che nell’epoca della globalizzazione investe inevitabilmente un’area periferica come l’Italia, e ancor più un’area arretrata come il Sud della penisola, visto che ormai si spostano altrove le determinanti dello sviluppo, oppure il corso economico degli anni a venire non è affatto segnato ed è possibile aprire una fase di ripresa economica, previa riforma e ristrutturazione del sistema-Paese, grazie anche alle risorse umane e culturali del Mezzogiorno?

Il premier cerca di cogliere i segnali di fiducia, le occasioni di rilancio, le best practices che consentano di sciogliere il dilemma consentendo all’Italia di tornare nuovamente ad «abitare il futuro», come ha detto Renzi, eleggendo contemporaneamente Napoli a immaginifica capitale del tempo venturo. Vale per la Tigem, vale per Bagnoli, vale per gli sviluppatori della Apple. Ovviamente, dietro gli scenari proiettati in un avvenire possibile i divari territoriali e sociali restano tutti, e così anche il senso generale di una solidarietà poco diffusa fra le aree del Paese, che lascia Renzi abbastanza solo quando scende al di sotto del Garigliano. Il punto è però se l’indubbio impegno che il Presidente del Consiglio sta mettendo, moltiplicando le visite a Napoli e nelle diverse realtà del Mezzogiorno, possa servire davvero a costruire un’impalcatura istituzionale orientata al cambiamento, raccogliere le forze economiche e sociali interessate a promuoverlo, piuttosto che poggiare solo su quelle sacche di interessi e poteri locali che tendono invece a perpetuare l’attuale equilibrio di sottosviluppo.

Poi c’è la politica. I complicati rapporti col sindaco di Napoli, le complicate e mutevoli alchimie del centro dello schieramento politico che sostiene il governo, i complicati propositi di rilancio del partito democratico dopo la botta delle amministrative, e infine la complicata partita per le riforme costituzionali, con il referendum in autunno. Il futuro oltre tutte queste complicazioni serve anche a semplificare, ma non è detto che riesca sempre a scioglierle.

(Il Mattino, 20 luglio 2016)

 

La lotta di potere a porte chiuse dei Cinquestelle

ImmagineNo, non c’entrano i topi, i cassonetti pieni di rifiuti, le baracche lungo il Tevere o uno qualunque dei mille problemi della città. Virginia Raggi è sindaco di Roma da troppi pochi giorni perché le si possa già buttare addosso la responsabilità per i mali che affliggono la Capitale. Ma i giorni che ha impiegato per completare la sua giunta, pochi o molti che siano, sono stati sufficienti a Roberta Lombardi per lasciare il direttorio capitolino, lo «staff stellare» che s’era deciso avrebbe affiancato la Raggi per governare al meglio la città.

Naturalmente la Lombardi smentisce litigi, diverbi o dissapori. Ha un sacco da fare, sta preparando la festa nazionale del Movimento che si terrà a Palermo a settembre, e quindi il suo supporto non potrà che venire «dall’esterno». I giornalisti: sono loro che si inventano «liti, gelo o siluramenti»: secondo la Lombardi tutti vanno d’amore e d’accordo, tutti danno una mano generosa a Virginia.

Ora, si potrebbe dire: dateci almeno uno straccio di diretta, fateci vedere le riunioni del direttorio e i baci e gli abbracci che si scambiano i cinque membri fra di loro, così evitiamo di leggere i perfidi retroscena della carta stampata, ostile e prevenuta contro i grillini. Ma purtroppo la mistica della trasparenza è in ribasso: nessun incontro avviene in favore di telecamere, Grillo va dalla Raggi, si intrattiene due ore e nulla trapela; da Casaleggio a Milano gli amministratori locali si riuniscono a porte chiuse, tutti si incontrano riservatamente e nessuno spiega che fine abbia fatto il caro vecchio streaming al quale, ai loro esordi in Parlamento, volevano inchiodare i maneggi e le sordide trame delle forze politiche tradizionali.

In realtà, non c’è nulla di sorprendente in quello che accade all’ombra del Campidoglio, e se anche è difficile mettere a fuoco i particolari, è chiaro che le dinamiche innescate dalla vittoria della Raggi mettono i Cinquestelle di fronte a un’evidenza lampante, ma ufficialmente e ostinatamente negata, alla quale si accostano dunque impreparati: che cioè l’esercizio della responsabilità politica è un esercizio di potere. Né più, né meno. E ciò è vero persino nel Movimento Cinquestelle, lo vogliano o no i cittadini-portavoce: c’è chi ha potere e chi no. Chi è eletto e chi no. Chi guida il Movimento e chi no. Chi fa le nomine e chi cerca di condizionarle. La legittimazione democratica non elimina affatto queste distinzioni, e non le elimina neppure l’interpretazione grillina della democrazia. È il caso infatti di aggiungere che nulla di quello che sta avvenendo a Roma avviene, ovviamente, via web. Sulla Rete si trova piuttosto il gelido comunicato ufficiale della Lombardi, o le parole brezneviane del premier in pectore Luigi Di Maio. Ecco: non ci fossero i giornali con le loro maldicenze, di tensioni interne al Movimento nessuno parlerebbe (come non se ne parla sul blog di Grillo, che nulla dice), e la Lombardi scomparirebbe dalle foto del direttorio romano con un semplice photoshop, come una volta si sbianchettavano le immagini del Politburo, eliminando le figure cadute in disgrazia.

Di qui alla fine del mandato di Virginia Raggi con ogni probabilità ne vedremo molte altre, di vicende simili: di dimissioni, espulsioni, cambi di casacca. Manca però ai grillini la possibilità di rappresentare questi sommovimenti così come li si rappresentava una volta: come uno scontro fra linee diverse, o fra interessi diversi, o fra correnti diverse. Per definizione, infatti, nessuna diversità può albergare nel Movimento, che sta sempre dalla parte dei cittadini, che è anzi formato dai cittadini medesimi e che dunque non può mai tradirne le ragioni (salvo cacciare i traditori). Né si vede come sia possibile, allo stato, che si formi una dialettica interna ai Cinquestelle. Una dialettica, beninteso, che sia riconosciuta come tale, e che possa liberamente articolarsi senza subire gli anatemi di Grillo, o i richiami all’ordine di Casaleggio.

La costituzione di un direttorio che, nelle alate parole primaverili dell’allora candidata Raggi doveva fare la differenza e mettere il sindaco «nelle condizioni di superare le difficoltà gestionali e burocratiche a cui la mala politica ci ha sottoposto per decenni» era in realtà un tentativo di commissariarla ante factum. Per ora sembra che la Raggi, sostenuta da Grillo e da Di Maio, pur cedendo nei giorni scorsi sulla nomina del capo di Gabinetto, abbia però ottenuto qualche margine di autonomia in più, scrollandosi di dosso l’ingombrante cupola: al posto tanto ambito non è così andato la sua prima scelta, Daniele Frongia – nominato in compenso vice-sindaco – ma nemmeno il nome sponsorizzato dalla odiata Lombardi, il magistrato Daniela Morgante. È toccato così a Carla Ranieri, e la Lombardi ha lasciato il direttorio.

Ebbene, come si dovrebbero raccontare queste storie, se non in termini di una lotta senza esclusioni di colpi per il governo della città? Ma siccome la politica pentastellata è ufficialmente un’altra cosa, si chiamerà in un’altra maniera. Purtroppo però non è solo una questione di parole, ma di capacità politica, prima ancora che amministrativa. Non di competenze o professionalità, ma di direzione e leadership. E alla fine, al netto di tutte le parole, è su questo che anche i grillini e Virginia Raggi saranno giudicati.

(Il Mattino, 15 luglio 2016)

Sì alla riforma contro i furti al Sud

home_polloLa regione più giovane d’Italia, la Campania, perde 200 milioni di euro l’anno perché nella ripartizione dei fondi per la sanità si tiene conto solo dell’età: lo ha ricordato ieri il governatore De Luca, e ha ricordato una cosa vera. Il proverbio dice: a buon intenditor poche parole, ma per De Luca, evidentemente, in giro di buoni intenditori non ce ne sono, e perciò l’ha messa giù così: noi del Sud siamo polli e quelli del Nord sono magliari.

Il dato però è già abbastanza vistoso di per sé, perché i termini coloriti possano aggiungere qualcosa: è un fatto che la maniera in cui avviene il riparto penalizza sistematicamente il Mezzogiorno, e la Campania in particolare. Ora, uno potrebbe dire che è comprensibile che vadano più risorse dove ci sono più anziani, i quali hanno bisogno di più medicine e di più cure. Ma la letteratura scientifica ha dimostrato da tempo che l’età è solo uno dei fattori che incide sullo stato di salute di una popolazione, e ha evidenziato come esista una correlazione precisa fra la salute e l’indice di deprivazione sociale, cioè in primo luogo il tasso di reddito e il tasso di istruzione.  Che al Sud sono più bassi che al Nord.

Le basi per mantenere gli attuali criteri di ripartizione del fondo sanitario sono dunque assai discutibili. E lo sarebbero ancora di più, se si considerasse che la salute ha rapporto con le condizioni generali dell’ambiente, che la Campania ha un elevato tasso di mortalità infantile, o che da noi i malati di tumore hanno un tasso di sopravvivenza più basso.

De Luca ha insomma tutte le ragioni per fare la voce grossa, e infatti la fa. C’è però una così scarsa considerazione di quel senso di appartenenza alla medesima comunità nazionale, che le rivendicazioni del governatore campano vengono derubricate a rumore di fondo, oppure classificate come l’abituale lamentela che viene dal solito meridionalismo accattone.

La questione della sanità è però solo una delle molte questioni che si accumulano lungo una medesima linea di faglia, che riguarda il rapporto fra le diverse aree del Paese. Ebbene, siamo ad un passaggio essenziale: di riscrittura della Carta costituzionale. Nella riforma c’è, fra l’altro, il tentativo di ridefinire i termini del rapporto fra lo Stato e le Regioni. Ridisegnando il profilo della Camera alta – dove siederanno i rappresentanti degli organismi regionali – e delimitando le competenze rispettive, statali e regionali. Il giudizio che ciascuno vorrà dare su questa complessa materia può essere ovviamente positivo o negativo, e anche molto positivo o molto negativo. Pure i critici della riforma, però, dovranno ammettere che è difficile far peggio di oggi, a giudicare almeno dalla quantità di conflitti sollevati in materia innanzi alla Corte costituzionale.

Ma non è nemmeno questo il nocciolo del problema, quanto piuttosto il fatto che qualunque riforma è poi affidata a un certo iter attuativo, e alle interpretazioni che delle norme offriranno gli attori politici e istituzionali. Tocca, insomma, alla politica. E bisogna augurarsi che tocchi a una politica nuovamente compresa della sua funzione nazionale, disponibile a ragionare in termini unitari, e a far prevalere i fondamentali elementi di solidarietà da cui dipende la coesione del Paese.

La riforma contiene fra l’altro – ed è un’innovazione di non poco conto – la cosiddetta clausola di supremazia, in forza della quale la legge dello Stato può intervenire anche su materie che sarebbero di competenza delle regioni: si tratta di una riforma – per alcuni di una controriforma – di stampo centralista, e però (o perciò) probabilmente di un buon punto di riforma. Ma anche l’esercizio di questa clausola non riposa su un semplice automatismo, e dipenderà quindi da equilibri politici, da rapporti di forza, da interessi e spinte contrapposte. Nessuno può cioè illudersi che la riforma costituzionale possa surrogare responsabilità che sono sempre e solo legate alla direzione politica della nazione.

Se gli anni della seconda repubblica sono stati dominati da una retorica nordista, leghista, separatista, e da un appello alle identità dei territori in chiave localistica ed egoistica, ciò non è dipeso da uno stallo istituzionale, ma dal collasso di quel sistema di partiti a cui era stata affidata per decenni una essenziale funzione di integrazione sociale e politica. Ora quella funzione di fatto non è più svolta, e diviene quindi fondamentale iniettare nuova legittimazione politica attraverso l’ammodernamento istituzionale. Ma i polli ed i magliari non scompariranno il giorno dopo il referendum: da quel giorno comincerà casomai una nuova partita, con un nuovo campo di gioco e nuove regole. È bene, allora, che cominci ad esistere e a farsi sentire un nuovo meridionalismo in grado, questa volta, di giocare quella partita e, magari, di vincerla.

(Il Mattino, 14 luglio 2016)

Un’Italia piccola e vecchia

Daumier

Non cercate elementi di prova, nelle carte finite sui giornali: al momento, per quel che si può leggere, non ce ne sono. Voglio dire: non ci sono rilievi giudiziari che interessino il ministro dell’Interno Angelino Alfano. E però il ministro è ugualmente sotto pressione. Per colpa del padre, e del fratello. O per meglio dire: per colpa delle intercettazioni in cui si parla del padre e del fratello.

Naturalmente i giornali danno le notizie, e come potrebbero non darle? Ma gli effetti dell’ennesima bufera giudiziaria si propagano così, pure questa volta, a prescindere dalla futura valenza processuale della vicenda. E ancora una volta il solo farlo rilevare suona vergognosamente assolutorio – il che però significa che l’opinione pubblica è naturaliter colpevolista. Ha cioè acquisito, prima e indipendentemente dalle specifiche circostanze che di volta in volta vengono sollevate, che la politica è sempre uguale, sempre la stessa, e figurati se il ministro non c’è dentro fino al collo.

Vi sono due osservazioni da fare, al riguardo, ed è bene che il lettore vi rifletta sopra, anche se non è disponibile a mettere in dubbio le sue convinzioni. La prima: se questo Paese è corrotto, e lo è da vent’anni, da trent’anni, da sempre, non si può dire che i polveroni suscitati dagli scandali e la furente indignazione abbiano finora dato una mano effettiva a migliorare la qualità dell’azione pubblica. Diciamo anzi che non sono serviti affatto. Il politico di turno finisce sulla graticola e a volte si dimette. Si  dimette Mastella e cade il governo Prodi; si dimette Errani e cade il governo della Regione Emilia Romagna; si dimettono, più di recente, i ministri Yosefa Idem e Maurizio Lupi, ma queste dinamiche non incidono né poco né punto sul contenimento delle pratiche corruttive (oltre a non avere spesso alcun rilievo penale). Hanno  però enormi conseguenze politiche, possono determinare il destino politico della legislatura e del Paese, e soprattutto non aspettano le pronunce dei tribunali per effettuarsi. Anzi, l’opinione pubblica si disinteressa completamente di come le cose vanno a finire, tanto quello che si voleva sapere ormai lo si sa già: che Tizio raccomandava Caio o tramava per arrivare a Sempronio. Orbene, da questa cantilena ripetuta fino alla noia si dovrebbe trarre con franchezza la conclusione che, se è la politica che deve cambiare, per questa via mediatico-giudiziaria (in realtà poco giudiziaria e molto più mediatica) ad oggi non la si è cambiata affatto. Certo, si può aggiungere che non è colpa dei magistrati, che fanno il loro dovere e conducono le inchieste, e non è colpa nemmeno dei giornalisti, che fanno il loro dovere e pubblicano le notizie, ma sta il fatto che sempre le stesse cose tornano, come diceva Aristotele, o ciclicamente o in altro modo. Tornano, e consumano quel poco di sentimento civile che dovrebbe sostenere una riforma del costume politico e sociale del Paese. Una riforma morale e intellettuale, ancor prima che una riforma legislativa.

Perché questa è la seconda considerazione che non si può non fare, a leggere di amicizie e personaggi, di mondi di mezzo e dèmi-monde, di faccendieri affaccendati e imprenditori prenditori. Chi sono le persone di cui la politica a volte si circonda, quali legami stringono e quale tipo di fedeltà nutrono? Chi si muove nel sottobosco del potere, nelle anticamere, nei corridoi, nei labirinti dei palazzi romani? Chi sono i portatori di interesse che si incontrano a cena, chi sono gli intermediari, i maneggioni, i traffichini? Chi sono i commercialisti di fiducia? Chi sono gli ineffabili fratelli Pizza, cresciuti nella pancia della vecchia balena democristiana i quali, da quando è morta, si preoccupano solo di ricavarne del grasso? Possibile che dobbiamo ogni volta tornare indietro di centocinquant’anni e rievocare l’inflessibile Destra storica per trovare l’esempio di una classe politica (e dei suoi dintorni) davvero integerrima, e soprattutto compresa del suo ruolo e della sua funzione? Possibile che i politici non abbiano più idea di quali frequentazioni avere, dei salotti nei quali sedere, delle opinioni e delle idee con le quali confrontarsi? Perché è vero: la corruzione c’è da che il mondo dura, ma è il resto che non c’è più, in quel mondo, o c’è molto meno. Non c’è un impasto autentico, fatto di ideali, di cultura, di decoro, di rispetto anzitutto di sé oltre che delle istituzioni e dello Stato. Un impasto fatto di ambizione, anche, e di amore per il potere, ma che almeno alberghi in uomini di più grande formato, che sappiano usarlo non solo per pacchiani arricchimenti privati e altre indecenze personali, ma per difendere la propria idea del Paese, della politica e del futuro. Prima ancora che di moralità e di legalità, questi uomini, questi Giuseppe e Lino Pizza e gli altri che gli ruotano intorno, sembrano mancare di qualsiasi aspirazione a ciò che è più grande di loro.

E purtroppo, così facendo, fanno sempre più piccola anche l’Italia.

(Il Mattino, 7 luglio 2016)

Matteo e l’impresa dell’aria nuova

Aria di Parigi

Fermarsi e riflettere, come chiede Ganni Cuperlo, o andare avanti? Nella Direzione di ieri, Matteo Renzi non ha mostrato di avere molti dubbi: andare avanti. Andare fino in fondo. E pazienza se Cuperlo e la minoranza del Pd mettono il muso, e pensano che in questo modo il segretario condurrà la sinistra italiana verso una sconfitta storica. Cosa del resto vorrebbe dire fermarsi? Si sono sentite tre cose. In primo luogo, fermarsi significa rinunciare al doppio incarico, e quindi andare al congresso del partito democratico con un ticket, cioè con due nomi: uno per il governo e l’altro per il partito. Come se le cose avessero mai funzionato, al tempo in cui Prodi era al governo e una volta D’Alema e l’altra Veltroni, dal partito, già gli preparavano il funerale. In secondo luogo, fermarsi vuol dire accogliere la proposta della minoranza di lasciare tutti liberi di aderire ai comitati del sì oppure del no al referendum costituzionale del prossimo autunno. Come se il partito non dovesse avere una linea riconoscibile, condivisa, unitaria, e non avesse anche un minimo dovere di coerenza – anzi di intellegibilità – rispetto al percorso di riforme avviato. Chi capirebbe un partito che ha metà della sua classe dirigente per il sì, e l’altra metà per il no, sulla questione centrale su cui – c’è poco da girarci intorno – può cadere non solo il governo ma l’intera legislatura? Ma la minoranza, imperterrita, ieri chiedeva «piena cittadinanza» per chi voterà no (e farà pure campagna). In terzo e ultimo luogo, la legge elettorale. Su questo, la minoranza batte da tempo, ma ieri anche Franceschini – cioè uno degli azionisti di riferimento della maggioranza del partito – si è schierato apertamente per la modifica dell’Italicum e l’introduzione del premio di coalizione in luogo del premio alla lista. Il ragionamento svolto dal ministro della Cultura è stato il seguente: dobbiamo battere i populismi che da Trump in America a Nigel Farage nel Regno Unito rappresentano la sfida principale. Battere i populismi significa includere, ampliare lo schieramento delle forze che sostengono il peso del governo. Ora, il premio di coalizione serve proprio a questo, e consente di allargarsi sia a sinistra che al centro. Inoltre, serve alla destra per ricompattarsi un po’, per mettere insieme pezzi che altrimenti non riuscirebbero a sommarsi.

Pure questa riflessione si infrange in realtà contro un «come se» grosso come una casa. Franceschini parlava infatti come se le coalizioni avessero finora dimostrato di reggerlo davvero, il peso del governo, e non fossero invece sistematicamente finite in pezzi. E questo sia a sinistra che a destra, essendo state vittime di coalizioni confuse e litigiose tanto Prodi quanto Berlusconi.

Insomma, le proposte ascoltate ieri sono state da Renzi rispedite al mittente. Oppure ai loro luoghi propri. Volete un partito diverso? Proponete modifiche statutarie. Volete un altro segretario? C’è il congresso che lo elegge. Ma lui, Renzi, fintanto che manterrà la leadership, andrà avanti lungo la linea tracciata. Personalizzazione o non personalizzazione. Populismo o non populismo.

Piani B, del resto, non ce ne sono. La legge elettorale e riforma costituzionale non formeranno un combinato disposto, in termini strettamente giuridici, ma politicamente parlando sono ben legate l’una all’altra, in una sfida complessiva da cui dipende, per il segretario del Pd, la possibilità di uscire finalmente dal pantano di questi anni.

Renzi, per il resto, ha messo in chiaro di non essere affatto rimasto impressionato dal voto di giugno, che ha preferito leggere in chiave prevalentemente locale. In verità, tutti gli interpreti delle diverse anime del partito hanno finito col legare insieme voto amministrativo e Brexit, col risultato che la misura del confronto è divenuta da un lato quella generale, di come evitare di finire nel mirino dei vari populismi che rinfocolano in tutto il braciere europeo e si manifestano nelle urne italiane, come in quelle britanniche, o austriache, o spagnole. Dall’altro lato, quello particolare della lotta interna al partito e delle strategie di logoramento tentate per sbalzare dal sellino il premier. Su questo secondo versante, Renzi non ha ovviamente fatto la minima concessione, e anzi in replica ci è andato giù duro contro l’accusa di vivere dentro un talent show (o – che è lo stesso – di essersi chiuso nel proprio giglio magico), rivendicando con forza la propria attività di governo. Sul primo versante, invece, si è messo a ragionare: di questione sociale e periferie con Matteo Orfini Piero Fassino e Maurizio Martina; di sicurezza con Vincenzo De Luca, di scuola e investimenti con Graziano Del Rio e Anna Ascani. Sembravano discussioni vere, e forse lo erano. Ma nessuna di queste questioni porta con sé un referendum, sicché per Renzi la vera scommessa rimane quella di riuscire a spiegare ai cittadini che la ricostruzione del sistema istituzionale, affidata al voto di ottobre, non è una questione interna ai gruppi dirigenti del Paese, alla «casta», ma anzi il modo per far circolare aria nuova nelle stanze della politica italiana.

(Il Mattino, 5 luglio 2016)

 

Italicum, perché Renzi non lo cambierà

omini-pentola-1Dopo le elezioni amministrative, il quadro politico si è rimesso in movimento. La partita del referendum costituzionale rimane la partita decisiva: se passa il sì, non si chiude solo la transizione istituzionale che si trascina confusamente dal dopo ’89, ma si spegne anche la forte fibrillazione innescata dalla prova non brillante del Pd alle scorse elezioni, e il clamoroso successo dei Cinquestelle a Roma e a Torino.

Ma al referendum bisogna arrivarci. E da qui ad ottobre l’ostacolo messo davanti alla maggioranza di governo e a Renzi si chiama Italicum. La legge elettorale, appena entrata in vigore, è già sotto tiro. In particolare, è il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione la pietra di inciampo. Renzi non ha interesse a cambiarla: premio alla lista significa infatti governabilità, senza più concessioni ai piccoli partiti. Quando fu approvata la legge, significava anche premio al Pd. Dopo i risultati di giugno, non è più così scontato che il Pd possa beneficiare del premio di lista, ma resta del tutto comprensibile che Renzi invece confidi di portarlo a casa, vincendo prima il referendum è andando poi al voto nel 2018. Questa era il disegno originario, e questo rimane.

Ma una voce sussurra all’orecchio del premier che le cose potrebbero non andare così bene. Che il referendum potrebbe essere perso e che i Cinquestelle potrebbero diventare il primo partito. L’Italicum servirebbe così su un piatto d’argento, a Beppe Grillo e ai suoi «cittadini», il governo del Paese. Se invece il premio andasse alla coalizione e non alla lista – continua la vocina – il Movimento avrebbe molte meno chance, non essendo in alcun modo intenzionato a stringere accordi con altri partiti. Il ragionamento è semplice e insinuante: la bassa capacità coalizionale dei grillini viene punito da una legge che favorisce invece le coalizioni, perché dunque non ritoccare la legge?

A fare questi ragionamenti sono in molti, in particolare nell’area di centro, dove prosperano le piccole formazioni. Messe alle strette dalla soglia di sbarramento (che pure è molto bassa, al tre per cento), e poco attratte dalla prospettiva di confluire in un’unica lista. Questa era del resto la ragione per cui inizialmente l’Italicum godeva del sostegno di Berlusconi: perché favoriva il ricompattamento e il ritorno all’ovile dei molti pezzi staccatisi da Forza Italia nel corso del tempo. Senza il Cavaliere nel ruolo di playmaker del centrodestra, la linea si è fatta molto più incerta. Senza dire che il solo provare a rimettere mano all’Italicum e a riaprire la partita delle riforme di sistema equivarrebbe comunque a una mezza sconfitta di Renzi.

Nel Pd la minoranza è su una posizione analoga. L’imperativo è infatti mettere Renzi sotto scacco, e cambiare la legge significa anzitutto dimostrare che Il premier non è più il dominus della situazione. Per il resto, il motivo per cui con il premio di coalizione si innalza l’argine opposto ai Cinquestelle è poco coerente con le posizioni aperturiste nei confronti del voto grillino da non demonizzare. Ma è una posizione che, viceversa, si sposa molto bene con il progetto di mantenere un soggetto politico autonomo alla sinistra del Pd come sua spina nel fianco.

All’opposto i Cinquestelle. All’Italicum hanno detto no, in passato, in tutti luoghi e in tutti i modi. Ma l’Italicum gli conviene, e così da qualche giorno fioccano, a dispetto della coerenza, le dichiarazioni contrarie alla revisione della legge. Lo scenario che i pentastellati immaginano è uguale e contrario a quello su cui punta Renzi: se il referendum non passa, Renzi va a casa, e con il premio di lista Di Maio va a Palazzo Chigi.

Le pedine sono dunque tutte sul tavolo, e di qui a ottobre continueranno a muoversi, provando magari a tirar dentro la trattativa altri punti discussi della legge, dalle preferenze ai capilista bloccati al doppio turno: una volta infatti che fosse acclarato che l’Italicum è modificabile, le richieste di modifica è presumibile che si moltiplicherebbero. La materia elettorale, come quella costituzionale, è la più opinabile al mondo, e offre ogni tipo di soluzione, ogni sorta – come si dice – di combinato disposto. Quel che le dà forma e stabilità è la volontà politica. Scoperchiando il vaso di Pandora delle modifiche all’Italicum, anziché costruire in maniera previdente un piano B, per l’ipotesi di un esito infausto al referendum, Renzi rischia di vestire i panni dell’incauto Epimeteo, quello che ragiona col senno di poi, e chiude la stalla quando i buoi sono scappati.

Ma è probabile che gli basti sollevare solo un poco il coperchio, sentire tutte le voci che si agitano sul fondo non limpidissimo della politica italiana, e subito richiuderlo, ritornando al piano principale, col quale sta o cade la sua vera scommessa politica.

(Il Mattino, 1 luglio 2016)

Se la caduta di Corbyn spegne la fiammata ideologica a sinistra

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Il voto largamente maggioritario con il quale i parlamentari laburisti inglesi hanno espresso la sfiducia verso il loro leader, Jeremy Corbyn, ha forse un significato che va oltre la crisi profondissima del Labour, e investe l’orizzonte stesso del socialismo europeo. Corbyn ha già detto che non lascerà: nonostante i 176 voti a lui sfavorevoli (contro 44 a favore), nonostante le dimissioni in massa dal governo ombra, nonostante l’opinione pubblica progressista lo accusi di aver condotto una compagna molto blanda a favore del “Remain”. Sostiene di avere ancora dalla sua la base e i sindacati, e non c’è norma nel partito che lo possa costringere a dimettersi. Ma, anche così, la rappresentazione che il Labour offre, di un partito spaccato fra militanti ed eletti, è di per sé la più inequivocabile immagine di un fallimento strategico.

Dopo gli anni di Blair, il Labour ha virato a sinistra, prima con Ed Miliband poi, ancor più nettamente, con Jeremy Corbyn. Questa svolta è stata da taluni giudicata necessaria, per ritrovare l’anima di un partito svenduta da Tony Blair con la guerra in Iraq, da altri invece giudicata puramente difensiva, nostalgicamente ripiegata su posizioni da vecchio Labour. Per i primi, è finalmente la riscoperta del tema dell’ineguaglianza, smarrito a sinistra dietro le false luci dell’opportunità e del merito individuale; per gli altri, si tratta in realtà della solita ricetta statalista, ormai improponibile nell’epoca della globalizzazione dei mercati. Di sicuro, pezzi del programma di Corbyn – come la rinazionalizzazione delle ferrovie – avrebbero trovato in Bruxelles un fortissimo ostacolo, e questo spiega la tiepidezza, la riluttanza e l’ambiguità in cui Corbyn si è mantenuto durante tutta la campagna elettorale. Incertezza e indecisione in politica non pagano, e ora Corbyn rischia di perdere la leadership del partito.

Ma il punto di crisi è più generale, e davvero strategico. E tocca i laburisti inglesi quanto i socialisti francesi o quelli spagnoli: si può immaginare una politica di sinistra dentro la cornice dell’Unione? O, in alternativa, si deve piuttosto accompagnare, o addirittura favorire un processo destituente, di controllato smantellamento dell’architettura europea, per cercare nella dimensione nazionale, sovranista,, la risposta alla crisi sociale? In una prospettiva storica, sembra di essere ritornati a cent’anni fa (senza che per fortuna spirino venti di guerra). Ma il nodo è in certo modo lo stesso. Cent’anni fa, ad una fase di crescente espansione globale dei commerci seguì una violenta fiammata nazionalista, e anche allora i partiti socialisti non ressero la prova: rinunciarono alla dimensione internazionalista e misero innanzi la causa nazionale. E si divisero, aprendo la strada a un lungo ciclo di sconfitte, che in fondo verrà interrotto solo dopo la seconda guerra mondiale, con la ricostruzione e il sogno democratico e federalista dell’unità europea.

Oggi, di nuovo, il socialismo europeo è di fronte a un bivio. In realtà, sembrava fino a non molti mesi fa che avesse già imboccato una strada precisa: le ripetute sconfitte della socialdemocrazia tedesca, il declino di Hollande da una parte, e dall’altra la vittoria di Podemos in Spagna e di Siryza in Grecia, i nuovi astri di Corbyn e di Sanders, sembravano andare tutti nella stessa direzione, di un profondo ripensamento ideologico, programmatico e perfino organizzativo.  Tutto sembrava muoversi velocemente: fuori però della difesa cocciuta della cittadella europea, e chi rimaneva dentro appariva vanamente aggrappato ad una nave ormai colata a picco. Ma ora il vento ha cambiato un’altra volta direzione: Sanders perde, Podemos perde, Corbyn viene vigorosamente contestato, e la via alternativa che doveva finalmente cambiare le sorti del vecchio socialismo europeo si sta esaurendo. All’improvviso, si trova iscritta sotto le parole nobili ma assai poco promettenti di Samuel Beckett: fallisci un’altra volta, fallisci ancora, fallisci meglio.

Nel Regno Unito un’alternativa forse c’è, e ha il nome del neo-sindaco di Londra, Sadiq Kahn. Così almeno la pensa Anthony Giddens, che però non è quel che si dice un osservatore imparziale, essendo stato l’intellettuale più vicino a Tony Blair. Ma, al di là dei nomi, resta per i socialisti un nodo da sciogliere: lo spazio europeo è davvero impraticabile per una politica progressista, di crescita e di inclusione sociale? Nel conto non si può non mettere un dato di realtà: la forbice della diseguaglianza si è parecchio allargata, e l’Unione è oggi un posto dove c’è molta meno mobilità sociale che non trenta o quaranta anni fa. Se fallisce oggi la sinistra più radicaleggiante, non si può dire dunque che quella blairista degli anni Novanta sia andata molto meglio.

Però governava. Ed è infatti quella la pietra d’inciampo: la prova delle responsabilità di governo. Lasciamo per una volta il partito democratico e Matteo Renzi fuori dal quadro, e torniamo alla crisi del Labour: Corbyn non è in fondo incappato nella contraddizione di voler ricostruire una sinistra pura e senza compromessi da una parte, pur senza voler assumere  del tutto il profilo di una forza populista, antisistema? È così anche la sua idea di Europa non è viziata da una insanabile forma di dissociazione, fra storia e attualità, interessi e idealità: lontana dalle istanze che il Labour vuole rappresentare, essendo però stata, storicamente, l’unico luogo in cui quelle istanze si sono gradualmente realizzate? La conseguenza è che se non può essere un europeista, dopo il referendum, a guidare i conservatori, non può essere europeista nemmeno il leader dei laburisti. Finché almeno si tratta del molle e impacciato, e quasi vergognoso di sé, europeismo di Jeremy Corbyn.

(Il Mattino, 29 giugno 2016)