Non cercate elementi di prova, nelle carte finite sui giornali: al momento, per quel che si può leggere, non ce ne sono. Voglio dire: non ci sono rilievi giudiziari che interessino il ministro dell’Interno Angelino Alfano. E però il ministro è ugualmente sotto pressione. Per colpa del padre, e del fratello. O per meglio dire: per colpa delle intercettazioni in cui si parla del padre e del fratello.
Naturalmente i giornali danno le notizie, e come potrebbero non darle? Ma gli effetti dell’ennesima bufera giudiziaria si propagano così, pure questa volta, a prescindere dalla futura valenza processuale della vicenda. E ancora una volta il solo farlo rilevare suona vergognosamente assolutorio – il che però significa che l’opinione pubblica è naturaliter colpevolista. Ha cioè acquisito, prima e indipendentemente dalle specifiche circostanze che di volta in volta vengono sollevate, che la politica è sempre uguale, sempre la stessa, e figurati se il ministro non c’è dentro fino al collo.
Vi sono due osservazioni da fare, al riguardo, ed è bene che il lettore vi rifletta sopra, anche se non è disponibile a mettere in dubbio le sue convinzioni. La prima: se questo Paese è corrotto, e lo è da vent’anni, da trent’anni, da sempre, non si può dire che i polveroni suscitati dagli scandali e la furente indignazione abbiano finora dato una mano effettiva a migliorare la qualità dell’azione pubblica. Diciamo anzi che non sono serviti affatto. Il politico di turno finisce sulla graticola e a volte si dimette. Si dimette Mastella e cade il governo Prodi; si dimette Errani e cade il governo della Regione Emilia Romagna; si dimettono, più di recente, i ministri Yosefa Idem e Maurizio Lupi, ma queste dinamiche non incidono né poco né punto sul contenimento delle pratiche corruttive (oltre a non avere spesso alcun rilievo penale). Hanno però enormi conseguenze politiche, possono determinare il destino politico della legislatura e del Paese, e soprattutto non aspettano le pronunce dei tribunali per effettuarsi. Anzi, l’opinione pubblica si disinteressa completamente di come le cose vanno a finire, tanto quello che si voleva sapere ormai lo si sa già: che Tizio raccomandava Caio o tramava per arrivare a Sempronio. Orbene, da questa cantilena ripetuta fino alla noia si dovrebbe trarre con franchezza la conclusione che, se è la politica che deve cambiare, per questa via mediatico-giudiziaria (in realtà poco giudiziaria e molto più mediatica) ad oggi non la si è cambiata affatto. Certo, si può aggiungere che non è colpa dei magistrati, che fanno il loro dovere e conducono le inchieste, e non è colpa nemmeno dei giornalisti, che fanno il loro dovere e pubblicano le notizie, ma sta il fatto che sempre le stesse cose tornano, come diceva Aristotele, o ciclicamente o in altro modo. Tornano, e consumano quel poco di sentimento civile che dovrebbe sostenere una riforma del costume politico e sociale del Paese. Una riforma morale e intellettuale, ancor prima che una riforma legislativa.
Perché questa è la seconda considerazione che non si può non fare, a leggere di amicizie e personaggi, di mondi di mezzo e dèmi-monde, di faccendieri affaccendati e imprenditori prenditori. Chi sono le persone di cui la politica a volte si circonda, quali legami stringono e quale tipo di fedeltà nutrono? Chi si muove nel sottobosco del potere, nelle anticamere, nei corridoi, nei labirinti dei palazzi romani? Chi sono i portatori di interesse che si incontrano a cena, chi sono gli intermediari, i maneggioni, i traffichini? Chi sono i commercialisti di fiducia? Chi sono gli ineffabili fratelli Pizza, cresciuti nella pancia della vecchia balena democristiana i quali, da quando è morta, si preoccupano solo di ricavarne del grasso? Possibile che dobbiamo ogni volta tornare indietro di centocinquant’anni e rievocare l’inflessibile Destra storica per trovare l’esempio di una classe politica (e dei suoi dintorni) davvero integerrima, e soprattutto compresa del suo ruolo e della sua funzione? Possibile che i politici non abbiano più idea di quali frequentazioni avere, dei salotti nei quali sedere, delle opinioni e delle idee con le quali confrontarsi? Perché è vero: la corruzione c’è da che il mondo dura, ma è il resto che non c’è più, in quel mondo, o c’è molto meno. Non c’è un impasto autentico, fatto di ideali, di cultura, di decoro, di rispetto anzitutto di sé oltre che delle istituzioni e dello Stato. Un impasto fatto di ambizione, anche, e di amore per il potere, ma che almeno alberghi in uomini di più grande formato, che sappiano usarlo non solo per pacchiani arricchimenti privati e altre indecenze personali, ma per difendere la propria idea del Paese, della politica e del futuro. Prima ancora che di moralità e di legalità, questi uomini, questi Giuseppe e Lino Pizza e gli altri che gli ruotano intorno, sembrano mancare di qualsiasi aspirazione a ciò che è più grande di loro.
E purtroppo, così facendo, fanno sempre più piccola anche l’Italia.
(Il Mattino, 7 luglio 2016)