Archivi del giorno: luglio 15, 2016

La lotta di potere a porte chiuse dei Cinquestelle

ImmagineNo, non c’entrano i topi, i cassonetti pieni di rifiuti, le baracche lungo il Tevere o uno qualunque dei mille problemi della città. Virginia Raggi è sindaco di Roma da troppi pochi giorni perché le si possa già buttare addosso la responsabilità per i mali che affliggono la Capitale. Ma i giorni che ha impiegato per completare la sua giunta, pochi o molti che siano, sono stati sufficienti a Roberta Lombardi per lasciare il direttorio capitolino, lo «staff stellare» che s’era deciso avrebbe affiancato la Raggi per governare al meglio la città.

Naturalmente la Lombardi smentisce litigi, diverbi o dissapori. Ha un sacco da fare, sta preparando la festa nazionale del Movimento che si terrà a Palermo a settembre, e quindi il suo supporto non potrà che venire «dall’esterno». I giornalisti: sono loro che si inventano «liti, gelo o siluramenti»: secondo la Lombardi tutti vanno d’amore e d’accordo, tutti danno una mano generosa a Virginia.

Ora, si potrebbe dire: dateci almeno uno straccio di diretta, fateci vedere le riunioni del direttorio e i baci e gli abbracci che si scambiano i cinque membri fra di loro, così evitiamo di leggere i perfidi retroscena della carta stampata, ostile e prevenuta contro i grillini. Ma purtroppo la mistica della trasparenza è in ribasso: nessun incontro avviene in favore di telecamere, Grillo va dalla Raggi, si intrattiene due ore e nulla trapela; da Casaleggio a Milano gli amministratori locali si riuniscono a porte chiuse, tutti si incontrano riservatamente e nessuno spiega che fine abbia fatto il caro vecchio streaming al quale, ai loro esordi in Parlamento, volevano inchiodare i maneggi e le sordide trame delle forze politiche tradizionali.

In realtà, non c’è nulla di sorprendente in quello che accade all’ombra del Campidoglio, e se anche è difficile mettere a fuoco i particolari, è chiaro che le dinamiche innescate dalla vittoria della Raggi mettono i Cinquestelle di fronte a un’evidenza lampante, ma ufficialmente e ostinatamente negata, alla quale si accostano dunque impreparati: che cioè l’esercizio della responsabilità politica è un esercizio di potere. Né più, né meno. E ciò è vero persino nel Movimento Cinquestelle, lo vogliano o no i cittadini-portavoce: c’è chi ha potere e chi no. Chi è eletto e chi no. Chi guida il Movimento e chi no. Chi fa le nomine e chi cerca di condizionarle. La legittimazione democratica non elimina affatto queste distinzioni, e non le elimina neppure l’interpretazione grillina della democrazia. È il caso infatti di aggiungere che nulla di quello che sta avvenendo a Roma avviene, ovviamente, via web. Sulla Rete si trova piuttosto il gelido comunicato ufficiale della Lombardi, o le parole brezneviane del premier in pectore Luigi Di Maio. Ecco: non ci fossero i giornali con le loro maldicenze, di tensioni interne al Movimento nessuno parlerebbe (come non se ne parla sul blog di Grillo, che nulla dice), e la Lombardi scomparirebbe dalle foto del direttorio romano con un semplice photoshop, come una volta si sbianchettavano le immagini del Politburo, eliminando le figure cadute in disgrazia.

Di qui alla fine del mandato di Virginia Raggi con ogni probabilità ne vedremo molte altre, di vicende simili: di dimissioni, espulsioni, cambi di casacca. Manca però ai grillini la possibilità di rappresentare questi sommovimenti così come li si rappresentava una volta: come uno scontro fra linee diverse, o fra interessi diversi, o fra correnti diverse. Per definizione, infatti, nessuna diversità può albergare nel Movimento, che sta sempre dalla parte dei cittadini, che è anzi formato dai cittadini medesimi e che dunque non può mai tradirne le ragioni (salvo cacciare i traditori). Né si vede come sia possibile, allo stato, che si formi una dialettica interna ai Cinquestelle. Una dialettica, beninteso, che sia riconosciuta come tale, e che possa liberamente articolarsi senza subire gli anatemi di Grillo, o i richiami all’ordine di Casaleggio.

La costituzione di un direttorio che, nelle alate parole primaverili dell’allora candidata Raggi doveva fare la differenza e mettere il sindaco «nelle condizioni di superare le difficoltà gestionali e burocratiche a cui la mala politica ci ha sottoposto per decenni» era in realtà un tentativo di commissariarla ante factum. Per ora sembra che la Raggi, sostenuta da Grillo e da Di Maio, pur cedendo nei giorni scorsi sulla nomina del capo di Gabinetto, abbia però ottenuto qualche margine di autonomia in più, scrollandosi di dosso l’ingombrante cupola: al posto tanto ambito non è così andato la sua prima scelta, Daniele Frongia – nominato in compenso vice-sindaco – ma nemmeno il nome sponsorizzato dalla odiata Lombardi, il magistrato Daniela Morgante. È toccato così a Carla Ranieri, e la Lombardi ha lasciato il direttorio.

Ebbene, come si dovrebbero raccontare queste storie, se non in termini di una lotta senza esclusioni di colpi per il governo della città? Ma siccome la politica pentastellata è ufficialmente un’altra cosa, si chiamerà in un’altra maniera. Purtroppo però non è solo una questione di parole, ma di capacità politica, prima ancora che amministrativa. Non di competenze o professionalità, ma di direzione e leadership. E alla fine, al netto di tutte le parole, è su questo che anche i grillini e Virginia Raggi saranno giudicati.

(Il Mattino, 15 luglio 2016)

Sì alla riforma contro i furti al Sud

home_polloLa regione più giovane d’Italia, la Campania, perde 200 milioni di euro l’anno perché nella ripartizione dei fondi per la sanità si tiene conto solo dell’età: lo ha ricordato ieri il governatore De Luca, e ha ricordato una cosa vera. Il proverbio dice: a buon intenditor poche parole, ma per De Luca, evidentemente, in giro di buoni intenditori non ce ne sono, e perciò l’ha messa giù così: noi del Sud siamo polli e quelli del Nord sono magliari.

Il dato però è già abbastanza vistoso di per sé, perché i termini coloriti possano aggiungere qualcosa: è un fatto che la maniera in cui avviene il riparto penalizza sistematicamente il Mezzogiorno, e la Campania in particolare. Ora, uno potrebbe dire che è comprensibile che vadano più risorse dove ci sono più anziani, i quali hanno bisogno di più medicine e di più cure. Ma la letteratura scientifica ha dimostrato da tempo che l’età è solo uno dei fattori che incide sullo stato di salute di una popolazione, e ha evidenziato come esista una correlazione precisa fra la salute e l’indice di deprivazione sociale, cioè in primo luogo il tasso di reddito e il tasso di istruzione.  Che al Sud sono più bassi che al Nord.

Le basi per mantenere gli attuali criteri di ripartizione del fondo sanitario sono dunque assai discutibili. E lo sarebbero ancora di più, se si considerasse che la salute ha rapporto con le condizioni generali dell’ambiente, che la Campania ha un elevato tasso di mortalità infantile, o che da noi i malati di tumore hanno un tasso di sopravvivenza più basso.

De Luca ha insomma tutte le ragioni per fare la voce grossa, e infatti la fa. C’è però una così scarsa considerazione di quel senso di appartenenza alla medesima comunità nazionale, che le rivendicazioni del governatore campano vengono derubricate a rumore di fondo, oppure classificate come l’abituale lamentela che viene dal solito meridionalismo accattone.

La questione della sanità è però solo una delle molte questioni che si accumulano lungo una medesima linea di faglia, che riguarda il rapporto fra le diverse aree del Paese. Ebbene, siamo ad un passaggio essenziale: di riscrittura della Carta costituzionale. Nella riforma c’è, fra l’altro, il tentativo di ridefinire i termini del rapporto fra lo Stato e le Regioni. Ridisegnando il profilo della Camera alta – dove siederanno i rappresentanti degli organismi regionali – e delimitando le competenze rispettive, statali e regionali. Il giudizio che ciascuno vorrà dare su questa complessa materia può essere ovviamente positivo o negativo, e anche molto positivo o molto negativo. Pure i critici della riforma, però, dovranno ammettere che è difficile far peggio di oggi, a giudicare almeno dalla quantità di conflitti sollevati in materia innanzi alla Corte costituzionale.

Ma non è nemmeno questo il nocciolo del problema, quanto piuttosto il fatto che qualunque riforma è poi affidata a un certo iter attuativo, e alle interpretazioni che delle norme offriranno gli attori politici e istituzionali. Tocca, insomma, alla politica. E bisogna augurarsi che tocchi a una politica nuovamente compresa della sua funzione nazionale, disponibile a ragionare in termini unitari, e a far prevalere i fondamentali elementi di solidarietà da cui dipende la coesione del Paese.

La riforma contiene fra l’altro – ed è un’innovazione di non poco conto – la cosiddetta clausola di supremazia, in forza della quale la legge dello Stato può intervenire anche su materie che sarebbero di competenza delle regioni: si tratta di una riforma – per alcuni di una controriforma – di stampo centralista, e però (o perciò) probabilmente di un buon punto di riforma. Ma anche l’esercizio di questa clausola non riposa su un semplice automatismo, e dipenderà quindi da equilibri politici, da rapporti di forza, da interessi e spinte contrapposte. Nessuno può cioè illudersi che la riforma costituzionale possa surrogare responsabilità che sono sempre e solo legate alla direzione politica della nazione.

Se gli anni della seconda repubblica sono stati dominati da una retorica nordista, leghista, separatista, e da un appello alle identità dei territori in chiave localistica ed egoistica, ciò non è dipeso da uno stallo istituzionale, ma dal collasso di quel sistema di partiti a cui era stata affidata per decenni una essenziale funzione di integrazione sociale e politica. Ora quella funzione di fatto non è più svolta, e diviene quindi fondamentale iniettare nuova legittimazione politica attraverso l’ammodernamento istituzionale. Ma i polli ed i magliari non scompariranno il giorno dopo il referendum: da quel giorno comincerà casomai una nuova partita, con un nuovo campo di gioco e nuove regole. È bene, allora, che cominci ad esistere e a farsi sentire un nuovo meridionalismo in grado, questa volta, di giocare quella partita e, magari, di vincerla.

(Il Mattino, 14 luglio 2016)