Sì alla riforma contro i furti al Sud

home_polloLa regione più giovane d’Italia, la Campania, perde 200 milioni di euro l’anno perché nella ripartizione dei fondi per la sanità si tiene conto solo dell’età: lo ha ricordato ieri il governatore De Luca, e ha ricordato una cosa vera. Il proverbio dice: a buon intenditor poche parole, ma per De Luca, evidentemente, in giro di buoni intenditori non ce ne sono, e perciò l’ha messa giù così: noi del Sud siamo polli e quelli del Nord sono magliari.

Il dato però è già abbastanza vistoso di per sé, perché i termini coloriti possano aggiungere qualcosa: è un fatto che la maniera in cui avviene il riparto penalizza sistematicamente il Mezzogiorno, e la Campania in particolare. Ora, uno potrebbe dire che è comprensibile che vadano più risorse dove ci sono più anziani, i quali hanno bisogno di più medicine e di più cure. Ma la letteratura scientifica ha dimostrato da tempo che l’età è solo uno dei fattori che incide sullo stato di salute di una popolazione, e ha evidenziato come esista una correlazione precisa fra la salute e l’indice di deprivazione sociale, cioè in primo luogo il tasso di reddito e il tasso di istruzione.  Che al Sud sono più bassi che al Nord.

Le basi per mantenere gli attuali criteri di ripartizione del fondo sanitario sono dunque assai discutibili. E lo sarebbero ancora di più, se si considerasse che la salute ha rapporto con le condizioni generali dell’ambiente, che la Campania ha un elevato tasso di mortalità infantile, o che da noi i malati di tumore hanno un tasso di sopravvivenza più basso.

De Luca ha insomma tutte le ragioni per fare la voce grossa, e infatti la fa. C’è però una così scarsa considerazione di quel senso di appartenenza alla medesima comunità nazionale, che le rivendicazioni del governatore campano vengono derubricate a rumore di fondo, oppure classificate come l’abituale lamentela che viene dal solito meridionalismo accattone.

La questione della sanità è però solo una delle molte questioni che si accumulano lungo una medesima linea di faglia, che riguarda il rapporto fra le diverse aree del Paese. Ebbene, siamo ad un passaggio essenziale: di riscrittura della Carta costituzionale. Nella riforma c’è, fra l’altro, il tentativo di ridefinire i termini del rapporto fra lo Stato e le Regioni. Ridisegnando il profilo della Camera alta – dove siederanno i rappresentanti degli organismi regionali – e delimitando le competenze rispettive, statali e regionali. Il giudizio che ciascuno vorrà dare su questa complessa materia può essere ovviamente positivo o negativo, e anche molto positivo o molto negativo. Pure i critici della riforma, però, dovranno ammettere che è difficile far peggio di oggi, a giudicare almeno dalla quantità di conflitti sollevati in materia innanzi alla Corte costituzionale.

Ma non è nemmeno questo il nocciolo del problema, quanto piuttosto il fatto che qualunque riforma è poi affidata a un certo iter attuativo, e alle interpretazioni che delle norme offriranno gli attori politici e istituzionali. Tocca, insomma, alla politica. E bisogna augurarsi che tocchi a una politica nuovamente compresa della sua funzione nazionale, disponibile a ragionare in termini unitari, e a far prevalere i fondamentali elementi di solidarietà da cui dipende la coesione del Paese.

La riforma contiene fra l’altro – ed è un’innovazione di non poco conto – la cosiddetta clausola di supremazia, in forza della quale la legge dello Stato può intervenire anche su materie che sarebbero di competenza delle regioni: si tratta di una riforma – per alcuni di una controriforma – di stampo centralista, e però (o perciò) probabilmente di un buon punto di riforma. Ma anche l’esercizio di questa clausola non riposa su un semplice automatismo, e dipenderà quindi da equilibri politici, da rapporti di forza, da interessi e spinte contrapposte. Nessuno può cioè illudersi che la riforma costituzionale possa surrogare responsabilità che sono sempre e solo legate alla direzione politica della nazione.

Se gli anni della seconda repubblica sono stati dominati da una retorica nordista, leghista, separatista, e da un appello alle identità dei territori in chiave localistica ed egoistica, ciò non è dipeso da uno stallo istituzionale, ma dal collasso di quel sistema di partiti a cui era stata affidata per decenni una essenziale funzione di integrazione sociale e politica. Ora quella funzione di fatto non è più svolta, e diviene quindi fondamentale iniettare nuova legittimazione politica attraverso l’ammodernamento istituzionale. Ma i polli ed i magliari non scompariranno il giorno dopo il referendum: da quel giorno comincerà casomai una nuova partita, con un nuovo campo di gioco e nuove regole. È bene, allora, che cominci ad esistere e a farsi sentire un nuovo meridionalismo in grado, questa volta, di giocare quella partita e, magari, di vincerla.

(Il Mattino, 14 luglio 2016)

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