Archivi del giorno: luglio 27, 2016

Occidente e Islam sconfitti entrambi dalla Tecnica (int. a E. Severino)

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Chi è il giovane che guida un camion contro la folla, a Nizza, o che sino i due killer che in Normandia, a Saint-Etienne du Rouvray, irrompono all’interno di una chiesa, e tagliano la gola a un parroco, un uomo di 84 anni, Jacques Hamel? Chi è il terrorista? Che cosa lo muove, che cosa lo arma? La conversazione con Emanuele Severino, filosofo, tra i massimi pensatori del nostro tempo, ha preso le mosse da questa domanda, ma anche dal dubbio che dietro le fedi, le ideologie, le psicologie individuali e collettive, vi sia qualcos’altro, e che almeno una parola della filosofia, la parola nichilismo, aiuti a indicarlo. Chi è dunque il terrorista? Chi è il tagliagole, il kamikaze, l’uomo che uccide a sangue freddo, quello che spara indiscriminatamente a giovani, donne, bambini?

«Oggi sta diventando chiaro che il terrorismo include ma non coincide con il terrorismo fondamentalista islamico. Certo, è venuto in chiaro come siano radicalmente sbagliati i motivi che spingono quelli che non si sentono a proprio agio nelle società occidentali a reagire in modo così violento. Il terrorismo islamista è però solo la componente eminente, non l’unica. È vero tuttavia che le diverse forme di disagio trovano una giustificazione, forse persino una santificazione nella causa islamica. Ma ci sono anche casi in cui questo non avviene. Definire il terrorismo come esclusivamente terrorismo islamico fondamentalista è, dunque, improprio. Vi sono altre componenti: anzitutto il disagio, il risentimento degli emarginati. Ma anche la sublimazione di patologie mentali: la sublimazione, dico, nel senso di una giustificazione religiosa, ma anche nel senso dell’esibizione di un coraggio cieco e assoluto di fronte alla morte. Perché questa gente appartiene alla categoria dei candidati al suicidio. Temo anzi che saranno sempre di più, tra quanti pensano al suicidio, quelli che risolveranno il problema motivandolo religiosamente o politicamente o ideologicamente».

Il pensiero corre ai demoni di Födor Dostoevskij. Il rivoluzionario, il teorico, il fanatico, ma anche l’ingegnere disoccupato, il nichilista Kirillov, ossia il suicida, quello che accetta di firmare una falsa confessione, prima di togliersi la vita con un colpo alla testa, per accollarsi la responsabilità di un assassinio. E nel modo in cui si forma, nel grande romanzo russo, la cellula di rivoluzionari che dovrebbe gettare la Russia nel caos con una serie di attentati terroristici, nel modo in cui vi entrano i demoni, divorati da passioni ideologiche e motivazioni personali diverse, non vi è forse qualcosa dei profili così diversi dei terroristi che hanno agito in queste settimane: persone emarginate, ma anche ricchi rampolli della borghesia islamica? Ragazzi con gravi disturbi mentali, ma anche giovani radicalizzatisi in un crescendo di odio e fanatismo? Non avremmo ragione di usare allora come denominatore comune, una parola della filosofia (che peraltro Dostoevskij ben conosceva), la parola nichilismo?

«Se per nichilismo si intende quello che per esempio intendevano i nichilisti russi nell’800, ma anche Friedrich Nietzsche, allora sì, la categoria di nichilismo può essere appropriata. Io credo però che la categoria abbia un significato più profondo».

Qual è allora il più profondo della crisi in gioco? Che cosa dobbiamo vedere, che non vediamo quando ragioniamo sulle modalità di una strage, o anche quando ci interroghiamo intorno alle cause economiche o sociali, politiche o religiose che la ispirano?

«Credo che tutte quelle affermazioni in cui si dice che la crisi attuale non è semplicemente una crisi economica o culturale ma è una crisi molto più profonda, rimangano in realtà alla superficie. Se si va a vedere cosa indicano come il più profondo, si trova che non è tale. Certo è vero: non ci troviamo semplicemente alle soglie di una crisi economica, o culturale, ma ciò di cui propriamente si tratta è quel rovesciamento radicale e inevitabile, in cui la tradizione dell’Occidente è portata al tramonto dai protagonisti autentici della contemporaneità. Bisogna anzi parlarne al singolare: questo protagonista autentico è la Tecnica».

Severino introduce con accortezza al cuore del suo pensiero. È sempre difficile portare lo sguardo dalla superficie delle cose a ciò che avviene al di sotto di essa, e vi è sempre il rischio che questo rivolgimento dello sguardo venga considerato un modo per allontanarsi dalla drammatica attualità del conflitto in corso. Come se non contassero più i morti ammazzati, la terribile contabilità di queste settimane, le immagini concitate che rimbalzano ogni giorno sullo schermo, ma solo potenze astratte e impersonali che, nella loro nitida silhouette concettuale, trascendono però infinitamente le nostre piccole vite umane. In realtà, ciò che suona il più astratto è, per Severino e per la filosofia, il più concreto: chi pensa astrattamente, diceva Hegel, è chi non riesce a vedere la tremenda concretezza delle forze che dominano l’orizzonte del presente.

«Si parla di una terza guerra mondiale. Ne ha parlato il Papa, ma prima del Papa ne ha parlato Friedman [il riferimento è al politologo americano George Friedman, che si è dichiarato pronto a scommettere che il XXI secolo non farà eccezione: come i precedenti, anche il secolo in corso avrà il suo conflitto mondiale]. Se comincia qualcosa come una guerra non possiamo pensare che si dia una risoluzione a breve termine. Ma se ci sono gli elementi per dire che una guerra è possibile, c’è anche la possibilità di indicare l’esito inevitabile di una simile guerra».

Severino resta uno degli ultimi filosofi che mantiene alla parola filosofica il suo carattere originario, di parola vera e incontrovertibile. Mi richiama, dunque, appena provo ad usare la parola «scenario», come si trattasse della prospettazione di un corso possibile di eventi accanto ad altri, e continua:

«Vado da tempo dicendo nei miei scritti che ad uscire vittorioso da questo non breve conflitto non è nessuno dei confliggenti: né l’Occidente democratico-capitalistico, né il mondo islamico, bensì lo strumento di cui l’uno e l’altro sono costretti a servirsi. Questo strumento è la Tecnica».

Appare chiaro allora che per Severino la conflittualità più visibile, che attualmente terrorizza il mondo, non dice il più profondo dello scontro in atto. È una lotta di retroguardia, non la vera anima del conflitto. Più avanti Severino ricorderà come l’Islam, come tutte le forze della tradizione, individui in realtà nella civiltà della tecnica il suo vero nemico. Anche quando parla del Satana americano, l’Islam prende di mira l’America e l’Occidente per via del suo consumismo, del suo allontanamento dalla dimensione religiosa, e infine del suo essere un frutto della civiltà della tecnica. Così è per l’intera civiltà degli ultimi cinque secoli, figlia dell’incontro fra cristianesimo e tecnica e scienza moderna.

«Se si è d’accordo che la Tecnica è lo strumento di cui tutte le forze si servono per prevalere, allora ognuno degli avversari ha uno scopo, per raggiungere il quale gli è necessario il continuo incremento dello strumento di cui si serve. Ognuno dei contendenti deve aumentare all’infinito la potenza. Ma in questo modo l’incremento della potenza, grazie alla tecnica, occupa sempre più spesso l’area dello scopo che la forza in conflitto si propone di realizzare».

Ecco il teorema fondamentale: la Tecnica da mezzo diviene scopo, e così riduce inevitabilmente al silenzio gli scopi per i quali i confliggenti – un tempo gli USA e l’URSS, oggi l’Occidente e l’Islam – sono scesi in campo. È ciò che nel suo libro su «Islam e Prometeo» Severino ha chiamato non «pax americana», ma «pax tecnica», perché l’America, come ogni altra forza storico-politica mondiale – il capitalismo, il nazionalismo, il comunismo, ma anche l’Islam – è ad essa assoggettata.

«La tecnica che in ultimo prevarrà sarà la Tecnica capace di ascoltare quella distruzione assoluta della tradizione, che la grande filosofia ha pensato, quella distruzione radicale Nietzsche chiama per esempio «morte di Dio». Che non è una parola in libertà di un uomo un po’ folle, ma anzi ha una potenza che la cultura contemporanea e la stessa Chiesa non comprendono. La Chiesa vede nel relativismo il suo nemico, e non scorge il sottosuolo filosofico del nostro tempo dove si dimostra l’impossibilità di ogni limite che arresti l’agire dell’uomo».

Questa impossibilità di porre un limite, la parola della filosofia che dice alla tecnica «tu puoi» è, insomma, la più grande volontà di potenza. Nessun contrattacco della tradizione potrà mai prevalere su di essa, secondo Severino. E però, nel salutarlo e nel ringraziarlo per la lunga conversazione, un dubbio mi assale: ma questa fede nell’impossibilità di porre un limite all’agire dell’uomo non è, da ultimo, proprio la stessa che nutre il terrorista che lancia il suo camion sulla folla del lungomare di Nizza, o spinge a tagliare la gola a un anziano curato di provincia?

(Il Mattino, 27 luglio 2016)

Legalizzare

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Caro Direttore,

ho letto con attenzione l’intervento, serio e informato, di Giovanni Serpelloni su questo giornale, sul tema della legalizzazione delle droghe leggere, di cui è avviata in Parlamento la discussione (con probabile rinvio a settembre). Nel modo più conciso possibile, e spero fedelmente, provo a riassumerne i punti principali: la droga fa male; la droga fa male soprattutto in età adolescenziale (e gli adolescenti sono i primi consumatori di droghe leggere); il mercato legale di droga, sotto controllo statale, non potrà mai battere quello illegale, che sarà sempre più competitivo, e potrà tra l’altro affiancare alle droghe legali altre sostanze, dal più alto potere psicotropo; quanto alle organizzazioni criminali, potranno comunque vendere anche ai minorenni, le rivendite legali invece no. Poi ancora: nel considerare costi e interessi economici, non si tiene conto da un lato dei costi sociali dell’uso della droga, prevalentemente a carico del sistema sanitario nazionale, dall’altro degli interessi economici che spingono per la legalizzazione. Infine, la legge in vigore non criminalizza e non è criminogena (a volerla però seriamente applicare), mentre la legalizzazione indebolisce il disvalore sociale connesso al consumo di droghe, e concede una libertà di cui i più deboli e i più fragili pagheranno il prezzo.

Mi prendo ora un po’ di spazio per provare ad argomentare non su ciascuno di questi punti, ma su quelli che a mio parere sono rilevanti ai fini della decisione che il Parlamento dovrà prendere. Non mi soffermo dunque su quanto male le droghe facciano o su quante morti causino: se più o meno dell’abuso di cioccolata, dell’alcool o del tabacco. Non discuto nemmeno il diritto dello Stato di incentivare o disincentivare comportamenti individuali o collettivi: non sono un liberale agnostico, per il quale lo Stato meno fa e meglio è, e dunque capisco bene e anzi apprezzo il fatto che si preoccupi della salute degli adolescenti (come di quella dei conducenti di automobili, a cui prescrive la cintura di sicurezza, o di quella degli operai edili, che obbliga a indossare il casco). Discuto invece dell’efficacia delle condotte sin qui tenute, e trovo sorprendente che un serio dibattito non cominci da questo: dagli effetti delle politiche proibizioniste e repressive adottate per decenni. Quegli effetti sono sotto gli occhi di tutti: la droga è libera, e non c’è adolescente che non abbia la possibilità di procurarsene quando e come vuole. La droga è un enorme affare per la criminalità. La droga, infine, comporta una mole ingente di spese dello Stato in termini di impiego delle forze di polizia, oneri per l’amministrazione della giustizia, impegno del sistema penitenziario. Su questo c’è un parere ufficiale della Direzione Nazionale Antimafia, che in un indirizzo al governo ha spiegato come la legalizzazione consentirebbe di liberare ingenti risorse dello Stato da un lato, e comporterebbe una «perdita secca di importanti risorse finanziarie per le mafie» dall’altro. Non mi pare poco.

Ma una discussione in termini di costi e benefici dovrebbe prendere atto innanzitutto del fallimento delle politiche sin qui adottate. Io capisco anche che si voglia assegnare alla legge dello Stato un significato che va al di là delle concrete conseguenze della sua adozione: l’affermazione di un principio o di un valore, ad esempio. Capisco, ma non fino al punto di ignorare che le conseguenze concrete hanno clamorosamente smentito quel valore e quel principio. D’altra parte, non c’è nessuna ragione per cui la legalizzazione delle droghe non dovrebbe essere affiancata, faccio per dire, da campagne di informazione e sensibilizzazione: lo Stato ha molti modi per far capire da che parte sta, senza dover per questo ricorrere allo strumento grandemente inefficace dell’illecito penale o amministrativo.

C’è poi un punto generale, nell’intervento di Serpelloni, che non mi convince proprio, e cioè l’idea che siccome la legalizzazione avrebbe degli ovvii limiti, allora lascerebbe campo libero alla criminalità che di quei limiti si farebbe beffe (per esempio nel trattamento delle sostanze, o nella vendita a minori). Ma io direi: qualunque mercato ha delle regole, e proprio perciò mette fuori legge chi volesse agire al di fuori delle regole. Ma il fatto che vi sarà sempre chi proverà ad aggirare le regole, o a trasgredirle, cosa ha a che vedere con il tentativo di regolamentazione di quel mercato? E cosa vi ha a che fare pure il fatto che vi sono interessi pro legalizzazione, quando sicuramente vi sono interessi criminali ben più corposi che prosperano proprio grazie al proibizionismo? In realtà, la questione è, di nuovo, se quel mercato illegale, pericoloso e criminogeno, si amplierebbe o si restringerebbe grazie alla legalizzazione, e mi pare molto difficile sostenere che si amplierebbe.

Si dice infine che con la legalizzazione la pubblica autorità si sottrarrebbe alle sue responsabilità. Ma a me pare proprio il contrario, che legalizzare significhi, un minuto dopo, impegnarsi per responsabilizzare: le famiglie come la scuola, quelle che oggi si chiamano agenzie educative e i singoli cittadini. E soprattutto, mi dolgo che, proibendo, si pensi di aver fatto tutto, mentre invece non si è fatto proprio niente.

La verità è che la droga fa paura. In tempi in cui di paure ne circolano molte, spesso non controllate e non misurate, io resto però fedele all’idea che non si sconfiggano con gli anatemi e le grida manzoniane, ma con l’uso pubblico della ragione. Ho provato ad applicarmici, spero con qualche risultato.

(Con il titolo “Perché iberalizzare le droghe leggere è togliere linfa alla criminalità”: Il Mattino, 26 luglio 2016)