Il fenomeno, senza precedenti, di crescita dei flussi migratori sta mettendo seriamente in pericolo i pilastri fondamentali dell’integrazione europea e della solidarietà fra gli Stati membri: così cominciava il documento con il quale il governo italiano, lo scorso aprile, presentava al Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, e al Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, la proposta italiana di un Migration Compact, di un «percorso per migliorare l’efficacia delle politiche migratorie esterne dell’Unione». Siamo quasi alla vigilia del vertice europeo di Bratislava, che si terrà a metà settembre, e l’appuntamento di Ventotene, fra Renzi, Hollande e la Merkel, è servito anche per preparare l’agenda del prossimo incontro su uno dei punti più difficili che i leader europei dovranno affrontare. Uno di quegli argomenti sui quali sta o cade il senso stesso del progetto europeo.
A Ventotene la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha confermato la linea del suo governo, passato dalla contrarietà all’europeizzazione del tema alla richiesta di una maggiore integrazione fra i paesi europei, chiamati a condividere il peso dell’immigrazione. La Merkel ha anche aggiunto che proseguirà la cooperazione con la Turchia, per contenere la pressione migratoria lungo la rotta orientale, alimentata dalla catastrofe umanitaria in Siria. Ma non ha chiarito fino in fondo qual tipo di impegni l’Unione chiederà invece al suo interno, nella revisione del regolamento di Dublino che disciplina le azioni di ricollocazione fra gli Stati europei.
Su questo terreno, la condivisione latita ancora. Prevalgono invece gli egoismi nazionali. La Germania ha assicurato che farà la sua parte, ma altri Paesi fanno orecchie da mercanti. Obblighi giuridici, prima ancora che morali, vengono disattesi, tanto che il sottosegretario Gozi ha dichiarato ieri a questo giornale che sussistono le condizioni per aprire procedure di infrazione (che però prendono parecchio tempo: possono essere uno strumento di pressione, ma non certo una soluzione).
Un sistema sostenibile ed efficace di ripartizione dei richiedenti asilo tra gli Stati membri, allo stato, non c’è. Così come non c’è un vero diritto europeo di asilo, nonostante le dichiarazioni, le norme, le procedure, gli uffici. Nonostante, va aggiunto, i numeri dei rifugiati siano ancora contenuti: se rapportati però non alle capacità di assorbimento dei singoli paesi, ma alla complessiva popolazione europea.
C’è invece una contraddizione patente tra due pretese di segno opposto. Da un lato, c’è infatti la nobile ambizione di evocare – ad ogni nuovo vertice, in ogni nuova riunione dei capi di stato e di governo – un sistema europeo comune di asilo; dall’altro, c’è invece la volontà, un po’ meno nobile, di vincolare gli spostamenti tra i migranti dentro lo spazio di sicurezza, libertà e giustizia definito dagli accordi di Schengen, che si vuole mantenere privo di controlli alle frontiere interne. Fino però a quando vi si riuscirà, in queste condizioni? È evidente infatti che le due pretese cozzano l’una con l’altra, e finiscono col produrre soluzioni complicate, burocratiche e squilibrate. Così, ad esempio, la proposta della Commissione europea di revisione del cosiddetto “sistema Dublino” mantiene un punto – che la domanda di asilo venga presentata e gestita dal primo Stato che il migrante richiedente protezione incontra – che lascia inevitabilmente il cerino nelle mani degli Stati più esposti alla pressione migratoria (Italia e Grecia), cercando poi faticosamente di “comprare” un po’ di solidarietà in più dagli altri Stati, anche grazie a un sistema di multe. Ma non sono le multe, o i tempi di gestione della procedura, o i criteri di ripartizione: è l’idea che vi sia un “primo” Stato – quello che, affacciato sul Mediterraneo, assiste sgomento e impotente alle tragedie del mare, inevitabilmente con più oneri rispetto ai paesi dell’entroterra continentale – è questa stessa idea che si sposa molta male, per non dire che contraddice apertamente i pilastri giuridici dell’Unione. Quelli che la lettera del governo italiano ricordava.
Vedremo i risultati di Bratislava, il mese prossimo. Intanto, il governo trova temporanea sistemazione ai rifugiati che raggiungono le nostre coste utilizzando le caserme. È una soluzione obbligata, forse persino inevitabile, presa sull’onda di un’emergenza che non accenna certo a finire, ma che può avere contraddizioni, se protratta nel tempo. Il rischio è quello di creare di fatto spazi di reclusione o di segregazione, anche se diversamente definiti: campi di concentramento, luoghi di internamento in cui la soglia della difesa della dignità umana può essere troppo facilmente violata. Giorgio Agamben ha sostenuto che non la democrazia e i diritti umani, ma il “campo”, in cui scompare la differenza fra la regola e l’eccezione, rappresenta purtroppo la forma politica esemplare del nostro tempo. Anche in condizioni di emergenza, dobbiamo evitare che ciò accada o torni ad accadere. L’Europa, se deve servire a qualcosa, deve servire a questo.
(Il Mattino, 24 agosto 2016)