Archivi del mese: agosto 2016

I migranti e l’Europa a due velocità

LQQ44W2E7012-kHmE-UdHu4aaZqzQrwFI-1024x576@LaStampa.itIl fenomeno, senza precedenti, di crescita dei flussi migratori sta mettendo seriamente in pericolo i pilastri fondamentali dell’integrazione europea e della solidarietà fra gli Stati membri: così cominciava il documento con il quale il governo italiano, lo scorso aprile, presentava al Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, e al Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, la proposta italiana di un Migration Compact, di un «percorso per migliorare l’efficacia delle politiche migratorie esterne dell’Unione». Siamo quasi alla vigilia del vertice europeo di Bratislava, che si terrà a metà settembre, e l’appuntamento di Ventotene, fra Renzi, Hollande e la Merkel, è servito anche per preparare l’agenda del prossimo incontro su uno dei punti più difficili che i leader europei dovranno affrontare. Uno di quegli argomenti sui quali sta o cade il senso stesso del progetto europeo.

A Ventotene la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha confermato la linea del suo governo, passato dalla contrarietà all’europeizzazione del tema alla richiesta di una maggiore integrazione fra i paesi europei, chiamati a condividere il peso dell’immigrazione. La Merkel ha anche aggiunto che proseguirà la cooperazione con la Turchia, per contenere la pressione migratoria lungo la rotta orientale, alimentata dalla catastrofe umanitaria in Siria. Ma non ha chiarito fino in fondo qual tipo di impegni l’Unione chiederà invece al suo interno, nella revisione del regolamento di Dublino che disciplina le azioni di ricollocazione fra gli Stati europei.

Su questo terreno, la condivisione latita ancora. Prevalgono invece gli egoismi nazionali. La Germania ha assicurato che farà la sua parte, ma altri Paesi fanno orecchie da mercanti. Obblighi giuridici, prima ancora che morali, vengono disattesi, tanto che il sottosegretario Gozi ha dichiarato ieri a questo giornale che sussistono le condizioni per aprire procedure di infrazione (che però prendono parecchio tempo: possono essere uno strumento di pressione, ma non certo una soluzione).

Un sistema sostenibile ed efficace di ripartizione dei richiedenti asilo tra gli Stati membri, allo stato, non c’è. Così come non c’è un vero diritto europeo di asilo, nonostante le dichiarazioni, le norme, le procedure, gli uffici. Nonostante, va aggiunto, i numeri dei rifugiati siano ancora contenuti: se rapportati però non alle capacità di assorbimento dei singoli paesi, ma alla complessiva popolazione europea.

C’è invece una contraddizione patente tra due pretese di segno opposto. Da un lato, c’è infatti la nobile ambizione di evocare – ad ogni nuovo vertice, in ogni nuova riunione dei capi di stato e di governo – un sistema europeo comune di asilo; dall’altro, c’è invece la volontà, un po’ meno nobile, di vincolare gli spostamenti tra i migranti dentro lo spazio di sicurezza, libertà e giustizia definito dagli accordi di Schengen, che si vuole mantenere privo di controlli alle frontiere interne. Fino però a quando vi si riuscirà, in queste condizioni? È evidente infatti che le due pretese cozzano l’una con l’altra, e finiscono col produrre soluzioni complicate, burocratiche e squilibrate. Così, ad esempio, la proposta della Commissione europea di revisione del cosiddetto “sistema Dublino” mantiene un punto – che la domanda di asilo venga presentata e gestita dal primo Stato che il migrante richiedente protezione incontra – che lascia inevitabilmente il cerino nelle mani degli Stati più esposti alla pressione migratoria (Italia e Grecia), cercando poi faticosamente di “comprare” un po’ di solidarietà in più dagli altri Stati, anche grazie a un sistema di multe. Ma non sono le multe, o i tempi di gestione della procedura, o i criteri di ripartizione: è l’idea che vi sia un “primo” Stato – quello che, affacciato sul Mediterraneo, assiste sgomento e impotente alle tragedie del mare, inevitabilmente con più oneri rispetto ai paesi dell’entroterra continentale – è questa stessa idea che si sposa molta male, per non dire che contraddice apertamente i pilastri giuridici dell’Unione. Quelli che la lettera del governo italiano ricordava.

Vedremo i risultati di Bratislava, il mese prossimo. Intanto, il governo trova temporanea sistemazione ai rifugiati che raggiungono le nostre coste utilizzando le caserme. È una soluzione obbligata, forse persino inevitabile, presa sull’onda di un’emergenza che non accenna certo a finire, ma che può avere contraddizioni, se protratta nel tempo. Il rischio è quello di creare di fatto spazi di reclusione o di segregazione, anche se diversamente definiti: campi di concentramento, luoghi di internamento in cui la soglia della difesa della dignità umana può essere troppo facilmente violata. Giorgio Agamben ha sostenuto che non la democrazia e i diritti umani, ma il “campo”, in cui scompare la differenza fra la regola e l’eccezione, rappresenta purtroppo la forma politica esemplare del nostro tempo. Anche in condizioni di emergenza, dobbiamo evitare che ciò accada o torni ad accadere. L’Europa, se deve servire a qualcosa, deve servire a questo.

(Il Mattino, 24 agosto 2016)

L’Europa debole e i fantasmi che ritornano

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Anche la storia intellettuale recente dell’Europa ha qualche data memorabile. Una di queste è il 6 giugno 1986, giorno della pubblicazione, sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, dell’articolo dello storico tedesco Ernst Nolte, scomparso ieri, dal titolo: «Un passato che non vuole passare». Nolte vi sosteneva che la Germania doveva liberarsi dal senso di colpa che la inchiodava al suo passato nazista, e impiegava allo scopo gli strumenti della ricerca storiografica per inserire il nazionalsocialismo e lo sterminio degli ebrei nel quadro di un conflitto di più lunga durata, di una guerra civile europea consumatasi nell’arco di circa un trentennio, dal 1917 al 1945. Scriveva perciò:

«Non compì Hitler, non compirono i nazionalsocialisti un’azione “asiatica” [ossia paragonabile a quanto accaduto in Russia, con la rivoluzione bolscevica], soltanto perché consideravano se stessi e i propri simili vittime potenziali o effettive di un’azione “asiatica”? L’Arcipelago Gulag non precedette Auschwitz? Non fu lo “sterminio di classe” dei bolscevichi il prius logico e fattuale dello “sterminio di razza” dei nazionalsocialisti?». Parole, queste, che non provenivano dai torbidi politici dell’estremismo di destra, ma da uno studioso serio e rispettato, perfettamente integrato nella comunità accademica. Nolte sosteneva che l’ascesa di Hitler al potere andava letta come una reazione, l’effetto causato dalla rivoluzione «asiatica» di Lenin. E aggiungeva elementi per una comparazione fra atrocità e delitti commessi dai regimi totalitari, che comportavano uno scandaloso effetto di relativizzazione della Shoah. Il male non era più assoluto. Non diversamente, ancora di recente, Nolte avrebbe per esempio posto la questione di quale sia, almeno in linea di principio, la differenza fra Auschwitz e il «silenzioso genocidio» perpetrato nella regione centroamericana e caraibica dalle politiche del governo statunitense.

In ciò non vi era e non vi è certo alcun negazionismo, ma sì l’idea assai discutibile che fosse possibile alleggerire le responsabilità dei tedeschi grazie a un esercizio di contestualizzazione. Con la difficoltà non trascurabile di dover comunque spiegare in maniera convincente perché la reazione al socialismo bolscevico dovesse scegliersi come vittima il popolo ebraico.

L’articolo di Nolte scatenò, ad ogni modo, l’«Historikerstreit», la controversia tra gli storici, definita più energicamente dalla New York Review of Books la ‘guerra’ degli storici tedeschi. I suoi riverberi raggiunsero anche studiosi, accomunati sotto l’etichetta di revisionisti, come Renzo De Felice in Italia e François Furet in Francia, il quale attribuì pubblicamente a Nolte il grande merito di avere con coraggio infranto un tabù, osando paragonare fra loro i regimi comunisti e fascisti.

Agli aspetti politici più controversi delle tesi giustificazioniste di Nolte rispose con asprezza, fra gli altri, Jürgen Habermas, tuttora il più autorevole filosofo tedesco vivente. In questione non era per lui il merito strettamente storiografico delle questioni sollevate da Nolte, quanto l’uso pubblico della storia e il suo peso sul presente. E soprattutto il giudizio sulla leadership tedesca, sempre più interessata a restituire alla Germania un ruolo centrale nelle vicende politiche europee e mondiali, e quindi favorevole a una rivisitazione critica dell’ingombrante e terribile passato.

A distanza di anni, mentre si è attenuato lo scandalo in sede scientifica, non è affatto diminuito, anzi è cresciuto – in Germania come nel resto del continente – il bisogno di dare all’Europa un pensiero. La scelta di Nolte, di riconoscere nel bolscevismo un significato «asiatico», non europeo, era assai indicativa. Per Nolte, il nazismo non era affatto, nelle intenzioni iniziali, antieuropeo: lo fu solo nella sua realizzazione pratica. Al contrario, il bolscevismo era certo europeo in origine, perché sorto dal socialismo marxista, ma antieuropeo nell’idea, in quanto vòlto alla distruzione del sistema sociale, economico e politico realizzatosi in Europa. Questa chiave di lettura comportava, in maniera implicita, l’idea che si fosse ormai tragicamente compiuto, nel corso del Novecento, l’ultimo tentativo di difesa della civiltà europea, e in maniera esplicita un giudizio negativo sull’americanismo della seconda metà del Novecento, e sulla globalizzazione contemporanea, definita con evidente disprezzo «la società del supermercato universale».

Un pensiero di stampo schiettamente conservatore, nutrito da nuove preoccupazioni per via dell’avanzata islamica e dell’immigrazione senza limiti, ma a cui bisogna ancora che l’Europa progressista e democratica provi a dare qualche risposta.

Un’altra data allora va ricordata: il 31 maggio 2003, quando ancora Habermas firma, questa volta insieme a Jacques Derrida, un articolo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. I due più noti esponenti della cultura di sinistra europea, un tedesco e un francese, fino ad allora assai diffidenti l’uno dell’altro, salutano insieme i primi segni della nascita di una nuova sfera pubblica europea, per via delle manifestazioni di protesta contro la guerra in Iraq, svoltesi contemporaneamente in molte capitali: da Roma a Parigi, da Berlino a Madrid. Ma chi direbbe oggi che quest’ultima data è divenuta davvero memorabile, accendendo davvero gli entusiasmi della comunità scientifica e quelli delle opinioni pubbliche nazionali? Chi può oggi unirsi con fiducia ai pronostici di Habermas, invece di piegarsi ancora una volta, spaventato, sulle preoccupazioni di Ernst Nolte? Nei percorsi della memoria, c’è purtroppo ancora da cercare, e i fantasmi del passato non sono così lontani da non poter ritornare.

(Il Mattino, 19 agosto 2016)

La riforma giusta si vede dai numeri

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Forse la riforma della scuola non è nata sotto una buona stella, o forse le stelle e la fortuna c’entrano molto poco e c’entra piuttosto quel fenomeno così ricorrente della società italiana che possiamo elevare a principio. Il principio del prurito. Quando hai prurito, l’unica parte del tuo corpo che sembra contare è quella in cui senti del prurito. Può trattarsi anche solo di una prurigine localizzata in un centimetro quadrato di pelle, sotto il gomito o sulla punta del naso, ma finché prude, maledizione: non pensi ad altro, e finché non passa non riesci a far nulla.

Ora, è sicuramente irrispettoso paragonare i docenti che protestano per il trasferimento lontano da casa a prudore, però si prenda l’esempio per ciò di cui è esempio: per il rapporto che il Paese intrattiene con agguerrite e rumorose minoranze, che non solo riescono a calamitare l’attenzione sui loro problemi (il che, va da sé, è assolutamente legittimo), ma che a volte riescono a condizionare, persino a bloccare un processo riformatore, l’introduzione di una nuova normativa di settore o le politiche di un’amministrazione locale grazie alla capacità di mobilitazione, alla protesta sociale, alla pressione corporativa.

Entro certi limiti, siamo nella normale dialettica democratica. Anzi: non di normale dialettica si tratta, ma di dialettica salutare. Ma appunto: entro certi limiti. Perciò, lasciamo pure perdere l’infelice paragone con il prurito ma stiamo tuttavia ai fatti, per vedere se quei limiti non siano superati. Prendiamo allora il caso della Campania.

Che cosa succede in Campania? Quanti sono i docenti costretti a emigrare? Quanti sono i «deportati», come si disse lo scorso anno, quando apparve chiaro che le nuove immissioni di ruolo avrebbero costretto alcuni docenti, prevalentemente meridionali, a trasferirsi nelle inospitali regioni del Nord? A quanti tra i nuovi professori immessi in ruolo nelle scuole superiori tocca finire in un’aula lombarda, o veneta, o emiliana?

Stando ai dati forniti dal Ministero, la mobilità docente extra-regionale riguarda in Campania meno di mille persone su cinquemila domande. Meno dunque del venti per cento. Ma c’è da aggiungere che, a fronte di questi mille docenti costretti a trasferirsi per almeno tre anni, ce ne sono più di mille, quasi mille e cinquecento che invece rientrano. Il saldo, dunque, è positivo. Sorprendentemente positivo. Lo è in generale: rientrano definitivamente al Sud 4295 docenti; vanno a Nord, per tre anni, 3700 docenti. E c’è ancora da aggiungere che i malcapitati trasferiti possono chiedere l’assegnazione provvisoria, e che in realtà possono anche rifiutarsi: rimanendo precari, ma potendo ancora contare sull’inquadramento definitivo il prossimo anno. Insomma: di tutto si tratta meno che di una deportazione di massa. Al Ministero di viale Trastevere è evidente: non siede qualche emulo di Stalin che procede alla immissione forzata dei nuovi professori come un tempo si procedeva alla collettivizzazione forzata delle campagne e alla russificazione del Paese.

È vero: c’è poco da scherzare. È evidente che non è piacevole cambiare forzosamente regime e abitudini di vita. Lo è ancor meno quando si ha ormai una certa età: non parliamo infatti di laureati di primo pelo, di bamboccioni o di giovani troppo schizzinosi – choosy, insomma –, e la propensione al cambiamento e le prospettiva di carriera a una certa età sono ormai comprensibilmente basse. Le relazioni familiari e sociali sono già definite, ed è difficile mandarle sottosopra, specie quando lo stipendio invece di crescere si riduce, a cause delle nuove spese che devono essere sostenute in trasferta.

Tutto vero. Ma resta il dato: meno di mille. Resta la percentuale: meno del venti per cento. Resta il fatto che i docenti sono al Sud e le classi sono al Nord. Resta infine da considerare che ci troviamo dinanzi al più significativo infoltimento dei ranghi docenti da un bel po’ di anni a questa parte. Parliamo, complessivamente, di un numero a sei cifre, dunque di decine e decine di migliaia di nuovi insegnanti. Come è possibile che la rappresentazione di questa realtà si rovesci, almeno a livello mediatico, e la cosa piccola assume, in una prospettiva evidentemente distorta, dimensioni maggiori della cosa grande? Sicuramente, i mezzi di comunicazione amplificano il rumore di chi protesta, rispetto a chi tacitamente approva. Quelli che tornano a casa non vanno in piazza ad esultare, mentre quelli che si allontanano si fanno sentire. Ma c’è forse anche una difficoltà più strutturale, legata alle caratteristiche della società italiana. Al suo innato particolarismo, alla sua resistente corporativizzazione, al suo conservatorismo sociale. Siamo figli di una storia con poche discontinuità, e molte persistenze. Il che non comporta solo svantaggi, ma qualche svantaggio lo comporta. Se poi si considera che una democrazia liberale è un impasto strano (anche se ormai ci è familiare) perché democrazia significa regola della maggioranza, mentre liberalismo significa separazione dei poteri e rispetto dei diritti, individuali e delle minoranze; democrazia significa sovranità del popolo, mentre liberalismo significa limitazione della sovranità – se si considera ciò, si troverà che la mancanza di un forte demos unitario, nel Paese col più alto tasso di liti giudiziarie d’Europa, ha permesso che sotto l’ombra di sacrosanti principi liberali si mantenesse in realtà un basso livello di integrazione, e forti poteri di interdizione diffusi nelle pieghe della società e nella stessa prassi politica, istituzionale, amministrativa. Coi corpi intermedi – partiti e organizzazione sindacali – che hanno ceduto, rischiamo ogni volta che anche la più democratica delle decisioni, invece di piacere alla maggioranza, prenda il suo colore dal dispiacere della più esigua delle minoranze.

(Il Mattino, 14 agosto 2016)

Se Napoli diserta il tavolo

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Con la delibera del CIPE di ieri si conclude a distanza esatta di un anno il percorso scelto dal governo per ridefinire termini e modalità del suo impegno per il Mezzogiorno. E Napoli non c’è. L’anno scorso, in una direzione nazionale del Pd, insolitamente convocata ai primi di agosto, Matteo Renzi annunziò che il governo avrebbe varato un Masterplan per il Mezzogiorno. I patti per il Sud sottoscritti in questi mesi con Regioni e città metropolitane hanno dato forma a quel piano. La delibera del CIPE di ieri dà, invece, i soldi. E Napoli non c’è, il sindaco della città più derenzizzata d’Italia ha scelto ancora una volta di non esserci. Con la conseguenza che non ci sarà nemmeno quando quei soldi si tratterà di spenderli.

Naturalmente è già sorto il conflitto delle interpretazioni: è il governo che tiene fuori il Comune; no, è il Comune che si chiama fuori. È De Magistris che vuole ergersi a campione dell’opposizione al premier; no, è il premier che non tollera le mani libere che De Magistris vuole mantenere. La sostanza è però una soltanto: Napoli non c’è. E siccome la questione meridionale è nata per dir così «ufficialmente», cento e più anni fa, insieme alla questione della città di Napoli, privata del suo rango di capitale nel nuovo Regno unitario, l’assenza della firma del sindaco partenopeo stride ancora di più.

In realtà, manca anche un’altra firma: quella di Michele Emiliano, il governatore della Puglia. Lì però c’è stato nelle scorse settimane almeno un appeasement, un avvicinamento, una stretta di mano, ed è probabile che entro la fine dell’anno tutto si sistemerà. Ma ovviamente colpisce la circostanza per cui sono le personalità che marcano i caratteri del proprio profilo politico proprio grazie all’opposizione al Presidente del Consiglio a tenere in serbo la firma per altri momenti.

Non che occorra essere tutti allineati e coperti; occorre piuttosto avere contezza del proprio ruolo istituzionale, nonché della propria funzione di rappresentanti del territorio, per guardare al rapporto fra Stato, regioni e città in una chiave meno contingente, meno subordinata alle esigenze della lotta politica, meno strumentale rispetto alle proprie ambizioni.

Le critiche di merito sono, invece, un’altra cosa. Fin dall’annuncio dello scorso anno, osservammo peraltro che il Masterplan e i patti che avrebbe generato a livello territoriale contenevano più che altro un’innovazione di metodo: si trattava infatti di un riordino e di un recupero di fondi e impegni di spesa già deliberati, più che di nuovi investimenti. Coi tempi che correvano (e che ancora corrono), non era comunque un piccolo passo. In primo luogo, perché il governo si mostrava finalmente convinto di dover dare una regia generale alla spesa per investimenti nel Mezzogiorno: in materia di infrastrutture, di ambiente, di fiscalità di vantaggio. In secondo luogo, perché si avvertiva finalmente un’inversione di tendenza rispetto agli anni a dominante nordista, trainati dal duo Bossi-Tremonti, per i quali era meglio, molto meglio impiegare i fondi per lo sviluppo e la coesione sociale destinati al Sud per tappare buchi di bilancio, o magari pagare le multe delle quote latte oppure intervenire in emergenze come quella del terremoto dell’Aquila. Insomma, la convinzione diffusa e il discorso pubblico dominante era stato, fino ad allora, solo uno: che i soldi messi su porti, ferrovie o aeroporti del Sud erano soldi spesi male, buttati al vento, buoni solo a ingrassare le clientele meridionali e incapaci di generare crescita economica e occupazione.

Ebbene, cambiare convinzioni (e politiche) è già un bel passo avanti. Leggere perciò che nella delibera del CIPE sono approvati i fondi per le zone economiche speciali da avviare nelle aree portuali e retroportuali di Napoli e Salerno – per fare solo un solido esempio – non è affatto una bazzecola.

Nella direzione nazionale dello scorso anno, Renzi aveva detto: «Il problema del Sud oggi non è la mancanza dei soldi. È la mancanza della politica». C’era del vero in quella affermazione, ma c’era anche il timore che per mancanza di politica si continuassero a far mancare i soldi. Adesso però i soldi non mancano, ma Napoli continua a mancare. Per colpa di una cattiva politica, che il Sindaco De Magistris continua a portare avanti convinto di dover trasformare Napoli nella rivoluzionaria comune di Parigi, o della lontana città messicana di Morelos. Lo zapatismo del Sindaco libererebbe la città: questo il vessillo issato su Palazzo San Giacomo in campagna elettorale. Ora, è vero che la libertà non ha prezzo; bisogna pur sapere che, ciononostante, i napoletani un prezzo assai salato rischiano comunque di pagarlo.

(Il Mattino, 11 agosto 2016)

Un sì o un no che riguarda tutti gli italiani

immagine 9 agosto

La decisione della Cassazione di dare il via libera al referendum sulla riforma costituzionale è stata salutata da un tweet del Comitato per il sì alla riforma, subito condiviso dal Presidente del Consiglio: «Adesso possiamo dirlo: questo è il referendum degli italiani». Siccome le parole e i discorsi degli uomini, anche quelli pubblici, si reggono su una fitta trama di implicature che è indispensabile maneggiare per comprendere il senso, è bene comprendere cosa sia contenuto implicitamente nel tweet di Matteo Renzi. E cioè: che adesso si può dire quel che prima non si poteva dire. E che quel che adesso si può dire è che il referendum è degli italiani, cioè di tutti gli italiani, e non di qualcuno in particolare.

Traduciamo in termini ancora più espliciti: se «prima» io, Matteo Renzi, ho detto che su questo referendum si gioca tutta intera la mia scommessa politica, se dunque «prima» questo referendum poteva essere il referendum di Matteo Renzi (e di Maria Elena Boschi) – quello che mi avrebbe definitivamente intronizzato, o, in caso negativo, disarcionato – «adesso» vi dico invece quello che, dopo il deposito delle firme degli italiani e il bollino della Cassazione, posso finalmente dire in chiaro, e cioè che questo referendum è voluto dagli italiani, ed è l’indispensabile viatico per una nuova Italia.

Ovviamente non è andata proprio così, nel senso che questa torsione fra il discorso di «prima» e il discorso di «adesso» non è dipesa dal passaggio formale del vaglio della Corte di Cassazione, ma da fattori politici molto più stringenti. Cioè, per dirla nel modo più netto possibile, dal rischio di fare la fine di Cameron, il premier britannico che ha rimesso la sua sorte politica a un referendum il cui esito – l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea – ne ha determinato le dimissioni.

Si rischia davvero un effetto Cameron, anche in Italia? Qualcuno deve averlo pensato, e se non l’ha pensato glielo hanno suggerito i sondaggi: la riduzione della partita referendaria a un voto pro o contro Renzi non conviene al premier. Sovrapporre al voto di merito, sul contenuto della riforma, un voto sulla persona di Renzi e sul suo futuro politico ha l’immediato effetto di coalizzare su una posizione contraria tutto il variegato fronte delle opposizioni. A un guazzabuglio di partitini e correnti divise e litigiose, schierate anche se versanti diversi dello schieramento politico, si offre infatti un comune denominatore potente, che, in un voto referendario, non ha neppure la scomodità di dover trovare un accordo su un programma o su una leadership: gli basta dire no, e il gioco è fatto. Hai un bel dire allora che però sono riforme attese da non so più quanti anni: se è vero che la personalizzazione è una modificazione profonda della scena pubblica (e delle competizioni elettorali), allora è molto difficile che, legando alla riforma un destino personale, non sia questo a prevalere. Cioè, in questo caso, a soccombere. L’uno contro tutti produce infatti, in un referendum, un risultato numerico più che scontato: tutti sono sicuramente più di uno.

Questo che si è detto sin qui vale sul fronte della strategia comunicativa che sarà presumibilmente tenuta dal Presidente del Consiglio e dalla sua maggioranza nelle prossime settimane, fino a novembre, quando con ogni probabilità il referendum sarà celebrato.

Ma poi c’è dell’altro. Il tweet di Renzi può compiere una simile virata strategica anche perché altro vi è implicato. La formula del «referendum degli italiani» non è infatti un’invenzione estemporanea, o campata in aria, ma rinvia al discorso più importante che sia stato tenuto nel corso di questa legislatura, e che ne rappresenta, per dir così, la fonte ultima di legittimità. Si tratta del discorso pronunziato in Parlamento da Giorgio Napolitano, al momento della sua rielezione a Presidente della Repubblica. Fatto eccezionale, legato ad uno stallo politico e istituzionale che, nelle parole del Presidente, non era dovuto solo alla difficoltà di trovare il nuovo inquilino del Quirinale, ma all’incapacità delle forze politiche di fare le riforme: le riforme elettorali e la riforma costituzionale.

Basti riportarne qui un breve passaggio: «Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario». Questi e altri passaggi furono ascoltati in un doloroso silenzio da tutti i parlamentari, e poi lungamente applauditi. La sostanza della sfida referendaria è quella. Il nodo politico dirimente è quello. Se il referendum non passa, il nulla di fatto vien una volta ancora ribadito. Qui sta una differenza decisiva con la contesa accesa da Cameron con il suo referendum sulla Brexit: perché Cameron ha escogitato il ricorso al referendum proprio per fondarvi la sua leadership sul partito e nel Paese (perdendole entrambe a causa dell’esito a lui infausto), Renzi invece non ha scelto il terreno di elezione della sfida politica: lo ha trovato bensì indicato dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento (e, certo, non si è tirato indietro). Questa non piccola differenza gli permette ora la virata. Non gli consente di scindere la sorte del suo governo dal voto di novembre, ma gli dà il margine per riaprire il confronto sui temi di quel voto, sui punti di merito – dalla fine del bicameralismo paritario al nuovo Senato su base regionale, alla stessa legge elettorale –: temi, questi, tutti iscritti fin dall’inizio nei compiti della legislatura. E in questo senso, dunque, è vero: si tratta di un referendum degli italiani, a cui è legata anzitutto la loro sorte.

(Il Mattino, 9 agosto 2016)

Il coraggio di premiare la qualità

ImmagineLa chiamata per competenze introdotta lo scorso anno con la riforma della scuola è destinata a cambiare profondamente una delle infrastrutture portanti del Paese. Perché sono ora i dirigenti scolastici a formare l’organico dei loro istituti. Ora: nei prossimi giorni. Sulla base di criteri pubblici, contenuti nell’offerta formativa della scuola, e dietro motivazione altrettanto pubblica della scelta effettuata tra i curriculum presentati dai docenti, saranno loro, i dirigenti, a coprire di volta in volta il posto di professore di matematica o quello di lingua straniera. Di volta in volta significa: ogni tre anni. Ogni tre anni nuove graduatorie, nuovi criteri e, se è il caso, nuove scelte da parte dei dirigenti. Sicché i docenti, già di ruolo, non avranno più la garanzia di inamovibilità di un tempo, di rimanere cioè in una sede per tutta la loro carriera (salvo chiedere loro stessi di essere trasferiti). Gli tocca di esser bravi, e apprezzati.

Di fronte a un cambiamento di questa portata, non c’è da stupirsi che si registrino resistenze, critiche, paure. Si immagina che la riforma spinga i docenti a una vita da leccapiedi nei confronti dei presidi, o che i presidi facciano un mercimonio del potere discrezionale che la legge assegna loro. In un caso e nell’altro, però, non si dà molta fiducia alle relative categorie. Si pensa che i docenti siano pronti a farsi servili, e che i dirigenti siano disponibilissimi a tradire la loro funzione. Ma stavolta hanno ragione, io credo, Renzi e il ministro dell’istruzione Stefania Giannini: a criticare la riforma è, in fondo, chi pensa che il Paese non ce la possa fare, che non abbiamo un corpo docente e una classe dirigente che amino davvero il proprio lavoro e pensino di poterlo fare bene, e di poter essere finalmente valutate per questo. Perciò preferisce accontentarsi, accettare lo status quo e mantenere un equilibrio non ottimale, piuttosto che provare a innalzare la qualità dell’offerta scolastica puntando anzitutto sull’autonomia della scuola e la responsabilità di chi la dirige.

In realtà, quello di insegnante è ancora un mestiere che si sceglie spesso per vocazione, in cui le gratificazioni di ordine personale legate al rapporto umano, educativo, didattico con gli studenti superano di gran lunga le soddisfazioni di ordine economico, o professionale. Tutti hanno conosciuto – da studenti o da genitori – insegnanti o professori che si dannavano in aula, indipendentemente dalla considerazione che di loro avesse il collega, il preside o il direttore. Indipendentemente anche dallo stipendio. Questi docenti traevano la loro motivazione dall’unico fondo al quale un docente dovrebbe attingere: da loro stessi e dalla loro passione per l’insegnamento. Questi, indubbiamente i più bravi, non cambieranno di un grammo la loro condotta: non riceveranno una spinta o uno stimolo in più dalla riforma, ma non diventeranno certo improvvisamente più servili.

La scuola però è fatta anche di molti altri che in un aula non entrano “per trovare un dimensione”, come il carabiniere del film di Carlo Verdone. A costoro si chiede ora di rinunciare ad alcune delle vecchie certezze e di investire più decisamente sulle proprie competenze. Mentre alle scuole si chiede di innalzare e differenziare in autonomia la qualità dell’offerta formativa. Se i criteri di scelta a fondamento delle chiamate dirette dei dirigenti permettono di premiare una preparazione specialistica post-laurea, oppure di privilegiare qualifiche congruenti con il piano di attività didattiche del singolo istituto, non può che venirne un bene per il sistema dell’istruzione nel suo complesso.

Ma anche le migliori riforme difficilmente si fanno senza metterci soldi. Massima che vale anche nel momento in cui cambi il profilo docente. Se finora il patto più o meno tacito era: “tu mi paghi poco, io però lavoro poco e non mi muovo”; il nuovo patto non può essere: “io lavoro di più e mi rendo disponibile a cambiare sede, tu però continui a pagarmi poco”. Immaginare che i docenti possano sobbarcarsi una più intensa mobilità di sede e un’inedita concorrenza entro i nuovi ambiti territoriali senza adeguamenti stipendiali è sbagliato (oltre che ingiusto).

Ed è sbagliato pure non prestare maggiore attenzione, dall’altro lato, ai nuovi compiti dei dirigenti. Le maggiori responsabilità e discrezionalità devono avere conseguenze, quando siano esercitate male. È vero che il dirigente rende pubbliche le sue scelte, ma se le sbaglia? Sul versante della valutazione del dirigente c’è ancora troppo poco, nella riforma. Né si può dire che, allo stato, il territorio e le famiglie esercitino sulle scuole una pressione tale, da esser loro a punire le scelte sbagliate, per esempio in termini di minori iscritti. A volte si sceglie una scuola perché offre la mensa, o è vicino a casa. A volte, purtroppo, anche perché non si corrono troppi rischi di bocciatura. C’è un divario, insomma, fra i criteri con cui i docenti sono giudicati dai presidi, e i criteri con cui i presidi e le scuole sono chiuse loro volta giudicate dai fruitori, cioè dalle famiglie, e in questo divario possono infilarsi dinamiche distorsive (clientelari, corporative, nepotistiche) nelle scelte dirigenziali. È un punto critico, indubbiamente. Ma lo si può affrontare, stringendo qualche maglia in più pure nel rapporto fra la scuola e il territorio da un lato, fra i dirigenti e gli ispettori ministeriali dall’altro. E in ogni caso salvaguardando il principio ispiratore, che solo dall’esercizio delle scelte, e non dalla loro paralisi, può venire una scuola nuova.

(Il Mattino, 1 agosto 2016)