Archivi del giorno: settembre 2, 2016

L’antipolitica condannata a uccidersi

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Le dimissioni-revoca di Carla Ranieri, capo di Gabinetto del sindaco di Roma Virginia Raggi, e quelle dell’assessore al Bilancio, Marcello Minenna, fanno rumore. Non solo perché arrivano a poco meno di due mesi dall’insediamento della giunta, ma perché mettono in discussione il più clamoroso risultato delle recenti elezioni amministrative, quello che aveva consegnato al Movimento Cinquestelle la guida della Capitale. Come se non bastasse, dopo le prime dimissioni ne sono subito arrivate altre: a lasciare l’incarico, nella giornata di ieri, sono stati anche Marco Rettighieri e Armando Brandolese, rispettivamente direttore generale e amministratore pubblico dell’Atac, l’azienda pubblica dei trasporti, e Alessandro Solidoro, nominato appena un mese fa a capo di Ama, l’azienda dei rifiuti.

A cosa si deve questa improvvisa ecatombe al vertice? A giochi di potere all’ombra del Campidoglio e nelle stanze sempre meno in streaming dei Cinquestelle? Sicuramente il Movimento è attraversato da forti contrasti: basta leggere la dichiarazione della influente senatrice romana Paola Taverna, che parla di «perdita gigante», per capire che non tutti riescono a minimizzare la notizia del giorno. E nella galassia virtuale del Movimento, in cui sempre più spesso contano amici, fidanzati e parenti, fa notizia pure il commento di Francesca De Vito, attivista grillina e sorella del presidente del consiglio comunale, Marcello De Vito (notoriamente critico verso la sindaca), che su Facebook rimane «senza parole» – e con molti puntini sospensivi – per la gragnuola di dimissioni.

Ma una lettura che si limitasse a ricostruire le vicende romane in termini o di gelosie personali o di inesperienze individuali mancherebbe l’elemento strutturale di questa crisi. A Roma avevano fallito i partiti tradizionali (chiamiamoli pure così, benché di tradizionali non hanno ormai più nulla): il centrodestra con Alemanno, il centrosinistra con Marino non solo avevano male amministrato, ma si erano messi in condizione di non potersi neppure ripresentare dinanzi all’elettorato. Loro stessi invocavano discontinuità e rottura, e discontinuità e rottura sono arrivati, com’è logico che fosse, con il M5S. Con un movimento, nella cui ideologia c’è però un rigetto radicale della politica, non semplicemente la richiesta del suo rinnovamento o della sua riforma. Lo si può misurare su molti terreni: che cos’è infatti l’esaltazione della democrazia diretta, se non una diffidenza di principio verso qualunque azione che altri promuova in mio nome, in mia rappresentanza, e dunque una diffidenza verso uno dei cardini della politica moderna? È chiaro però che questa cultura esplode non appena i grillini sono costretti ad agire dentro il perimetro della politica e nelle istituzioni, e a darsi comunque propri rappresentanti. Verso i quali, quindi, immediatamente scatta il sospetto, la sfiducia, l’accusa di tradimento. Allora il Movimento prova a sviluppare soluzioni surrogatorie: nomina i portavoce, costituisce direttori grandi e piccoli, si inventa il mandato a tempo per gli assessori, sperimenta il voto online per le espulsioni ma anche le decisioni anonime di staff che coprono la chiara assunzione di responsabilità politiche. Lo stesso ampio ricorso a relazioni di amicizia, o di parentela, è ben lungi dall’essere espressione di nepotismo o di corruttela: è, molto più semplicemente, l’incapacità a stringere e tenere in vita relazioni e legami di carattere politico.

Lo stesso dicasi per l’altro grande terreno presidiato dai Cinquestelle, quello morale, del quale rivendicano quasi una sorta di monopolio. In qualunque modo la politica provi ad organizzarsi autonomamente, e di avere ambizioni proprie, secondo una lezione che risale a Machiavelli e a Hobbes, lì ci sarà sempre un’opacità di troppo, per l’ideologia grillina. Un interesse ingiustificato, un lucro immorale. Così non si tratta tanto dello stipendio eccessivo della Ranieri, quanto del fatto che il Movimento, a ben vedere, non è in condizione di giustificare neppure una lira di compenso per l’attività politica. La quale è puro servizio, pura dedizione al bene pubblico: tutto il resto è del demonio, è infetto, è immorale. Le contorsioni dei parlamentari pentastellati fra stipendi diarie e indennizzi ne sono la prova evidente.

Per il lato poi per il quale la politica sviluppa e impegna professionalità, sollecita ambizioni, gestisce fondi e attribuisce poteri e responsabilità il Movimento si trova dunque del tutto impreparato: la distanza dalle burocrazie professionali diventa troppo rapidamente incomprensione ed estraneità.

Del resto, il Movimento non ha una fisiologia, un insieme di regole che possano fondarne l’azione, e così oscilla fra precetti morali assoluti e diktat altrettanto assoluti del fondatore. Tutto quello che c’è in mezzo, dai sindaci sul territorio ai parlamentari nei palazzi della politica, può finire sugli altari o cadere in disgrazia per una parola di Grillo, per un commento in Rete, per la ribellione di un meetup o per la censura morale dei tanti Catone che si esercitano nell’arena pubblica della Nazione. Così a tremare stavolta è Roma, come è stata ieri Parma, e come sarà domani un’altra città: chi può dirlo? Né possono trovare spazio, nella retorica del Movimento, considerazioni di opportunità, dosi di realismo politico, scelte per il male minore. Roma o Roccacannuccia fa lo stesso.

Forse siamo stati per troppi secoli il paese del «sopire, troncare; troncare, sopire» – dal padre provinciale di manzoniana memoria fino ad Andreotti – per meritarci il chiasso e la prolissità ideologica dei grillini. Ma chissà: è probabile che la prima, oggi, a dolersene, e a desiderare di lavorare con meno strepiti e più autorità, seguendo magari la logica delle cose piuttosto che quella del Movimento, è proprio Virginia Raggi. Solo che non può.

(Il Mattino, 2 settembre 2016)

Il merito torna a scuola e non trova docenti

ImmagineLe stime parlano di circa ventimila posti nella scuola, su poco più di sessantamila messi a concorso, che non saranno assegnati. Non ci sono i candidati, nel senso che quelli che c’erano sono stati bocciati. La scuola intanto cambia: si investe sulle nuove tecnologie didattiche, torna il maestro unico prevalente, è introdotta la nuova prova scritta nazionale Invalsi nell’esame di terza media, si riorganizzano gli indirizzi di studio dei nuovi licei, si potenzia l’insegnamento delle lingue straniere, si ridefiniscono i percorsi didattici degli istituti tecnici e professionali. E si assumono nuovi docenti nelle scuole di ogni ordine e grado. Si fa dunque il concorso, si mettono a bando 63.712 posti e si svolgono le prove. Ma sorpresa! In larga parte, le prove non vengono superate, e così bisognerà ancora una volta ricorrere agli iscritti alle graduatorie ad esaurimento e conferire incarichi annuali.

Ma perché così tanti bocciati? Il dato è così anomalo, o forse semplicemente inatteso, da spingere molti a formulare ipotesi le più varie che ne diano conto: le tracce assegnate sono forse troppo difficili, troppo complesse, troppo complicate? Il tempo a disposizione dei candidati è troppo poco? I percorsi di abilitazione seguiti dai candidati ammessi a concorso si sono rivelati inadeguati? Fra i commissari d’esame e i candidati sussistono forse abissi di incomunicabilità? L’italianista Claudio Giunta, ad esempio, su «Il Sole 24 ore», ha passato in rassegna le otto domande della prova d’italiano. Le ha giudicate «estremamente complesse», tali da richiedere «risposte ben argomentate» (come si può pensare, tuttavia, di insegnare italiano nelle scuole senza essere in grado di produrre risposte ben argomentate?). Il fatto è che però per le otto risposte della prova (e le altre risposte chiuse) i candidati avevano a disposizione solo due ore e mezza: troppo poco. E così Giunta ha concluso: «escluderei che una prova del genere, nel tempo assegnato, possa essere svolta decentemente da parte di chicchessia, anche del migliore studioso di letteratura italiana».

Può darsi che sia effettivamente così, e che quel che è successo con la prova d’italiano sia successo anche in altre materie (io comunque ho dato uno sguardo alle domande della prova in filosofia, e non mi sono parse insormontabili), ma lo stesso Giunta mette in premessa qualche considerazione più generale: sui molti che vorrebbero insegnare e che piuttosto dovrebbero ancora imparare; sulle lacune nella preparazione che dipenderebbero non già dagli studi universitari ma dal poco o nulla che si è fatto prima, alle medie e al liceo; sulla scarsa attrattività che l’insegnamento esercita sui più bravi e più brillanti, specie nelle discipline scientifiche.

Insomma: qualcos’altro forse c’è. Qualcosa che non riguarda solo le modalità di svolgimento delle prove concorsuali, ma più in generale il posto della scuola nella società. Sempre meno centrale, sempre più marginale, sempre meno qualificante. Claudio Giunta ha limitato la sua considerazione all’ambito scientifico, ma il problema si pone anche nelle altre materie, con la sola differenza che in quei casi mancano alternative all’insegnamento altrettanto robuste di quelle che si aprono a un laureato in discipline scientifiche. Ma il problema è lo stesso: i più bravi sono sempre meno interessati a insegnare. Per più di un motivo: perché gli stipendi sono bassi, e chi è bravo non è entusiasta all’idea di impiegare la propria bravura per avere in cambio un salario modesto. E perché la bravura (cioè il merito, le competenze) non ricevono veri riconoscimenti, né di ordine simbolico né più prosaicamente materiali.

Diciamolo allora in una parola: c’è stato un generale disinteresse, in tutti questi anni, a portare in cattedra quelli bravi. Il solo fatto che si sia attesa quasi una generazione per ripartire con i concorsi la dice lunga sull’importanza assegnata alla selezione di una buona classe docente. Se non fai i concorsi, procedi inevitabilmente per toppe e rammendi, e mandi avanti un po’ tutti: quelli che studiano e magari continuano pure a fare attività di ricerca (ci sono), ma anche quelli che vanno solo a caccia di punti e supplenze, indipendentemente dall’impegno didattico profuso, da progetti formativi o da specifiche attitudine professionali (ci sono, e sono di più).

Con il concorso il ministro Giannini ha provato a far ripartire il motore della scuola, ingolfato da una pessima manutenzione. Anzi: dall’assenza di qualunque intervento per tanti, troppi anni. E si è visto cosa è accaduto in tutto questo tempo: che un’intera leva di aspiranti docenti è arrivata all’appuntamento del tutto impreparata, forse persino sorpresa all’idea che dovesse prepararsi. Forse, quelli che il concorso non lo volevano affatto, e puntavano solo a una qualche forma di ope legis, avevano presentito una disfatta simile. Ma avessero avuto ragione non l’avrebbero evitata: l’avrebbero solo trasferita nelle aule. Piuttosto, alla luce dei risultati che stanno emergendo in questi giorni, è evidente che la riforma scolastica è appena cominciata, e non potrà dirsi riuscita se non riporterà la scuola al centro della vita pubblica e sociale del Paese, e se non si troverà il modo di portare in cattedra un buon numero di quelli bravi.

(Il Mattino, 1 settembre 2016)

L’ultima del sindaco: la Rivoluzione Umana

De-Magistris-saluta-i-suoi-sostenitori-al-ballottaggio-2016-con-la-maglia-del-NapoliLa «Rivoluzione Umana» (con le maiuscole) che Luigi De Magistris annuncia via Facebook deve «supportare i processi di liberazione» ma anche «ostacolare quelli di omologazione». Sul suo profilo social, alimentato in queste settimane agostane dai successi della città turistica, in grado di attrarre nuovamente flussi turistici importanti (è il vanto dell’Amministrazione partenopea), il sindaco di Napoli non manca di inserire gli elementi fondamentali della sua retorica, fatta di battaglie contro l’ingiustizia, lotta contro la povertà, indignazione per i continui soprusi dei potenti. E naturalmente di tirate a favore della comunità, della giustizia e della felicità. La chiama «Rivoluzione Umana», ma è anzitutto la sua maniera, quasi quotidiana, di comunicare col popolo (ed essere vicino al popolo, e vivere come il popolo, e insomma fare il Sindaco di Strada). Non importa se è agosto, e l’attenzione dei più sembra calamitata dal calciomercato o dall’inizio del campionato: De Magistris prova lo stesso ad annunciare un mondo in cui «si recuperano i valori della vita», si costruiscono luoghi in cui «si daranno risposte sempre più concrete ai bisogni reali», si animano comunità «in cui contano le persone, non le accumulazioni di denaro». Certo, per realizzare questa «concreta possibilità», bisogna sorbirsi dosi massicce di ideologia parolaia, per cui la Rivoluzione Umana prevede «la collettivizzazione di volontà autonome ma non contrapposte», contro «il consumismo universale della massificazione depressiva neo-liberista», ma, al netto di questi ingredienti, De Magistris rimane uno dei pochi uomini capaci di assegnare alla politica compiti come: realizzare «luoghi in cui l’essere vince contro l’avere», abitare spazi in cui «la natura è sorgente di vita, non oggetto da stuprare», e soprattutto edificare «Comunità SPA». La Rivoluzione Umana trasformerà infatti così profondamente il mondo, che in luogo delle società per azioni si avranno comunità SPA, «Solo Per Amore». Diciamolo onestamente: nemmeno Berlusconi, quando si inventò il partito dell’amore, era arrivato a tanto. Quello che però a sguardi cinici e disincantati appare esorbitante, De Magistris riesce a renderlo in qualche misura almeno convincente: a giudicare anzitutto dai like che i suoi post raccolgono su Facebook, ma più ampiamente dal consenso e dal carisma di cui continua a godere. È come se fossimo un po’ tutti stanchi della faticosa prosa del mondo, e avessimo bisogno di qualche licenza poetica in più. De Magistris parla un linguaggio di opposizione (anche se continua a fare il Sindaco) grazie al fatto che gli riesce di occuparsi dei mali del mondo, molto più che dei piccoli malesseri quotidiani. Così nella sua rivoluzione trovano posto se non il lupo che riposa accanto all’agnello, almeno i siriani e i curdi, che si abbracceranno tutti, insieme agli europei e agli africani. (In questo affratellamento di popoli, spiace dirlo, non mancano i palestinesi ma non figurano gli ebrei. Loro non ci sono: per loro niente amore e niente abbracci).

Il primo commento che leggo sotto il post (che mentre scrivo ha già raccolto più di 900 like) è di una certa Martina Bianchi, che ringrazia il Sindaco di Napoli per averle «definitivamente pulito il cervello milanese». A riprova che c’è un tratto sudista nei gesti e nelle parole del Sindaco, che viene percepito anche quando non costituisce il tema specifico dei suoi discorsi. Ma la retorica del Sud che è amore e generosità, contro gli egoismi e l’aridità morale del Nord evidentemente funziona (grazie anche all’opposto linguaggio di Salvini). Poi ci sono anche quelli che chiedono bruscamente di smetterla con queste supercazzole, ma l’impressione è che Il Sindaco, a colpi di rivendicazioni di beni comuni e partecipazione e diritti irrinunciabili (a quasi tutto), nonché delle immancabili moltitudini che decidono dal basso, continui a cercare uno spazio politico in cui valorizzare una certa tradizione di sinistra rimasta priva di riferimenti concreti, orfana di solidi ancoraggi politici e culturali, ma permeabili a tutti i venti e i fermenti ideologici che «l’Europa di Lor Signori» (così la chiama il Sindaco) lascia fuori.

Lo schema è insomma quello della guerra all’establishment. Siccome in Italia in quel ruolo gioca da titolare il Movimento Cinque Stelle, a De Magistris tocca fare panchina, ma quando può giocare qualche scampolo di partita, allora prova a fare del suo meglio, per guadagnarsi un posto nella politica nazionale. Lui ha il suo profilo da ala sinistra, molto movimento e poca finalizzazione, ma siccome in quella zona del campo molti dei vecchi protagonisti dell’antagonismo sono usciti di scena, mentre sono al palo tutti i processi di ricomposizione di una forza politica alla sinistra del Pd, De Magistris ci prova.

Ora, è evidente che le cose che scrive il Sindaco di Napoli non sono apprezzabili per chiunque pensi che l’elettorato si intercetti in base alla domanda: e voi vi fareste governare (o amministrare) da uno così? Ma poiché quote forse crescenti dell’elettorato non si orientano più in risposta a questa domanda, rifiutano anzi l’appello alla responsabilità che essa comporta, e preferiscono piuttosto esprimere un “sentimento”, o anche percepire una “visione”, piuttosto che subire l’ennesimo, gelido bagno di realismo, le parole del Sindaco trovano seguito. Quanto ampio è difficile dirlo. Ma che diventino un manifesto ad uso dei diseredati e di tutti i Sud del mondo è comunque improbabile, forse perché nemmeno De Magistris può fare che gli ultimi erediteranno davvero la terra (per realizzarvi, si capisce, la nuova economia a chilometro zero).

(Il Mattino – ed. Napoli, 30 agosto 2016)

 

La riforma della Costituzione ha un motivo che non si vede

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Vi sono stati, finora, due piani di discussione della riforma costituzionale, in vista del referendum del prossimo autunno. Il primo concerne il merito, cioè il contenuto della riforma. Il secondo riguarda invece la partita politica che si gioca attorno al referendum. C’è però un terzo piano, sul quale sarebbe necessario portare la discussione, e che è purtroppo ben poco frequentato nel dibattito di queste settimane. Nel merito, i difensori della riforma rivendicano l’importanza di scelte che mettono fine al bicameralismo paritario e ridefiniscono i rapporti fra il livello statale e quello regionale, dopo anni di pseudo-federalismo malissimo digerito; quanti sono contrari trovano invece confusa o involuta la fisionomia del nuovo Senato delle Regioni e paventano una restrizione degli spazi di legittimità democratica delle istituzioni. Sul piano politico, invece, gli avversari della riforma trovano un comune denominatore nella possibilità di far cadere Renzi (e si direbbe proprio lui, più ancora che il governo da lui presieduto); al contrario, Renzi sa che con la vittoria al referendum il resto della legislatura sarebbe in discesa, e magari potrebbe riprendere verve l’antica spinta rottamatrice.

Qual è però il terzo piano, quello assai poco frequentato finora? Forse lo si vede meglio se lo si osserva da lontano, da molto lontano. Dalla foresta amazzonica, per esempio, dove si spinse l’antropologo Claude Lévi-Strauss. Imbattendosi in società «fredde» che, a differenza di quelle «calde», vivevano vicini allo «zero di temperatura storica». Società che allo studioso francese sembravano stazionarie, preoccupate esclusivamente di «perseverare nel loro essere». Lévi-Strauss aveva certamente in testa un solo modello di storia, un solo «regime di storicità»: quello tipico delle società occidentali, persuase di vivere (da almeno un paio di secoli) dentro il corso progressivo di una storia che procede per successivi accumuli, e che è palesemente ispirata e diretta verso il futuro.

Quella persuasione è ormai andata smarrita. Un altro studioso francese, lo storico François Hartog, ha parlato di crisi del regime moderno e coniato l’espressione «presentismo» per spiegare in qual modo oggi viviamo l’esperienza del tempo. L’avvenire non è più, infatti, il punto luminoso verso il quale la società umana è diretta, e così il fiume della storia, invece di dirigersi sicuro verso la foce del futuro, si slarga e ristagna nella morta gora del presente.

Il «presentismo», in realtà, ha dapprima significato l’impazienza rivoluzionaria di buttare a mare il passato, o di ottenere tutto e subito, come gridavano i muri di Parigi nel maggio del ’68. Poi, però, passata la febbre rivoluzionaria, e abbassatasi drasticamente la temperatura storica, ha voluto dire e vuol dire un tempo privo di vere aspettative, accartocciatosi su se stesso, sprofondato definitivamente al di qua di ogni linea d’orizzonte. Un provincialismo non dello spazio ma del tempo, per dirla con il poeta inglese Eliot, in cui non ha più parte il passato, che ha perso ogni esemplarità, ma in cui anche il futuro ha perso qualsiasi attrattiva.

Domanda: se questa diagnosi è corretta – e a questa diagnosi concorrono molti fenomeni storici e sociali: dalla crisi del lavoro salariato alla diffusione dei social media, dalla fine delle grandi narrazioni politiche e ideologiche ai progetti di naturalizzazione coltivati (anche) dalle scienze umane – se la diagnosi è corretta, la domanda diviene: cosa significa fare una riforma profonda della costituzione, in una simile temperie culturale? Non dovrebbe significare immettere nuovo dinamismo ed energia politica nel tessuto istituzionale del Paese? Non dovrebbe essere questa la vera scommessa, ben al di là del merito dei singoli articoli toccati dal processo di revisione?

Vi è in effetti un modo di presentare gli effetti del cambiamento costituzionale, per il quale la riforma produce al più un adeguamento, un aggiornamento del contesto istituzionale. Si tratterebbe cioè – secondo questo racconto – non di aprire un nuovo corso, una nuova storia, ma al più di non rimanere indietro rispetto al presente: del futuro c’è così, in questa maniera di apprezzare la riforma, ben poca traccia. Ce n’è ovviamente ancora meno in chi guarda invece al passato: è la retorica che monumentalizza la Carta del ’48, trasformandola in un patrimonio immutabile, ed è un altro modo, irrimediabilmente passatista, di sfuggire all’appuntamento con i compiti che la storia assegna alla politica. Ma chi vuole la riforma forse non può accontentarsi di vivere vicino allo zero di temperatura storica, o ha anzi il dovere di spingere lo sguardo più in là, oltre la crisi del tempo attuale, provando per una volta ancora a dire in maniera solida e non effimera che questo presente è inferiore all’avvenire che si tratta di aprire. Non è del resto la stessa incapacità che affligge oggi l’intera costruzione europea?

(Il Mattino, 29 agosto 2016)