La lettera di Beppe Sala, sindaco di Milano, sull’immigrazione ha sicuramente un pregio: non è banale. Dice almeno un paio di cose che su questo tema vanno dette: che il fenomeno migratorio è tutto meno che un’emergenza. E che i Comuni italiani non possono fare da soli. In mezzo a questi due estremi stanno gli altri due attori convocati da Sala: l’Unione Europea, e lo Stato italiano. Sui primi due punti si può raggiungere un elevato grado di consenso. Ragionato, non improvvisato.
Anzitutto, le migrazioni hanno dalla loro la forza irresistibile dei numeri della demografia, ancor prima che l’urgenza e la drammaticità della politica e della storia. È stato calcolato che se i paesi ricchi chiudessero ermeticamente le loro frontiere, e se altrettanto facessero i paesi poveri (asiatici, africani, sudamericani), impedendo alla popolazione di emigrare, i primi perderebbero, nel giro di vent’anni, quasi cento milioni di persone nella fascia di età attiva, fra i 20 e i 64 anni, mentre i secondi crescerebbero, nello stesso arco di tempo e nella stessa fascia anagrafica, di ben 850 milioni di persone.
Siamo dunque in presenza di un fenomeno strutturale, di portata epocale. Che va governato, non esorcizzato. A tale, imponente fenomeno si somma la componente dei rifugiati, di coloro che fuggono dalla guerra, o da paesi in cui non vengono rispettati i loro diritti politici e civili. E si sommano inevitabilmente inquietudini, paure, diffidenze, quanto più lontana o impermeabile appare l’identità culturale e religiosa di provenienza. I numeri dei rifugiati sono in costante aumento, anche se, per il nostro Paese, non sono ancora tali da giustificare l’uso di certe parole. Non è in corso un’invasione, insomma, anche se ormai l’ordine di grandezza è delle centinaia di migliaia di persone. Ed anche se quel che è in corso – questo è il secondo punto della lettera di Sala – difficilmente può essere gestito a livello periferico. Ci vuole un coordinamento nazionale, e ci vuole per esempio che l’autorità centrale, che stabilisce la distribuzione dei migranti a livello locale, abbia da un lato mezzi e competenze, dall’altro legittimità sufficiente perché le sue decisioni non siano rimesse in discussione degli enti locali. Sala, peraltro, ha ragione di richiamarsi alla tradizione civica della sua città, allo spirito di accoglienza, alla collaborazione dei suoi abitanti. Ma non tutte le città sono uguali, e soprattutto non tutti i territori hanno le medesime strutture, il medesimo retroterra economico e sociale, la medesima capacità di assorbimento e integrazione della presenza straniera. Non solo, ma anche la preoccupazione per il rispetto della legge prende forme diverse: nelle città e nelle campagne; nelle zone di degrado e nelle aree meglio attrezzate; dove esiste una piccola criminalità diffusa o di strada, e dove invece non si ha la medesima percezione di insicurezza. E così via. Sala tuttavia fa solo un fugacissimo cenno al tema. È vero che le politiche di integrazione non si riducono affatto al tema della legalità, ma è anche vero che il tema non può essere eluso, o sottaciuto. Perché non c’è solo un’offerta politica che si organizza strumentalmente su questi temi: c’è anche una domanda reale, che a torto o a ragione viene formulata, e a cui amministratori e governanti devono dare risposte concrete ed efficaci, in Italia e in Europa.
L’Europa, appunto. Qui le cose sono forse più complicate di come appaiono al sindaco di Milano. Si sa, per grandi linee, che cosa l’Unione Europea deve fare: anzitutto modificare gli accordi di Dublino sulla ricollocazione dei migranti, perché non hanno funzionato e non stanno funzionando. Poi snellire procedure e stanziare più fondi. Quindi potenziare gli incentivi destinati ai Paesi che sono più esposti e più direttamente investiti dalle migrazioni in corso. Infine attuare in loco strategie di contenimento e politiche di stabilizzazione. E in prospettiva pianificare e regolarizzare i flussi, rendendoli anche più sicuri e meno esposti al ricatto criminale.
Ma se l’Europa non lo riesce a fare, è evidente che il fallimento – che Sala denuncia con forza, come del resto ha fatto Renzi al termine del vertice di Bratislava – è evidente che non può non avere conseguenze sulle politiche di accoglienza del nostro Paese. Fermo restando il dovere di salvare il maggior numero possibile di vite umane, come fa l’Italia ad «uscire dall’idea di essere una piattaforma di prima accoglienza» se non c’è un vero accordo europeo di cooperazione? Certo, Renzi continua a dire che l’Italia può farcela da sola: lo ha ribadito anche ieri, in risposta alle sollecitazioni della lettera di Sala. Ma pensiamo davvero che se l’Europa fallisse, non fallirebbe anche il modello di piena accoglienza e integrazione a cui pensa il Sindaco di Milano? E non fallirebbe – prima ancora che nei numeri – nell’idea, nella concezione dello spazio politico in cui ciascuno di noi vive, pensa, lavora? Quello spazio è oggi attraversato da mille problemi, ma non è ancora così angusto da scatenare necessariamente urti e conflitti. Ma sarebbe ancora così, se l’egoismo degli Stati nazionali prevalesse? E l’Unione sopravviverebbe, se si divaricassero ancor più politiche di apertura e di chiusura, riconoscimenti e respingimenti, spazio di accoglienza nel Mediterraneo, e spazio di rifiuto nell’Est e nel Nord del continente?
(Il Mattino, 20 settembre 2016)