Archivi del mese: ottobre 2016

La democrazia del condominio

349c21bae0350ed1eac2cccb7ec54318-kcf-u4324017140016810d-1224x916corriere-web-sezioni-593x443Ma gli immigrati fanno davvero così tanta paura, che quando alle porte del paese si presentano in venti, dodici donne e otto bambini, gli abitanti alzano le barricate per impedire che vengano ospitati in una struttura adibita all’accoglienza? Eppure è accaduto ieri, a Goro, nel ferrarese, e in verità non è che le donne (di cui una incinta) e i bambini si siano presentati così, alla spicciolata, bussando timidamente alle porte dell’ostello. Erano su un pullman, e a metterle su quel bus era stato un provvedimento della prefettura. Ma mezzo paese non le voleva, e il pullman ha dovuto fare marcia indietro.

Si può star sicuri che le persone che hanno chiuso i punti di accesso alla cittadina non ce l’hanno, in generale, con gli immigrati, con gli stranieri, con gli africani o con i musulmani: solo che quei venti lì non li vogliono tra i piedi, accampati sotto casa o due isolati più in là. È molto semplice: quella è casa loro, e di migranti in giro ce n’è già troppi.

Ma, se è casa loro, non è dello Stato. L’autorità dello Stato finisce, o rischia di finire, dove finisce la provinciale che porta a Goro, e di questo passo potrebbe arrestarsi anche dinanzi ad un comitato di quartiere particolarmente rumoroso. Più che la sindrome nimby – quella per cui va bene che le cose si facciano, ma non nel mio giardino– sembra la democrazia del condominio. Sovrana, nel senso letterale del termine, per cui non riconosce autorità superiore, è per l’appunto l’assemblea dei condomini: anche se si presenta il prefetto, anche se c’è una disposizione scritta, anche se si tratta di donne e bambini, la legge del condominio si impone a tutti.

Ora, è chiaro che la questione migranti è una questione assai seria. Non a caso, l’Europa è sottosopra per l’incapacità di gestire il tema. Si costruiscono muri, si sfollano campi, si respingono barconi (non l’Italia: l’Italia no). I governi che provano a dare una risposta più generosa in termini di accoglienza pagano dazio nella cabina elettorale: basta vedere la Merkel. Altri Paesi, come il Regno Unito, trascinati dalla pubblica opinione, mettono a repentaglio la stabilità politica ed economica pur di innalzare frontiere meno permeabili alle ondate migratorie. Anche da noi, ovviamente, cresce la diffidenza, quando non proprio l’ostilità. Gli immigrati delinquono, gli immigrati tolgono il lavoro agli italiani, gli immigrati sono i primi a respingere le politiche di integrazione, gli immigrati, infine, sono potenziali terroristi. Scalare questa montagna di paure non è semplice. E il fatto che spesso siano sovradimensionate rispetto ai dati reali non rende, quelle paure, meno reali. Ma stupisce che le notizie da Goro arrivino nello stesso giorno in cui il Capo della Polizia Gabrielli faccia presente in un’intervista che, a fronte di un incremento record di immigrati, negli ultimi due anni «non c’è stato alcun incremento di reati».

Stupisce, ma anche non stupisce affatto. Perché è evidente che la reazione degli abitanti di Goro è innescata dal semplice fatto della presenza straniera. Che si fa evidente, palpabile, ingombrante, indipendentemente dall’attentato alla sicurezza, fisica o economica. E che, soprattutto, cancella la netta linea di confine che separa per tutti il mio dal tuo, e il nostro dal loro (ma anche il domestico dall’estraneo, e il familiare dallo sconosciuto).

Si fa presto, naturalmente, a dire che a Goro sono mancate l’umanità, la solidarietà umana e cristiana, la pietà e la comprensione. È così, ma è molto più complicato costruire, ben oltre il dramma e l’emergenza di queste settimane, una rete di rapporti sociali compatibile con un’altra delimitazione del campo, un’altra modalità di convivenza, in cui cioè si possano confondere e integrare identità diverse. Una delle principali prestazioni dello Stato europeo è stata quella di dare protezione non solo dai nemici esterni, difendendo le frontiere, ma anche da quelli interni, liberando le strade di ogni sorta di figura di irregolare: pazzi vagabondi criminali e mendicanti. Poi la civiltà europea ha percorso, nei secoli, una strada più lunga e difficile, per affiancare al volto arcigno della forza i tratti più benevoli dell’accoglienza. Ma a Goro (e  non solo là, purtroppo) quella strada è stata chiusa, sbarrata: il pullman non ha potuto avere accesso al paese, nonostante l’ordine del prefetto. Si torna indietro, si chiudono gli spazi. E siccome non è lo Stato a farlo – o, per quelli di Goro – non lo fa abbastanza, lo fanno loro. Lo fa ciascuno nel proprio territorio.Sempre più limitato, sempre più ristretto, sempre più privato. La democrazia del condominio. Che naturalmente, del tratto aperto e inclusivo di una società democratica non conserverà, di questo passo, nemmeno il ricordo.

(Il Mattino, 26 ottobre 2016)

Quelli che dicono no

sondaggi-referendum-costituzionale-1La pubblicazione dei sondaggi, a poco meno di un mese e mezzo dall’appuntamento elettorale, non consente di fare previsioni sull’esito della sfida. Il No perde lievemente terreno ma rimane davanti. I margini tra gli opposti schieramenti del Sì e del No sono tuttavia troppo esigui, perché sia ragionevole considerare già acquisito il risultato. La quota di indecisi è ancora troppo alta, e probabilmente rimarrà tale fino all’ultimo o quasi, visto che una buona fetta di elettori decide nella settimana immediatamente precedente il voto.

I dati disponibili sono tuttavia interessanti, perché riproducono, su un altro piano, una caratteristica strutturale del nostro Paese. L’Italia è un Paese diviso. Lo è stata storicamente e geograficamente, e continua ad esserlo anche nelle manifestazioni di voto sulla riforma costituzionale. I punti percentuali oscillano tra un istituto di sondaggio e l’altro, ma concordano nel delineare le aree anagrafiche, geografiche e sociali in cui vince il Sì oppure il No.

A votare per il No sono infatti in prevalenza i giovani, i meridionali, e i meno istruiti. Con qualche arrotondamento non arbitrario, si possono riunire tutte queste categorie sotto una voce comune: gli svantaggiati. A votare No sono quelle categorie di persone che si trovano in posizione di svantaggio. Se disponessimo di statistiche relative al reddito, avremmo molto probabilmente conferma di ciò (anche perché il gap tra Nord e Sud del paese è innanzitutto relativo alle condizioni economiche):il No cresce con il crescere dell’incertezza e della paura riguardo al futuro, che è tanto maggiore quanto più indietro ci si trova nella scala sociale, nella dotazione culturale, nel potere reale di acquisto. Ciò è particolarmente evidente in relazione ai livelli di istruzione: le analisi OCSE sul valore delle istituzioni educative assegnano ai laureati italiani un premio stipendiale, rispetto a chi si ferma alle superiori, pari a circa il 40%. I diplomati sono dunque più svantaggiati: e infatti votano No. E la percentuale del No cresce ulteriormente tra coloro che posseggono solo la licenza media o elementare.

Quanto ai giovani: il loro svantaggio, rispetto al termine opposto della coppia, agli anziani, c’è, anche se è di carattere dinamico, non statico. Gli uni temono per la pensione, ma sono pur sempre dentro un certo sistema di assicurazione sociale; gli altri non trovano lavoro, e temono che non godranno mai di valide tutele ed opportunità.

Gli svantaggiati, dunque. O anche: i perdenti. Nelle cui file vanno annoverati pure quelli che semplicemente rinunciano a giocarsi la partita (o magari a pensare che la vita sia una partita).

Ora, è chiaro che la fotografia dell’Italia scattata dai rilevamenti degli istituti demoscopici pone un problema non piccolo. Si può infatti intendere così: la sfida della modernizzazione istituzionale non viene raccolta da coloro che sono più indietro: non è per loro e non li riguarda. E dunque essi rischiano di entrare nel nuovo ordinamento repubblicano che la riforma si propone di disegnare solo come un peso, come una zavorra. Formano la parte di coloro che non sono parte del nuovo corso istituzionale. Il filosofo francese Jacques Rancière dà esattamente questa definizione della democrazia: è quel regime del quale partecipano coloro che non hanno alcuna parte nella partizione dei beni, delle cariche o degli onori. Da questo punto di vista, il disegno riformatore rischia davvero di restringere il circuito democratico: non già per il modo in cui regola i rapporti fra governo e Parlamento, o per il modo in cui si eleggerà il Presidente della Repubblica. Le preoccupazioni che si avanzano infatti su questo terreno sono oggettivamente infondate, a meno di non ritenere che avvicinarsi agli altri Paesi europei – che non hanno due Camere che votano la fiducia e hanno in genere poteri esecutivi più robusti di quelli di cui gode il nostro Presidente del Consiglio – configuri comunque una svolta autoritaria.

No, il punto non è questo, ma riguarda piuttosto la possibilità di riconoscimento sociale e politico che le istituzioni del Paese sono in grado di offrire. Certo: alla generalità dei cittadini; ma in particolare a coloro che, non godendo di privilegi censuali, familiari o intellettuali, affidano alla partecipazione politica la possibilità di un’affermazione personale e sociale.È questo il valore democratico dell’uguaglianza, che, evidentemente, la parte svantaggiata del Paese a tutt’oggi non considera che si avvicini grazie alla riforma.

Nel diffondersi di così profondi sentimenti di sfiducia c’è sicuramente una grande responsabilità della classe politica. Non solo italiana ma europea, perché dinamiche simili si registrano anche nel resto del continente, e lo stesso voto di giugno sulla Brexit ne è parso segnato.

La modernizzazione – si dirà –ha i suoi vinti e i suoi vincitori. Ed è così, più o meno ineluttabilmente. Ma i pilastri su cui ha poggiato il progetto moderno formano ancora oggi il suo perimetro. Sono ancora la secolarizzazione, l’individualismo, il mercato, la civilizzazione, l’autonomia della sfera pubblica, la sovranità popolare a determinare l’immaginario sociale moderno, per dirla con Charles Taylor. La differenza vera sembra farla, dunque, non già un mutamento nell’autocomprensione del mondo e di noi stessi, quanto piuttosto l’assenza di un vero investimento, reale e simbolico, sulla politica. Le trasformazioni potenti del mondo sembrano tutte consegnate alla forza impetuosa della tecnologia e dell’economia – o forse consegnate, e perciò alienate, nell’unica ambito capace di rivoluzioni: quello rutilante dello spettacolo – mentre poco o nulla ci si aspetta da una nuova elezione, o più radicalmente, dallo stabilirsi di un nuovo ordine politico. Il No sembra caricarsi dunque di questo significato, ed è davvero la sfida più grande per i sostenitori del Sì: dimostrare che la riforma può essere il principio di un cambiamento reale, in grado di ridare speranza anche a settori marginali della società. Non, insomma, la mossa giocata su una scacchiera di cui gli svantaggiati non comprendono, oppure non vogliono comprendere, le regole del gioco.

Il Mattino, 23 ottobre 2016 (uscito col titolo Perché i giovani hanno paura di cambiare)

Dylan sul monte Moria

16144257-mmmainL’arte di scomparire. Ma non poi tanto, visto che continua a tenere i suoi concerti regolarmente. Bob Dylan non ha dichiarato nulla, dopo che l’Accademia svedese gli ha conferito il premio Nobel per la letteratura. Non ha fatto un plissè: non una piega. Tanto che nessuno sa, a tutt’oggi, se si recherà a Stoccolma per ricevere l’ambito alloro, oppure continuerà imperturbato a suonare e cantare, come se il premio lo avessero dato a qualcun altro. Una traduzione molto poco lirica di questo atteggiamento potrebbe essere: a Dylan il Nobel non fa né caldo né freddo. Tanto poco gli interessa che non si premura nemmeno di farcelo sapere. Philip Roth, eterno candidato, starà masticando amaro, Don Delillo, l’altro grande scrittore americano in odore di Nobel, ha fatto invece il gesto nobile e cavalleresco di commentare e apprezzare; lui, Bob Dylan, no, nulla di tutto questo. Il mondo intero sta lì a chiedersi se sia giusto che venga premiato un cantautore, se è poesia quella che ha bisogno del rinforzo della musica e della voce (e – non dimentichiamolo – del microfono), se non ci sia un cedimento alle ragioni dello spettacolo; lui non se ne cura. Come se la cosa non lo riguardasse. A questo punto, vada o no a ritirare il premio, cambia poco. Andare fino a Stoccolma per tenere il broncio non è il caso: se proprio non gliene frega nulla, se non vuol tenere un bel discorso, se non vuole stringere mani e fare inchini, se ne rimanga pure negli States, difenda fino all’ultimo la sua infrangibile coerenza.

Già, ma che cos’è questa coerenza? Una sorta di rifiuto a piegarsi al corso del mondo? Può darsi, e può darsi anche che sia cosa nobile e giusta. Ma andiamo con ordine: si può rifiutare il premio e tuttavia farlo dichiarando le proprie ragioni, declinandole in pubblico, facendo cioè quel minimo passo che consiste nel riconoscimento dell’istituzione a cui pure ci si sottrae: avere un minimo di garbo, chiedere magari comprensione e rispetto per le proprie scelte, piuttosto che fare supremo sfoggio di noncuranza. Dylan no, non concede nemmeno questo.

L’unica figura che gli si può fare accanto è quella del cavaliere della fede. Il cavaliere della fede è Abramo, a cui Dio chiede di sacrificare l’unico figlio Isacco. Abramo, che ha un rapporto assoluto con l’Assoluto, obbedisce, lascia tutto e sale sul monte per compiere il sacrificio. E non dice una parola: non dà spiegazioni e non ne chiede. È Il filosofo Kierkegaard a sottolinearlo: anche Agamennone, l’eroe greco, è disposto a sacrificare la propria figlia, ma se lo fa è perché abbia fortuna la spedizione per la conquista di Troia. Ma soprattutto Agamennone parla, si esprime innanzi a una comunità, si riconosce in un popolo. Abramo no: lui è solo, abissalmente distante da chiunque non sia il suo Dio. Compie cioè, con la sua fede, una capriola oltre l’etica, oltre le ragioni e i valori universali. Fa una cosa letteralmente incomprensibile, forse persino a se stesso, e perciò rimane muto, senza parole, chiuso in una dimensione assolutamente singolare e impartecipabile.

Ora, un premio Nobel non è un figlio, e Dylan non è Abramo: questo è certo. Né si può pensare che verrà un Angelo a fermare la sua mano (o a sciogliere la sua lingua). Ma siccome l’inflessibile coerenza di cui Dylan sta facendo sfoggio, non modificando di un millimetro la sua agenda quotidiana, è la stessa del patriarca biblico, è lecito tentare l’analogia. Se non altro per capire cosa sta succedendo. Non a Dylan, nella sua testa, non nel teatro della sua mente o dei suoi individualissimi fantasmi, ma a noi, al corso del mondo, cioè allo spazio pubblico in cui ci sono, insieme a molte altre cose, anche istituzioni come i premi letterari. Che quando sono prestigiosi e universalmente celebrati provano a far da segnaposto: a dire dove ci troviamo e che cosa ci sta capitando.

Ecco, per fare un altro esempio: Jean Paul Sartre rifiutò il premio, nel lontano 1964. Ma lo fece rumorosamente e, per dir così, in parole e opere. Mandò addirittura una lettera all’Accademia prima ancora che il premio gli venisse assegnato, con tanto di rispettosissima chiusa formale: «La prego – scrisse al Segretario dell’Accademia – di accettare le mie scuse e di credere alla mia altissima considerazione». Dopo la comunicazione, oltre a dirsi in un’intervista profondamente dispiaciuto, addusse ragioni, rivendicò il ruolo politico dell’intellettuale, si produsse persino in un auspicio per la vittoria del socialismo: non fece, insomma, il mulo, come Abramo.

Dylan ci lascia invece senza una parola. Forse il premio lo ritira (e con il premio l’assegno), forse no. Forse ci sono idiosincrasie talmente personali che non mette conto parlarne. O magari si tratta semplicemente di un carattere brutto e intrattabile. Oppure si vuole dare perfidamente il cattivo esempio: perché altri lo seguano e il premio finiscano con l’essere resi irrilevanti, come persino il Nobel per un tipo, almeno,tosto come lui.

Come che stia la cosa, poiché non è da credere che con Dylan vi sia un dio che lo conduca sul monte Moria invece che a Stoccolma, quel che il suo cocciuto silenzio, la sua ostinata indifferenza mostra, volente o nolente, è che le ragioni dell’uomo, quelle dell’arte e quelle delle istituzioni non ingranano più come una volta, le une con le altre.

«I would prefer not to», dice Bartleby lo scrivano in un celebre racconto di Melville. Preferirei di no: qualcosa di meno di un rifiuto, eppure ostinato quanto basta per mantenere una irriducibile distanza che è, insieme, una sconfitta. Del cavaliere della fede o del corso del mondo? Forse di tutti e due. Perché se il premio è ben dato, allora non ha valore; e se invece ha valore, allora non è ben dato.

Il Mattino, 22 ottobre 2016 (uscito col titolo Il Dylan maleducato che esalta i seguaci)

Sì al referendum, crepe in Forza Italia

acquisizione-a-schermo-intero-19102016-093438-bmpA Pomigliano, Forza Italia, dal sindaco in giù, vota sì al referendum costituzionale del 4 dicembre. E nel resto del Paese? La posizione ufficiale del partito, quella che – per capirci – viene interpretata quotidianamente (e instancabilmente) da Renato Brunetta, è contraria alla riforma. Ma gli argomenti con i quali quella posizione viene spiegata mostrano ogni giorno di più la loro fragilità. Perché Forza Italia è contraria? Perché è una riforma pasticciata? Può darsi, ma allora perché, nei passaggi parlamentari che hanno preceduto l’approvazione finale, Forza Italia ha votato insieme con la maggioranza? Se del resto si fa la storia del testo della riforma, si vedrà anzi che proprio il dialogo con l’opposizione (e con la minoranza interna al Pd) ha contribuito a rendere un po’ meno lineare il disegno iniziale. Dunque che senso ha, ora, farne un capo d’accusa?

Allora sarà perché, nel merito, Forza Italia è contraria al rafforzamento del circuito fiduciario fra Parlamento e governo, che consegue dalla fine del bicameralismo paritario? Proprio per niente. Quando nel 2006 fu il centrodestra a tentare di riformare la Costituzione, si spinse anche più avanti in questa direzione, cercando di introdurre una forma di premierato assoluto – come fu battezzato –. Rispetto a quell’impianto, la legge targata Renzi-Boschi è più timida, e rimane ancora ben dentro l’alveo del parlamentarismo, ma come fa il centrodestra a preferire lo status quo rispetto al passo che la riforma compie in direzione di una maggiore stabilità di governo? Bisogna allora che il motivo stia altrove. È colpa della revisione del titolo V della Costituzione, della ridefinizione dei rapporti fra Stato centrale e enti locali? Può darsi, ma sorprende trovare nelle file del centrodestra difensori dell’attuale dettato costituzionale, che fu imposto a colpi di maggioranza dal centrosinistra nel 2001, e che quasi più nessuno difende. Perché Forza Italia non lascia invece alla Lega il compito di criticare il neocentralismo della riforma, e si riconcilia con un pezzo della propria tradizione ideologica e culturale?

Insomma, da qualunque parte la si guardi, questa riforma costituzionale non sembra scritta per dispiacere all’elettorato di centrodestra: vuoi perché è nata da un accordo ampio, che ha retto alle prime letture in Parlamento, salvo poi essere sconfessato con la rottura del patto del Nazareno; vuoi perché risponde ad alcune esigenze obiettive, da lungo tempo avvertite, e che solo condizioni politiche avverse non hanno fin qui permesso che venissero soddisfatte.

E questo, in realtà, è il punto: la contrarietà di Forza Italia a Renzi è tutta politica, ed è l’equivalente di quella singolare dichiarazione di esistenza in vita che a volte i comuni chiedono ai loro cittadini per astrusi motivi (posto che venga rilasciato ancora un certificato del genere). Per esistere, Forza Italia – o meglio: quel che resta dei suoi gruppi dirigenti – vota no. Ma è un calcolo così poco felice, che Silvio Berlusconi preferisce, in questa fase almeno, non metterci la faccia. Tutti i leader politici sono impegnati  in campagna elettorale: tutti meno Berlusconi. Certo, pesano le condizioni di salute, e una limitata agibilità politica. Ma quale che sia il motivo, sta il fatto che il Cavaliere si tiene molto alla larga dal ring elettorale. E dal mondo berlusconiano – dalla famiglia, dalle aziende del gruppo – vengono segnali che vanno più in direzione di Pomigliano d’Arco che verso i palazzi romani, dove rimane asserragliata l’intendenza di Forza Italia. Il disagio, insomma, è palpabile. La preoccupazione, anche. E la distanza fra la posizione politica presa, e la consonanza con i temi della riforma costituzionale grande abbastanza perché risulti difficile spiegarla se non, appunto, come il pronunciamento politico di una forza di opposizione che ha deciso di puntare tutto sulla caduta di Renzi.

Ma è un calcolo infelice, dicevamo. E per più di una ragione.

Anzitutto, non è detto affatto che Renzi cadrà. Né è detto che, qualora fosse costretto a rassegnare le dimissioni per la vittoria del no, non saprà comunque avvantaggiarsi della situazione che si determinerà, come ha spiegato ieri Calise su questo giornale: quasi la metà dell’elettorato sicuramente (più del 40% delle europee) sarà infatti con lui, e peserà compattamente alle politiche, dove invece le opposizioni saranno assai divise. In secondo luogo, il no significa Salvini e significa Grillo molto più di quanto voglia dire Forza Italia, e un centrodestra moderato e liberale, protagonista della modernizzazione del Paese. Di un centrodestra simile rimarrà anzi molto poco, quando la scena sarà conquistata da leghisti e pentastellati. Infine, il progetto politico che Berlusconi ha affidato a Parisi sarà morto in culla, ancor prima di farsi le ossa in una competizione elettorale. Del resto, si vede già ora che Parisi mastica molto male il no alla riforma, e che la sua voce quasi non si sente, sopraffatta com’é dai comunicati di Brunetta o di Giovanni Toti. Insomma, la ripartenza di Forza Italia poteva stare dentro un patto di riscrittura della costituzione, volto a definire i lineamenti del futuro ordinamento repubblicano. La si è voluta rinviare per un calcolo molto contingente, e di assai più corto respiro: per non dare una mano a Renzi. Quando invece, a ben vedere, era il centrodestra che di una mano aveva, ed ha, ancor più bisogno.

(Il Mattino, 18 ottobre 2016)

 

Emiliano e Dema l’ultima alleanza contro Renzi

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Il gioco dell’oca della sinistra ha dunque avuto inizio un’altra volta. La prima regola per partecipare è ovviamente possedere la pedina da muovere sul tabellone della politica italiana. Che in un gioco competitivo, in cui si vince o si perde, la sinistra si presenti con una sola pedina, questo in verità non è mai accaduto, negli ultimi cento anni. Così, lungi dall’esserci la sola pedina del Pd, c’è, per cominciare, la pedina D’Alema, poi la pedina Bersani, quindi la pedina Cuperlo, infine la pedina Speranza: ciascuna si muove con una propria velocità. A volte un passo avanti, a volte due indietro. A volte fermi per un turno o due. Cuperlo dialoga, D’Alema stoppa; Speranza si sforza di essere possibilista, Bersani rimane piuttosto pessimista. D’Alema stoppa di nuovo. E tutti tornano alla casella di partenza.

Poi ci sono le altre pedine, quelle manovrate da chi sta fuori dal Pd: la pedina Sinistra italiana (a sua volta rappresentata da due sottopedine: da quelli che provengono da Sel e vanno verso il Pd, tipo il sindaco di Cagliari, Zedda, e da quelli che provengono dal Pd e vorrebbero tenersene il più distante possibile, tipo Fassina o D’Attorre), la logora pedina comunista (o post-, o ex-, o ri-: tipo Ferrero, o Bertinotti), la pedina che in ossequio a una vecchia idea potremmo chiamare della sinistra indipendente, formata dagli intellettuali di area, tipo Rodotà o Zagrebelski. Fino a non molto tempo fa, inoltre, sullo stesso tabellone giocavano per alcuni anche i grillini; ma ormai, dopo il connubio della sindaca Raggi con la destra romana, è molto più difficile farne una costola della sinistra. Da ultimo, però, c’è l’importante pedina che potremmo definire civil-rivoluzionaria, in omaggio alla vecchia, naufragata idea del Pm Ingroia (presente al raduno di D’Alema e Quagliariello), ma anche al profilo dei suoi due vistosi portabandiera: Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, e Michele Emiliano, governatore della Puglia. Loro stanno a cavalcioni: uno fuori e l’altro dentro il Pd, ma entrambi passionali e pugnaci, e soprattutto entrambi determinatissimi a mettere la loro esperienza amministrativa a disposizione. Di cosa? Di un nuovo soggetto politico, di una rinnovata partecipazione dal basso, di una nuova e più democratica maniera di fare politica, di una riapertura di dialogo a sinistra, della costruzione di un’alternativa, della ridefinizione, infine, del concetto stesso di sinistra. A disposizione di tutto questo, e del loro personale futuro politico, naturalmente.

Perché il conto è presto fatto: se l’esposizione dei partecipanti al gioco prende metà articolo, qualche problema c’è. C’è un problema portato dal protagonismo di alcuni dei personaggi elencati, ma c’è anche, in realtà, un problema legato a certe idee radicate. Anzitutto la vocazione per l’opposizione, in quanto luogo dove è più facile custodire intatta la propria identità e purezza; in secondo luogo, un modello di democrazia che definire consensualista è fargli un complimento ingiustificato. Bastava ascoltare Zagrebelsky, la sera del confronto con Renzi, dire che vede con un brivido di paura un governo che duri cinque anni (cioè che duri il tempo dettato dalla fisiologia costituzionale attuale, quella che il professore strenuamente difende), per convincersi che non di costruire un consenso ampio intorno alla decisione si tratta, ma di indebolire puramente e semplicemente il momento della decisione. Per lasciarla, evidentemente, in mani più miti e più sapienti: la decisione è infatti la chiave dell’esercizio del potere, ma a Zagrebelski e a certa dottrina non basta che sia un potere democratico, legittimato dal voto; preferisce, piuttosto, che a prendere la decisione siano gli ottimati del sapere (costituzionale, s’intende).

Ora, il gioco dell’oca della sinistra ha un traguardo, il 4 dicembre, fissato dal referendum sulla riforma costituzionale, cioè da Renzi. Ma i partecipanti non corrono, a ben vedere, per far vincere il no in odio a Renzi, ma perché, se vince il no, il tabellone non cambierà, e le pedine potranno rimanere tutte lì: nello stesso, sparso ordine in cui sono abituate a muoversi. Così si giocano, in realtà, due partite. In una, gioca il partito democratico nella sua larga maggioranza. E Renzi, che punta davvero a riporre il vecchio tabellone nella scatola del passato: dal punto di vista dei costumi politici, infatti, ancor prima che dal punto di vista dell’ordinamento della Repubblica e dell’assetto istituzionale, il referendum rappresenta indubbiamente un cambiamento profondo. Un’altra scacchiera. E nuove regole di gioco. Nell’altra, si gioca invece per posizionarsi nello scenario che seguirà all’appuntamento elettorale, qualora dovesse vincere il no.

In quest’altra partita, De Magistris ed Emiliano stanno forse qualche casella più avanti. Riescono infatti a intercettare quell’animus populista, quello spirito anti-casta, quella polemica nei confronti del ceto politico (di cui pure fanno parte, inevitabilmente) che gode oggi di un ampio favore, e che obiettivamente i D’Alema, i Cuperlo o i Bersani faticherebbero a rappresentare. La riforma non li spazzerà via (non spazzerà via nessuno), ma è chiaro che se vincesse il no, i due eroi della sinistra popolare non solo resterebbero in campo ma darebbero ulteriore fiato alla loro ottima e abbondante retorica (e qualche chance in più alle loro legittime ambizioni di recitare su un palcoscenico nazionale).   Che poi una vittoria del no significhi davvero per la sinistra avere qualche opportunità in più e non pescare invece la carta imprevisti, lasciando il tabellone in mano ai Grillo e ai Salvini, questo è più difficile a credersi.

(Il Mattino, 15 ottobre 2016)

La sfida nel Pd e il declino del riformismo

unexpected_meeting_palette_knife_by_leonid_afremovLe prime giornate d’autunno, le prime piogge, i primi freddi, sono il clima più indicato per quei quesiti esistenziali che nei momenti di crisi, o di passaggio, inevitabilmente affiorano. Ma se i dubbi riguardano le scelte politiche, allora non è nelle condizioni atmosferiche che bisogna cercare la ragione per cui compaiono. La Direzione del partito democratico si è conclusa con un voto unanime, ma la minoranza di Bersani, Cuperlo e Speranza ha scelto di non votare: le distanze, dunque, permangono. E il paradosso è che esse riguardano meno, molto meno il merito della riforma costituzionale, che l’Italicum, la legge elettorale. I prossimi giorni e le prossime settimane, comunque, ci diranno se l’iniziativa avviata da Renzi per «togliere l’alibi» alla minoranza interna, sortirà qualche effetto.

Ma se si solleva un po’ lo sguardo da questa partita molto tattica, fatta di mosse e contromosse, di frenate e aperture, di reciproci logoramenti e reciproche diffidenze, si vedrà, in un orizzonte più largo, non il cielo grigio di Roma e le prime foglie gialle, ma lo stato della sinistra riformista in Europa. Uno stato che definire di crisi è usare un tenero eufemismo. In Gran Bretagna, Corbyn sembra rinchiuso in una ridotta sempre più angusta, tanto che spunta di nuovo il nome di Tony Blair come ciambella di salvataggio per un partito sempre più lontano da un profilo di governo. In Francia Hollande è ancora in sella, ma il cavallo socialista pare giunto a fine corsa, e si avvicina l’eventualità di un ballottaggio per le presidenziali in cui la sinistra dovrà ingoiare l’amaro boccone di votare una destra presentabile e repubblicana, pur di fermare l’avanzata del lepenismo. In Germania la Merkel è in difficoltà, ma ad incalzarla  non sono i socialdemocratici. I quali sono da tempo entrati in una logica rassegnata, da «second best»: ipotizzare che possano andare oltre la partnership di minoranza in una grande coalizione è, al momento, complicato. In Spagna, infine, i socialisti sono in una profonda crisi di leadership, ben lontani dal costruire, da posizioni di forza, un orizzonte egemonico. Il resto d’Europa conferma, anzi aggrava questo quadro.

Ma al di là delle problematiche congiunture elettorali, è sul piano culturale che è sempre più difficile capire in che cosa i socialisti europei si differenzino dalle formazioni moderate o conservatrici. In che cosa l’agenda sui temi fiscali, del welfare, dell’immigrazione, della sicurezza, della stessa costruzione politica dell’Unione permetta di tirare un discrimine chiaro e netto.Di che cosa parlano, quali bisogni individuano come prioritari, quali domande sociali, quali interessi e anche quali ideali. Tutti i partiti che aderiscono al gruppo socialista del Parlamento europeo si definiscono progressisti, ma che cosa questa etichetta significhi è perlomeno dubbio: progressista è chi vuole una più stretta unione politica, o chi difende il welfare nazionale? Forse progressista è chi vuole politiche inclusive verso i migranti, e più ampi diritti di cittadinanza, ma allora perché tra i socialisti europei ci sono pure quelli dei muri e dei respingimenti? E l’euro: è stato o no un progresso? Lo si può dire forte e chiaro (e lo si può dire con la stessa forza e chiarezza a Roma, Atene e Berlino)? La  globalizzazione, l’internazionalizzazione dei mercati, le nuove tecnologie: fattori di progresso o seminatrici di paure?

La verità è che, come molti osservatori hanno notato, le linee di faglia lungo le quali si struttura il confronto politico si spostano, ed oggi la linea principale è saldamento presidiata dalle formazioni populiste. Che parlano oggi la lingua a tutti comune: la casta, i costi della politica, la corruzione e l’onestà. A questi temi si aggiungono quelli che articolano i timori di questo inizio di millennio, su cui la destra sembra avere più argomenti: lo straniero, il musulmano, la crisi ecologica, il terrorismo. Qual è invece il lessico della sinistra? Difficile trovare le parole. C’è chi considera questo spostamento di campo – di linguaggi, di emozioni, di convinzioni – un effetto della lenta, ma inesorabile consumazione ideologica dei partiti tradizionali, e chi invece capovolge il rapporto, e ritiene che sia l’emergere di nuove istanze, di nuove soggettività, di nuovi scenari globali ad accompagnare le diverse declinazioni del socialismo europeo verso la porta di uscita della storia. Che sia in un modo o nell’altro, il risultato sotto gli occhi è un pesante ingolfamento della tradizione riformista, che non riesce da tempo a indicare un futuro possibile verso il quale orientare le cuori e le menti di quella specie di umanità – oggi un po’ più rara di ieri – che rimane l’umanità europea.

Certo è ingeneroso usare questo metro lungo per giudicare l’esito della Direzione del Pd, il cui orizzonte era disegnato molto più ravvicinatamente dall’appuntamento di dicembre. Ma se la partita interna si accontenterà di rappresentarsi come la sfida tra quelli che hanno i voti, e spregiudicatamente comandano, e quelli che conservano il senso della sinistra, e molto si dolgono, allora si farà sempre più probabile che il destino del partito democratico si unisca, prima o poi, a quello dei partiti fratelli.

(Il Mattino, 12 ottobre 2016)

Ma il fuorionda non dice di lui nulla di nuovo

trump

Il Grande Fratello e Donald Trump: trovate le differenze. Negli studi del Grande Fratello, col favore della notte, il calciatore Stefano Bettarini sciorina con un certo orgoglio all’amico Clemente Russo, il pugile, quello che ti combina con le donne: linguaggio greve, offese e spacconate, maschilismo e sessismo come se piovesse. Donald Trump, quanto a lui: è un vip vero, e ha pure un bel pacco di milioni, come volete che si comporti un tycoon come lui, con le donne? Come Stefano Bettarini (o forse Bettarini si comporta come Trump: non so). Certo, di mezzo c’è l’Atlantico, e l’elezione del Presidente della prima superpotenza mondiale: non è la stessa cosa chiedersi se Bettarini sia degno di rimanere nella casa del Grande Fratello o domandarsi se Trump sia degno dell’altra casa, quella bianca che sta a Washington, al numero 1600 di Pennsylvania Avenue. Ma tutti e due fanno le stesse battutacce sulle donne, cose che nell’editoriale di un giornale si fa fatica a riferire, anche prendendole fra le pinze delle virgolette.

Dunque non le riferirò. Ma non riferirò neppure quello che si trova nelle mail che scambio con un gruppo di amici rigorosamente maschi, o quel che in anni e anni di onorata carriera sui campi di calcetto più scalcagnati della periferia ho detto e sentito, al riparo da microfoni e telecamere (ho un’età: gli smartphone non stavano in tutte le tasche, o in tutti gli accappatoi). Quel che è certo, è che mi manca un buon numero di requisiti per divenire presidente degli Stati Uniti d’America. Tra questi, il non aver vinto le primarie dei repubblicani o dei democratici, e il non avere un cellulare, una casella di posta elettronica o una rete di amicizie maschili a prova di qualunque captazione.

Dite quel che volete, anzi lo dico prima io: l’ultimo candidato che potrei votare in America è Donald Trump. Tra lui e un democratico – qualunque democratico – sceglierei il democratico. Ma anche se fossi costretto a scegliere fra lui e un repubblicano, o addirittura un Bush a piacere, uno qualunque, preferirei un Bush. Insomma: non ho alcuna simpatia per l’uomo, per il politico, per il personaggio. Ma non riesco a convincermi che la partita delle presidenziali possa essere decisa da un fuori onda di dieci e più anni fa. Né riesco a rassegnarmi al venir meno della differenza fra pubblico e privato. Il caso di Bettarini è diverso: perché lui ha accettato per contratto di stare in un posto dove telecamere e microfoni gli ronzano attorno ventiquattro ore su ventiquattro. Ma Trump no, o perlomeno non gli si può chiedere di accettarlo ora per allora, con il senno di poi.

Mi si dirà però che è giusto che l’opinione pubblica sappia tutto, ma proprio tutto quello che pensa Donald Trump. Ed è vero. Ma ditemi: siete così ingenui dal non aver mai sospettato cosa pensi Trump delle donne, siete così ingenui da aver bisogno del fuori onda? Il punto non mi pare che sia questo, ma se convenga – convenga a tutti noi, non a Trump, che se la caverà egregiamente anche qualora non venisse eletto – che cada definitivamente il sapientissimo velo di ipocrisia con cui abbiamo costruito le società liberali moderne. Siamo arrivati dove siamo arrivati grazie a un buon numero di separazioni: separazione della religione dalla politica e della Chiesa dallo Stato, separazione dei poteri, separazione della morale dal diritto, separazione del cittadino dal borghese, separazione del censo dal voto, separazione anche tra pubblico e privato. Prima di smantellare tutte queste separazioni: non sarà il caso di chiedersi almeno cosa ci attende dopo?

Al diavolo Trump! Magari lo scaricano, magari subentra in corsa il vice-presidente: è il mio augurio all’America. Ma non è il caso di augurarsi, per esempio, che quello che c’è nel mio smartphone rimanga per l’appunto solo mio, senza intrusioni di sorta? Qualche anno fa, in una bella commedia di Paolo Genovese, «Perfetti sconosciuti», tre coppie (più uno) accettano per gioco, durante una cena, di rinunciare alla privacy del telefono: i messaggi saranno letti da tutti, le telefonate andranno in viva voce. Non vi racconto le cose terribili che capitano alle coppie, sotto la dittatura di quella trasparenza assoluta: potete immaginarlo (o comunque vedetevi il film). Ma insomma: senza il diaframma di una vita privata, senza la possibilità di dire bugie, non c’è vita in comune: non coniugale, ma nemmeno pubblica. Non mentire, dice il comandamento. Ed è ben detto: ma se è ben detto vuol dire che devo poter mentire, e che si mi togli la possibilità di mentire mi togli anche la possibilità di essere e valere come uomo.

Forse un Presidente degli Stati Uniti d’America non mente mai. In pubblico: d’accordo. Ma quanto alla sua vita privata, ai suoi costumi sessuali, ma anche solo agli scherzi volgari con gli amici? Sbaglio, o il più mitico presidente degli USA, John F. Kennedy, qualche piccola bugia la diceva, sulle sue marachelle private?

Il fatto è che le parole non se ne stanno più ferme là, dove vengono pronunciate: grazie alla tecnologia, ai dispositivi elettronici, alla rete, stanno ormai dappertutto ed è difficilissimo cancellarle. Capiamoci, però: questo significa che il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America non potrà più essere quel tipo di uomo che ha trascorso una serata tra amici, e l’ha raccontata a qualcuno. Forse è un bene, tanta moralità e purezza. O forse no, forse è meglio meno verità e autenticità, ma più libertà di distinguere fra le parole dette a un amico o a un pubblico ufficiale, in chiesa o in un comizio, in un sms o in un testamento.

(Il Mattino, 9 ottobre 2016)

La politica del ‘lasciar fare’ nel deserto amministrativo

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«Incapacitazione istituzionale»: parole difficile ma concetto semplice. Vuol dire: le istituzioni non sono capaci, non ce la fanno, non riescono a programmare, non hanno una visione, non sviluppano una serie coerente di azioni. In una parola: non governano. Che sia questa la formula vincente dell’autogoverno napoletano?

Non si tratta infatti delle istituzioni in genere ma del Comune di Napoli, negli anni che vanno dal 2011 al 2016. Gli anni di De Magistris sindaco. Il verdetto si può leggere nel rapporto annuale che il Centro nazionale di studi per le politiche urbane, Urban@it, presenta oggi a Bologna. Sette le città prese in esame, e, tra queste, Napoli. Gli autori, Giovanni Laino e Daniela Lepore, scrivono in punta di penna, come si conviene in un lavoro scientifico, depurando l’analisi da giudizi troppo politicamente connotati. Ma chi vuol capire capisce. Fin dalle prime righe: De Magistris è stato rieletto «con una proposta centrata sull’opposizione al governo (Napoli città derenzizzata) e non su bilanci di mandato». Votando De Magistris, gli elettori hanno espresso un giudizio non sulle politiche, non sull’azione amministrativa, ma sui simboli, su un’idea di autogoverno delle comunità locali che dovrebbe addirittura fare di Napoli la capofila delle «città ribelli». Auguri. Ma la domanda, formulata con garbo e senza motivi polemici, arriva subito: le città ribelli, d’accordo, la rivoluzione zapatista anche, ma si saprà occupare De Magistris, almeno in questo secondo mandato, pure dell’«ordinaria amministrazione, fin qui abbastanza trascurata», e di «temi cruciali in stallo da anni»?

Il fatto che il secondo mandato sia, per legge, anche l’ultimo, spinge inevitabilmente il sindaco a guardare oltre Palazzo San Giacomo, in cerca di un futuro politico ancora tutto da costruire, possibilmente su un palcoscenico nazionale. E ciò, ovviamente, non lascia sperare in una maggiore qualità dell’impegno per le periferie o per il welfare municipale. Ma il Rapporto non si preoccupa di formulare prognosi, offre piuttosto qualche elemento di diagnosi. Come procede, allora, la giunta arancione? Ecco il giudizio: «si fa largo uso di politiche simboliche, che ora però non accompagnano programmi o visioni a medio-lungo termine. La narrazione si appoggia piuttosto alle molte micro-politiche e al lasciar fare, non tanto come possibili inneschi di processi più complessi, ma perché l’agire minimale permette di mostrare risultati». Forse la prosa asciutta e quasi anodina di due professori della Federico II non lascia subito vedere cosa c’è sotto le micro-politiche e l’agire minimale. Ma in soldoni significa: il Comune non ha una lira e non mette soldi, la macchina comunale funziona poco e male, si procede dunque a spizzichi e bocconi, condendoli però con una retorica ottima e abbondante: la città liberata, i beni comuni, lo sviluppo sostenibile, la partecipazione popolare e l’autogoverno.

Quanto sia liberata la città – Lungomare a parte – il Rapporto non lo dice. Come sia liberata, però, sì. Lasciando fare. Se i soldi non ci sono, e io Comune non riesco a fare manutenzione, a risistemare spazi, suoli, edifici, quel che posso fare è lasciare che attori ben individuati, che legittimo in nome dell’utilità sociale o della produzione culturale, se ne approprino, li volgano a proprio uso e si regolino per conto loro. Le regole, infatti, le faccio alla bisogna, le procedure le invento ad hoc, e soprattutto i costi, gli oneri e gli obblighi li abbatto o li aggiro di un bel po’.

Che cosa ha che non va, un simile stile di governo? Ai napoletani piace, a giudicare almeno dal consenso di cui il Sindaco gode, e fra le pieghe del Rapporto si capisce che forse piace soprattutto per mancanza di alternative credibili, non consumate da precedenti esperienze politico-amministrative. Ma rimane un ‘idea di governo urbano dal fiato terribilmente corto. Viziata, per l’appunto, dall’«incapacitazione istituzionale», e quasi ignara dei principi di efficienza ed efficacia della buona amministrazione. Come se Napoli, non avendo una tradizione di civil servant, ne potesse fare a meno. Non a caso, rimangono irrisolti tutti i grandi nodi dello sviluppo della città: da Bagnoli a Napoli est, passando per il grande programma del centro storico.

Una cosa però è chiara, anche se nel Rapporto viene detta solo tra le righe: ad onta della ideologia benecomunista, a tenere il governo della città sono un pugno molto ristretto di fedelissimi, di cui il Sindaco si circonda. E ad onta delle strilla contro i poteri forti, quando serve si cercano interlocuzioni riservate ben al riparo di qualunque dibattito pubblico partecipativo.

E così la giunta De Magistris, qualunque cosa abbia davvero scassato, ha finito in realtà col riprodurre quell’antico scollamento fra la napoletanità declamata e la vita effettiva dei napoletani, che da sempre funge da richiamo ma anche da schermo ai problemi veri della città. Come se bastasse far casino, per meritarsi il titolo di creativi o di rivoluzionari. Dalle parti dell’Apple Academy, inaugurata ieri, nessuno, per fortuna, si illude che sia così.

(Il Mattino, 8 ottobre 2016)

Virtù e vizi delle terapie d’urto

pipa

E così quello delle pippe, o delle mezze pippe, è un problema generalizzato, che non tocca solo i Cinquestelle, a cui Vincenzo De Luca dedica spesso le sue affettuosità, ma anche il partito democratico. Così almeno la pensa il presidente della Regione, ed è difficile dargli torto. Nel senso che il partito democratico, in Campania, continua effettivamente a non godere di buona salute. È chiaro che, quando così giudica, De Luca eccettua se stesso, e non v’è chi non capisca quel che dà ad intendere: che una cosa è il partito democratico, un’altra è lui, Vincenzo De Luca. I risultati elettorali, d’altronde, lo dicono chiaramente da gran tempo: De Luca prende voti perché gli elettori premiano la sua esperienza amministrativa, poco importa se sia riconducibile, e in che misura lo sia, al partito democratico o alla metà del campo che occupa il centrosinistra.

Resta il fatto che il Pd non si è ancora riavuto dalla sconfitta alle elezioni comunali di Napoli. Il quadro è infatti, più o meno, il seguente: c’è un pezzo di partito che vorrebbe mantenersi coerente con il tragitto seguito nei mesi dello scontro elettorale, cioè fare opposizione senza se e senza ma a De Magistris. Un altro pezzo, o forse singoli pezzettini, procede invece in ordine sparso. Vuoi perché rifiuta di riconoscersi nella leadership di Valeria Valente, la candidata uscita battuta dal voto di giugno, vuoi perché preferisce ammorbidire i toni per avere una privata (eufemismo) interlocuzione con l’Amministrazione, per un motivo o per l’altro è restio a serrare le fila, e rinvia qualunque discorso di ricompattamento del partito. Poi c’è la grana grande e grossa di Antonio Bassolino, naturalmente, il quale ha tutto l’interesse a dimostrare che il Pd non è in grado di esprimere una proposta politica e programmatica vera, e si auto-elegge interlocutore privilegiato del primo cittadino. Così si fa la sua festa, non invita i compagni di partito ma duetta di buon grado col Sindaco. Che, a sua volta, ha tutto l’interesse a mantenere diviso il campo democratico, e così gli fa volentieri da sponda: nei giorni festivi e forse anche in quelli feriali.

E poi, manco a dirlo, ci sono le correnti, i posizionamenti, le cordate, i notabiliati e i micronotabilati: tutta la fauna, insomma, che Renzi aveva promesso di disboscare con il lanciafiamme, all’indomani delle elezioni.

Ma che fine ha fatto l’arma fine-di-mondo che il premier aveva promesso di usare? Renzi l’ha riposta nel cassetto, forse perché l’impegno nella decisiva partita referendaria gli suggerisce prudenza su tutti gli altri fronti. In particolare su quelli interni. E, in fondo, ha pure lui interesse ad aprire se mai una finestra di dialogo con De Magistris, per demotivare l’elettorato arancione dall’esprimersi con un voto di opposizione al referendum.

Tutto insomma congiura perché sia rinviato a chissà quando il momento in cui rimettere mano al partito. Fra i suoi stessi dirigenti, fra l’altro, non sono pochi quelli che disperano della possibilità di ricostruirlo. Che lo considerano irriformabile. O che ne propongono il reset, l’azzeramento.

Questa sembra essere, peraltro, la ricetta dello stesso De Luca. Che non da oggi, ma da almeno vent’anni imputa ai democratici e alla sua stessa parte politica di non sapere parlare il linguaggio della gente, di deludere le speranze di rinnovamento, e di avere nei propri ranghi «fior di farabutti». I grillini sono solo la conseguenza, non la causa di questa afasia della «politica tradizionale».

Ma il punto di caduta del suo ragionamento – e della sua retorica – è un altro, e viene raggiunto quando chiede al segretario-premier di tirare fuori l’Italia dalla «palude burocratico-amministrativa». Quella della palude è infatti un’immagine a cui De Luca ricorre spessissimo. E che chiarisce anche il principale capo di imputazione che grava su tutte le mezze pippe, grilline o democratiche che siano. Sono tutti degli incapaci. E lo sono prima ancora di essere di destra o di sinistra. De Luca tira una linea: da una parte stanno gli amministratori capaci, dall’altra tutti gli altri. E la gente capisce il linguaggio dei primi, mentre respinge le chiacchiere dei secondi, quelli che quando parlano ti fanno venire «una crisi depressiva».

Ora, è chiaro che questo schema De Luca sa interpretarlo alla perfezione. Che dentro di esso sia possibile ricostruire una comunità di partito, in grado tenere insieme le sue molte e diverse anime è, però, alquanto dubbio. E tuttavia la via alternativa, schiettamente leaderistica, rischia di essere solo una scorciatoia, o il surrogato di una vera soluzione alle difficoltà del partito democratico, alla sua crisi d’identità e di linea politica, se non trova contrappesi in un’organizzazione e in una classe dirigente all’altezza dei compiti. A Roma come a Napoli, forse, il problema è lo stesso.

(Il Mattino, 5 ottobre 2016)

L’Italia paradosso: dice sì alla riforma ma è tentata dal no

sondaggi

Il sondaggio condotto da Ipsos per il Corriere della Sera sul referendum costituzionale del 4 dicembre merita qualche parola di commento. Esso infatti ci dice che il No alla riforma è in questo momento in vantaggio, e che tuttavia la partita è ancora aperta, dal momento che la distanza fra i due schieramenti è molto ridotta (52% per il No contro il 48% per il Sì) ed è ancora molto elevato il numero di coloro che non sembrano orientati a votare, o comunque non danno, allo stato, indicazioni di voto (44%). Ma poi ci dice qualcosa anche sulle motivazioni del voto. Qualcosa di sorprendente. L’istituto dei sondaggi ha provato infatti a verificare le opinioni degli elettori anche sui singoli punti del testo di riforma: se cioè l’elettore sia o no favorevole alla riduzione dei senatori, o a mettere fine al bicameralismo perfetto; se poi condivida la soppressione del CNEL o la modifica della disciplina referendaria o la cancellazione delle province dalla carta costituzionale. Su tutte queste voci, prevale il sì. Naturalmente, si può eccepire che la loro stessa formulazione favorisce una risposta in senso favorevole. E che in questo caso le intenzioni di voto sono poco significative perché pochi sanno. E però colpisce che persino alla domanda sui senatori scelti dai consigli regionali – che com’è noto non godono di particolare credito presso la pubblica opinione, visti i continui scandali raccontati dalla grande stampa  – prevalgono i sì. Infine, la domanda di chiusura taglia la testa al toro: richiesti di dire se siano o no d’accordo con i contenuti della riforma nel loro complesso, gli italiani dicono in maggioranza di sì, di essere molto o abbastanza d’accordo (42%), mentre ad essere poco o per nulla d’accordo è solo il 35%.

Traduciamo: gli italiani approvano i contenuti della riforma, ma esprimono disapprovazione per motivi diversi da quelli di merito, da ciò che la riforma prevede e da come la Costituzione cambia. Vale a dire: dicono di no per motivi puramente politici.

Quel che così emerge è però qualcosa di più radicato e di più profondo di ciò che possiamo constatare anche con i nostri personali sondaggi, chiedendo cioè in giro come siano orientate le persone che conosciamo, che incontriamo al bar o sul luogo di lavoro. Perché è facile verificare che le intenzioni di voto oggi espresse sono molto più legate alla partita politica che si gioca attorno al referendum, che non al cambiamento costituzionale. Si dirà che il premier ha sbagliato a personalizzare il confronto, se non altro perché ha consentito alle opposizioni (diversissime fra loro) di fare fronte comune. Ma al di là dell’errore di comunicazione di Renzi, e della possibilità di correggerlo nel corso dei prossimi due mesi di campagna elettorale, c’è un tratto più fondamentale che in quel sondaggio trova espressione. C’è un’antica faziosità e partigianeria tutta italiana, che gli storici faranno forse risalire ai guelfi e ai ghibellini, ma che sicuramente arriva fino ai nostri giorni. Fino almeno all’antiberlusconismo, che è stato l’ampio cappello sotto il quale a lungo si è accomodata l’opposizione di sinistra al Cavaliere. Ma arriva anche alla bandiera della libertà dal comunismo, che è stata issata dallo stesso Berlusconi ben dopo la caduta del muro di Berlino. E funzionava.

Nell’uno e nell’altro caso, si è trattato evidentemente di vessilli ideologici, di motivazioni di carattere simbolico, in grado di coagulare immediatamente una maggioranza che per le vie faticose del consenso informato – la dico con una metafora medica, visto che il Paese sembra ancora affetto da qualche virus patologico – non era altrettanto facile ottenere.

Vale la pena scomodare la storia, per rimarcare una continuità di costumi politici che attraversa da gran tempo il nostro Paese, ma vale la pena anche rimarcare le discontinuità. È vero infatti che in Italia le due Chiese – quella democristiana e quella comunista  – hanno formato i rispettivi popoli forse più dell’identità nazionale, per cui l’appartenenza a un campo oppure all’altro determinava i comportamenti politici ed elettorali – ma anche, a lungo le alleanze sociali – indipendentemente dalle scelte di merito. Era tutta politica, a danno però delle politiche, cioè delle linee concrete di azione e di scelta. Ma è vero pure che, per un largo tratto, quelle chiese hanno svolto almeno un’azione di carattere pedagogico, formato comunità, fornito una coscienza, elaborato elementi di un lessico politico e culturale che ha portato dentro la vicenda del Paese masse ingenti di uomini e donne. Oggi invece rischiamo di avere, di quel passato ideologico, solo il riflesso condizionato, senza più alcuna sostanza sottostante. Continuiamo a schierarci di qua o di là a prescindere, senza più nessun’altra ragione per difendere la scelta. Non nel merito, ma neppure nella collocazione internazionale, o nella visione del mondo. Che visione del mondo si esprime, infatti, nel far cadere Renzi o nel tenerlo su? Nessuna, eppure la partita rischia davvero di ridursi a questo. Con la stessa semplificazione di un tempo, ma con molta meno ragionevolezza di allora. E con davanti una Costituzione da cambiare o da lasciare così com’è.

Forse il Paese avrebbe bisogno di liberarsi da certe tossine, o forse sarebbe sufficiente che non ne assumesse di nuove. Perché mentre a chiacchiere celebriamo la fine delle ideologie, le uniche forze politiche nuove, che non abbiano radici nella storia repubblicana – cioè la Lega dapprima, i Cinquestelle poi – si presentano come movimenti fortemente ideologizzati, in grado di trangugiare qualunque contraddizione in nome di obiettivi puramente simbolici e significativamente distanti da qualunque realtà (la secessione padana, la democrazia diretta grillina).

Così stando le cose, il compito che ha dinanzi il fronte favorevole alla riforma è veramente un compito storico, perché sarà enormemente complicato portare a coincidenza il sì al merito della riforme con l’espressione di voto finale. Ed è dubbio, a questo punto, che ci si riuscirà solo con il fioretto degli argomenti in punta di penna, o con gli inviti a ragionare con pacatezza sugli articoli del nuovo testo costituzionale.

(Il Mattino, 4 ottobre 2016)

Un primo passo verso la normalità

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De Magistris a Palazzo Chigi. In una storia universale della distensione, dopo gli storici incontri fra un presidente americano e un segretario generale del partito comunista sovietico – come quello fra Eisenhower e Chruŝčëv, nel 1959, o quello fra Nixon e Breznev, nel 1972, o infine quello di Reykjavik fra Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov, nel 1986, che mise fine alla guerra fredda – compito dello storico sarà quello di annoverare la visita a Palazzo Chigi del sindaco di Napoli. Nell’anno del Signore 2016, il giorno ventinove settembre, dopo pranzo, con un tiepido sole. L’uomo che aveva derenzizzato la città, il rivoluzionario zapatista (in salsa partenopea), che mai e poi mai avrebbe accettato di stringere la mano del commissario straordinario di Bagnoli, Salvo Nastasi, si è recato alfine, di buon passo, nella Capitale, e dopo essersi intrattenuto per una mezzoretta con il sottosegretario Claudio De Vincenti, ha partecipato alla riunione di lavoro insieme con l’intera delegazione cittadina che lo accompagnava. A quel tavolo Renzi non c’era, ma Salvo Nastasi sì.

Ed è come se Aureliano Buendia, il protagonista di «Cent’anni di solitudine» di Gabriel Garcia Marquez, non si fosse mai trovato dinanzi a un plotone d’esecuzione, o come se, molti anni dopo, avesse infine accettato riconoscimenti del governo.

Ma qui non c’entra la letteratura fantastica, c’entra Napoli, e la necessità non di capitolare, ma almeno di ritrovarsi dentro un corretto percorso istituzionale che non prevede, a norma del testo unico sugli enti locali, la guerra guerreggiata fra i comuni e il governo. Sullo scontro con Palazzo Chigi De Magistris ci ha fatto su una poderosa campagna elettorale, vincendola. Ha indossato i panni del sindaco di strada, ha fatto sventolare altissima la bandiera dell’opposizione all’Esecutivo, ben oltre la normale dialettica politica. Tutto è durato fino a due settimane fa, quando Renzi venne a Napoli, accompagnato proprio da Nastasi. De Magistris dichiarò in quella circostanza che «tenuto conto della presenza al tavolo in delegazione del Commissario su Bagnoli», gli era impossibile accettare l’incontro col Presidente del Consiglio. Ieri, assente Renzi, è proprio il commissario Nastasi che gli è toccato incontrare, per parlare delle «principali problematiche della città, con particolare riferimento al percorso che dovrà condurre all’elaborazione del Patto per Napoli e alla questione del risanamento e del rilancio dell’area di Bagnoli».

Così recita la nota di Palazzo Chigi, ed è per il premier una soddisfazione non piccola. De Magistris ha riconosciuto la necessità che si procedesse con le bonifiche dell’area di Bagnoli. Da sindaco della città di Napoli, ha ovviamente tutto il diritto, e anzi il dovere, di chiedere maggiore condivisione sulla destinazione urbana di quegli spazi e la loro riqualificazione, ma solo ieri ha finalmente convenuto che tale diritto va esercitato nel dialogo fra le istituzioni, e non nello scontro pregiudiziale.

Forse ha contato, in questa fase, una maggiore disponibilità di Renzi, che deve presidiare il fronte del referendum sulla riforma costituzionale. Forse De Magistris ha sentito il fiato sul collo del governatore De Luca, che da Palazzo Santa Lucia rischiava di tagliarlo definitivamente fuori dai più importanti flussi finanziari che dovranno riguardare la città. Forse i quattro gol del Napoli in Champions League lo hanno comprensibilmente messo di buonumore. Ma che sia per l’uno o per l’altro motivo, o semplicemente perché a un sindaco tocca anzitutto amministrare la città, e non solo tuonare contro «il fascismo del terzo millennio» o innamorarsi del «pensiero disallineato», sta di fatto che il sindaco ha messo da parte la contrarietà di principio alla gestione commissariale – finora alimentata da una tenace politica di ricorsi, volta a bloccare ogni iniziativa di risanamento – e ha scelto di ristabilire un clima di collaborazione.

La città liberata che riempie la retorica del Sindaco può dunque tornare a essere la città governata. Forse. Alle confuse pagine della democrazia popolare possono tornare ad affiancarsi quelle scritte con un po’ di linearità in più dalla buona amministrazione. Forse. E se la piccola mortificazione dell’orgoglio napoletano del Sindaco varrà un soprassalto di serietà nell’esercizio delle funzioni, la visita a Palazzo Chigi, il giorno ventinove settembre dell’anno duemilasedici non sarà trascorsa invano. Forse.

(Il Mattino 3o settembre 2016)