Ma gli immigrati fanno davvero così tanta paura, che quando alle porte del paese si presentano in venti, dodici donne e otto bambini, gli abitanti alzano le barricate per impedire che vengano ospitati in una struttura adibita all’accoglienza? Eppure è accaduto ieri, a Goro, nel ferrarese, e in verità non è che le donne (di cui una incinta) e i bambini si siano presentati così, alla spicciolata, bussando timidamente alle porte dell’ostello. Erano su un pullman, e a metterle su quel bus era stato un provvedimento della prefettura. Ma mezzo paese non le voleva, e il pullman ha dovuto fare marcia indietro.
Si può star sicuri che le persone che hanno chiuso i punti di accesso alla cittadina non ce l’hanno, in generale, con gli immigrati, con gli stranieri, con gli africani o con i musulmani: solo che quei venti lì non li vogliono tra i piedi, accampati sotto casa o due isolati più in là. È molto semplice: quella è casa loro, e di migranti in giro ce n’è già troppi.
Ma, se è casa loro, non è dello Stato. L’autorità dello Stato finisce, o rischia di finire, dove finisce la provinciale che porta a Goro, e di questo passo potrebbe arrestarsi anche dinanzi ad un comitato di quartiere particolarmente rumoroso. Più che la sindrome nimby – quella per cui va bene che le cose si facciano, ma non nel mio giardino– sembra la democrazia del condominio. Sovrana, nel senso letterale del termine, per cui non riconosce autorità superiore, è per l’appunto l’assemblea dei condomini: anche se si presenta il prefetto, anche se c’è una disposizione scritta, anche se si tratta di donne e bambini, la legge del condominio si impone a tutti.
Ora, è chiaro che la questione migranti è una questione assai seria. Non a caso, l’Europa è sottosopra per l’incapacità di gestire il tema. Si costruiscono muri, si sfollano campi, si respingono barconi (non l’Italia: l’Italia no). I governi che provano a dare una risposta più generosa in termini di accoglienza pagano dazio nella cabina elettorale: basta vedere la Merkel. Altri Paesi, come il Regno Unito, trascinati dalla pubblica opinione, mettono a repentaglio la stabilità politica ed economica pur di innalzare frontiere meno permeabili alle ondate migratorie. Anche da noi, ovviamente, cresce la diffidenza, quando non proprio l’ostilità. Gli immigrati delinquono, gli immigrati tolgono il lavoro agli italiani, gli immigrati sono i primi a respingere le politiche di integrazione, gli immigrati, infine, sono potenziali terroristi. Scalare questa montagna di paure non è semplice. E il fatto che spesso siano sovradimensionate rispetto ai dati reali non rende, quelle paure, meno reali. Ma stupisce che le notizie da Goro arrivino nello stesso giorno in cui il Capo della Polizia Gabrielli faccia presente in un’intervista che, a fronte di un incremento record di immigrati, negli ultimi due anni «non c’è stato alcun incremento di reati».
Stupisce, ma anche non stupisce affatto. Perché è evidente che la reazione degli abitanti di Goro è innescata dal semplice fatto della presenza straniera. Che si fa evidente, palpabile, ingombrante, indipendentemente dall’attentato alla sicurezza, fisica o economica. E che, soprattutto, cancella la netta linea di confine che separa per tutti il mio dal tuo, e il nostro dal loro (ma anche il domestico dall’estraneo, e il familiare dallo sconosciuto).
Si fa presto, naturalmente, a dire che a Goro sono mancate l’umanità, la solidarietà umana e cristiana, la pietà e la comprensione. È così, ma è molto più complicato costruire, ben oltre il dramma e l’emergenza di queste settimane, una rete di rapporti sociali compatibile con un’altra delimitazione del campo, un’altra modalità di convivenza, in cui cioè si possano confondere e integrare identità diverse. Una delle principali prestazioni dello Stato europeo è stata quella di dare protezione non solo dai nemici esterni, difendendo le frontiere, ma anche da quelli interni, liberando le strade di ogni sorta di figura di irregolare: pazzi vagabondi criminali e mendicanti. Poi la civiltà europea ha percorso, nei secoli, una strada più lunga e difficile, per affiancare al volto arcigno della forza i tratti più benevoli dell’accoglienza. Ma a Goro (e non solo là, purtroppo) quella strada è stata chiusa, sbarrata: il pullman non ha potuto avere accesso al paese, nonostante l’ordine del prefetto. Si torna indietro, si chiudono gli spazi. E siccome non è lo Stato a farlo – o, per quelli di Goro – non lo fa abbastanza, lo fanno loro. Lo fa ciascuno nel proprio territorio.Sempre più limitato, sempre più ristretto, sempre più privato. La democrazia del condominio. Che naturalmente, del tratto aperto e inclusivo di una società democratica non conserverà, di questo passo, nemmeno il ricordo.
(Il Mattino, 26 ottobre 2016)