Archivi del mese: novembre 2016

Il diktat del sindaco ha due pesi e due misure

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E così il Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ha sferrato in poco più di ventiquattro ore un uno-due micidiale, un paio di colpi – uno sopra l’altro invero sotto la cintola – da far invidia al miglior Cassius Clay. Dunque. Domenica De Magistris è andato a Roma, a piazza del Popolo, a parlare dal palco del «corteo sociale» indetto per sostenere il no al referendum costituzionale. Poi è rientrato, si è cambiato d’abito, e allarmatissimo ha annunciato che avrebbe subito verificato se davvero i vertici del San Carlo siano impegnati nella campagna referendaria perché la cosa, ha tuonato il Sindaco, sarebbe molto grave, e configurerebbe l’utilizzo a fini politici di incarichi istituzionali.

Par di aver le traveggole. La persona che nei giorni festivi sfila nella capitale e colà si perita di chiedere dinanzi alla piazza «costituente e ricostituente» nientepopodimeno che «un governo popolare di liberazione nazionale» (qualunque cosa sia), in quelli feriali bacchetta severamente la soprintendente del Massimo partenopeo, Rosanna Purchia, perché avrebbe partecipato a un’iniziativa a favore del sì al referendum. Cioè: De Magistris può andare il giorno prima al corteo romano, parlare e comiziare, mentre Rosanna Purchia non deve il giorno dopo muoversi dal San Carlo, ed è anzi meglio che stia zitta. Lo impone il rispetto delle istituzioni, dice De Magistris, lo esige la necessità di non strumentalizzare un bene pubblico, anzi un bene comune.

Ora, sarebbe il caso che De Magistris spiegasse meglio che cosa significhi rispetto delle istituzioni e cosa bene comune. A giugno, infatti, la giunta da lui guidata ha approvata una delibera con la quale lui, insieme a tutta l’amministrazione comunale, si schierava contro «la deriva autoritaria» della riforma, colpevole di stravolgere l’impianto istituzionale della Repubblica italiana. Non c’è una legge che lo vieta, ma è perlomeno un atto irrituale, che tra le deliberazioni di una giunta comunale spunti fuori una delibera del genere. Invece, quanto al ruolo tecnico della Soprintendente Purchia, per farsi un’idea si potrebbe far così: passare in rassegna le nomine del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, e chiedersi se le persone chiamate a ricoprire incarichi in forza degli atti a firma del Ministro competente non sia meglio che si astengano dal prendere posizione. Il direttore della scuola archeologica di Atene, ad esempio, come la Purchia nominato con decreto del ministro, può dire pubblicamente se vota sì o no, o lo vieta il decoro della Scuola? E il Presidente e i vice-Presidenti dell’Accademia dei Georgofili: loro possono pronunciarsi? E i componenti della Consulta territoriale per le attività cinematografiche, di nomina ministeriale: tutti zitti? Se valesse il criterio di De Magistris per imporre continenza di parole e forse anche di pensieri al Soprintendente del massimo teatro cittadino, la cosiddetta società civile sarebbe ridotta al silenzio d’un sol colpo. E, certo, in tal caso le parole roboanti di De Magistris, la sua battaglia domenicale per «l’autogoverno, l’autogestione, l’autonomia» e per «un’internazionale dei beni comuni» (qualunque cosa siano) rimbomberebbe ancora di più.

Ma per fortuna il rispetto delle istituzioni è una cosa ben diversa dal modo in cui lo interpreta De Magistris. Che è un ex-magistrato, e dovrebbe sapere che i primi a prendere la parola senza tema di compromettere il loro ruolo e la loro funzione sono i magistrati italiani. I magistrati, non i soprintendenti (o gli accademici di questa o quella prestigiosa scuola). Non solo prendendo la parola a titolo personale, ma impegnandosi come associazione. È il caso di magistratura democratica, che a gennaio ha aderito al comitato per il No. Ora, se è un diritto dei magistrati partecipare alla campagna costituzionale referendaria – sentirlo anzi come un dovere civico, quando è in gioco l’architettura democratica del Paese – diviene difficile pensare che il Soprintendente di un teatro invece non possa. Che rischi lei di gettare nella mischia l’istituzione, e non tutti gli altri che si esprimono in un senso o nell’altro.

A meno che De Magistris non si sia ricordato di essersi opposto, lo scorso anno, alla nomina del Soprintendente, e tutta questa sensibilità istituzionale di cui sembra dimenticarsi quando è impegnato a derenzizzare la città non sia piuttosto qualcosa come un sassolino che ancora gli duole nella scarpa, da quando il cda della Fondazione del Massimo decise di procedere nonostante l’opposizione del Sindaco. Lui vuole toglierlo, quel sassolino, e magari prima o poi gli riuscirà di riprendersi uno di quei «palazzi della collettività» (qualunque cosa siano) che gli altri, a suo dire, occupano. Ma decoro, rispetto, dignità e prestigio delle istituzioni può starne sicuro: non c’entrano nulla.

(Il Mattino, 29 novembre 2016)

Mattarella e la forza della mitezza

bobbio

L’arroganza, la protervia, la prepotenza. E poi, al polo opposto, c’è la mitezza. Quando Norberto Bobbio scrisse il suo fortunato elogio della mitezza, aveva in mente una virtù che doveva anzitutto esercitarsi nelle relazioni personali, come disposizione a non sopraffare l’altro, a non esibire la propria forza. Una virtù che si costruisce trattenendosi, ritirandosi dal potere che si potrebbe usare e che si decide invece di non usare. Una virtù che si attaglia benissimo al ruolo che svolge, nell’ordinamento italiano, il presidente della Repubblica.

In realtà, i giuristi hanno ormai adottato l’immagine coniata da Giuliano Amato, di un potere «a fisarmonica», che si espande o contrae a seconda delle condizioni complessive in cui si trova il sistema politico. E certo, maggiore è la fibrillazione in cui il sistema versa, più è richiesto al Presidente di svolgere una funzione di equilibrio e di garanzia.

Manca ormai meno di una settimana al referendum costituzionale, e forse è il momento giusto per un elogio della mitezza che il presidente Mattarella ha fin qui dimostrato. Non è solo una questione di galateo, o di stile personale ispirato alla sobrietà. Non è nemmeno un nobile esercizio di pazienza o di cristiana rassegnazione. I toni del confronto politico si sono di molto alzati, e non solo perché è aumentato il rumore della propaganda, o perché non sono mancate le grida scomposte e le espressioni ingiuriose, ma perché più volte sono venuti al pettine i nodi politici e istituzionali che, all’indomani del voto, bisognerà che siano sciolti. E il primo a cui tocca disbrigare quei nodi è proprio il presidente della Repubblica.  Ci sarà o no una crisi di governo, nel caso in cui il no dovesse prevalere? E che genere di crisi sarà? Quali saranno i suoi passaggi parlamentari? E quale governo si farà, dopo? Ma anche in caso di vittoria del sì, non è detto affatto che prosegua tranquilla la navigazione di questa legislatura, e le elezioni potrebbero essere già dietro le porte. E il nodo della legge elettorale, sul quale si attende ancora la pronuncia della Corte costituzionale? Il combinato disposto di Italicum e riforma costituzionale è stato presentato da alcuni come un pericolo, che avrebbe dovuto mettere in allarme le supreme magistrature del Paese. Ma anche il combinato disposto di una mancata riforma e di una bocciatura dell’Italicum porta con sé una quantità di dubbi e di incertezze non piccola, e il rischio di un’impasse istituzionale. E gli stessi partiti, che rimangono i primi interpreti della volontà popolare: anche per loro, il 4 dicembre potrà provocare un energico rimescolamento di carte. Non c’è solo il Pd, la maggiore forza politica presente in Parlamento, che andrà a congresso il prossimo anno. Anche il centrodestra non è chiaro quale fisionomia assumerà, e neppure chi lo guiderà (e verso dove). Persino nei Cinquestelle, che appaiono molto più compatti dietro il megafono di Grillo, non è detto affatto che il processo di selezione della leadership non procuri qualche scossone. Deciderà la Rete, dicono con finta ingenuità, come se, siccome decide la Rete, non si trattasse di una vera decisione politica, con tutti i sussulti che ciò comporta.

E quindi: dal prosieguo della legislatura alla tenuta del governo, dalla legge elettorale ai rapporti politici, le incognite non mancano, così come non mancano i punti di applicazione dei poteri del presidente della Repubblica. Ebbene, immaginate che cosa comporterebbe un altro stile presidenziale, fatto di dichiarazioni pubbliche, interviste, magari messaggi alle Camere, e insomma l’esercizio di una moral suasion condotto in pubblico. Immaginate se salissero i giri anche del «motore di riserva» della Repubblica, se la presenza del Presidente fosse avvertita in questi giorni come più marcata, più decisa, più determinata: un putiferio.

Eppure, si potrebbe persino dire che il Presidente ne avrebbe ben donde. Da un alto è indubbio che, da Sandro Pertini in poi, il volume delle esternazioni è progressivamente cresciuto, in corrispondenza con i mutamenti del sistema politico, la diminuita partecipazione, la crisi di credibilità, la frammentazione dei partiti e degli schieramenti, la fine del bipolarismo. In questo confuso scenario, il Quirinale ha assunto negli anni una posizione sempre più centrale, ma anche propulsiva, fin quasi ai limiti dell’iniziativa politica diretta. Dall’altro, il Presidente rimane pur sempre il garante degli equilibri costituzionali, il difensore dei diritti fondamentali e del bilanciamento dei poteri previsto dalla Costituzione: una riforma vasta e incisiva fa necessariamente arrivare fin sul più alto Colle della Repubblica le più diverse sollecitazioni.

Dinanzi a tutte queste spinte, attuali o potenziali, reali o virtuali, c’era materia per dare una curvatura per dir così «governante» alla propria funzione, certo con il rischio di incrinare la stabilità del quadro politico e istituzionale. Mattarella si è ben guardato dall’assumere un simile profilo, mettendo a disposizione la propria forza moderatrice, la propria interpretazione mite del ruolo presidenziale. Ha scelto di pesare il meno possibile sul 4 dicembre. Il Paese ne guadagna una certezza: nessuno mette in discussione che siano in buonissime mani le decisioni che dovranno essere prese a partire dal giorno cinque. Bobbio diceva che compagna della mitezza è la semplicità, «il rifuggire intellettualmente dalle astruserie inutili, praticamente dalle posizioni ambigue». Comunque andrà il voto, la mitezza di Mattarella garantisce al Paese che non saranno percorse strade astruse o ambigue, soluzioni improvvisate o dissennate. E scusate se è poco.

(Il Mattino, 28 novembre 2016)

Chi ha paura (e disprezzo) della politica

A turkey looks around its enclosure at Seven Acres Farm in North Reading

È possibile che nel falò del 4 dicembre si bruceranno molte ambizioni. Se avesse ragione l’Economist, che ieri ha provato a ragionare sul significato del voto referendario e i possibili scenari futuri, è l’intera classe politica italiana che dovrebbe, se non bruciarsi, almeno farsi da parte, per lasciare spazio ad un «governo tecnico ad interim». L’autorevole settimanale britannico, schierandosi per il no al referendum, sostiene che la riforma costituzionale darebbe troppo potere al futuro premier. Giudizio discutibile, naturalmente, ma ancor più discutibile è il paradosso che l’Economist ne ricava. Che cosa succederebbe infatti, se a riforma approvata, gli italiani votassero Grillo alle prossime elezioni? Il timore che la riforma targata Renzi possa fare il gioco dei Cinquestelle spinge il giornale a suggerire la soluzione tecnica: per timore di un ribaltamento degli istituti della democrazia liberale, ad opera dei grillini, si suggerisce di cominciare subito con una specie di commissariamento soft, una sorta di prudente sospensione più o meno concordata, magari etero-diretta da Bruxelles.

Una simile logica è in reale proprio ciò che tiene lontana l’Unione europea dai cittadini. Perché l’argomento dell’Economist consiste in sostanza nel chiedere di sterilizzare gli effetti del pronunciamento elettorale: proprio come si continua a fare, nel tentativo di far passare in Europa riforme che si giudicano al contempo necessarie ma impopolari. Il populismo, in questo schema, è lo spauracchio, ma è anche il contraccolpo dell’ostinazione con la quale nelle capitali europee di perseguono politiche che non sono in grado di conquistare il necessario consenso.

La cosa notevole è però che questa volta è il sì il risultato da sterilizzare. È evidente, infatti, che la deriva autoritaria è un pericolo sovrastimato: l’Economist cita (e mette sgradevolmente sullo stesso piano) Mussolini e Berlusconi, ma sono paragoni del tutto privi di senso storico. Tanto Mussolini quanto Berlusconi arrivano alla guida del governo per la debolezza del sistema politico e istituzionale, e non già perché l’assetto costituzionale del paese ha tolto le garanzie e i contrappesi, facendo spazio all’uomo forte. Nel caso di Berlusconi, poi, era tanto poco forte la sua condizione che nel ’94 il suo primo governo cadde dopo pochi mesi. Dunque il raffronto storico è del tutto improponibile e va rovesciato: è la debolezza che apre la strada, se mai, a soluzioni autoritarie, non già il rafforzamento delle istituzioni.

Perciò la preoccupazione del settimanale sembra avere un altro senso, e cioè che il sì alla riforma metta in circolo troppa energia politica. Per il prudente e tecnocratico establishment dell’Unione è una condizione con cui è meglio non misurarsi.

Ma chi utilizzerà questa energia, sgombrato il campo dai timori per la democrazia (che spingono per paradosso – come si è visto – a mettere tra parentesi la democrazia): ecco ora il tema. Negli ultimi giorni, si è fatto sempre più chiaro che una parte decisiva sul risultato finale può giocarla il Mezzogiorno, e la Campania in particolare. Se tutta l’attenzione si è concentrata sulle esternazioni di De Luca, al di là dei toni esorbitanti, una ragione c’è. La Campania può essere veramente l’ago della bilancia. È come se sui due piatti stessero da una parte il governatore campano, e dall’altra quello della Puglia. Il sì e il no possono decidere chi dei due peserà di più. In gioco c’è sicuramente la rappresentanza delle ragioni del Sud, ma c’è anche il partito democratico e gli equilibri di tutto l’arcipelago della sinistra. È in vista di quei futuri, nuovi equilibri, che a Napoli si avvicinano a De Magistris pezzi del bassolinismo, la Cgil, i dalemiani: tutto quello che può essere manovrato contro Renzi, insomma. Nella stessa prospettiva si muove anche Emiliano, che nella futura partita congressuale proverà a giocare da principale antagonista di Renzi. Tutt’altro scenario si disegna se invece sarà il sì a prevalere, e De Luca a determinare il risultato con il voto campano. I piccoli fuochi si spegneranno, e si aprirà una fase diversa, incentrata sull’asse preferenziale fra il premier e il governatore. Questo è ovviamente solo una parte del significato che avrà il voto del 4 dicembre. Ma è una parte non piccola, perché, al di là dei futuri meccanismi elettorali o del nuovo ordinamento istituzionale, imprimerà un segno forte anche al sistema politico italiano.

(Il Mattino, 25 novembre 2016)

La lotta politica sulla pelle dei malati

monopoli

È civile un Paese in cui un esponente politico chiede l’arresto di un altro esponente politico? È civile un Paese nel quale  il primo – poniamo: un vice presidente della Camera dei Deputati – chiede l’arresto di un altro – per esempio: il Presidente di una importante Regione del Paese –? È civile un Paese nel quale il primo chiede l’arresto del secondo non sulla base di provvedimenti dell’autorità giudiziaria, non previo accertamento della commissione di reati, ma perché ha lui stesso individuato il reato? Perché così va, in questo Paese: il vicepresidente della Camera dei Deputati, Luigi Di Maio, afferma che in un Paese civile il governatore campano, Vincenzo De Luca, dovrebbe essere agli arresti. In carcere. In gattabuia. Forse è l’effetto Trump: in campagna elettorale il candidato repubblicano aveva detto infatti che avrebbe nominato un procuratore speciale per mettere sotto inchiesta la Clinton e farla arrestare. Di Maio è solo un po’ più sbrigativo: direttamente in galera, senza passare per la nomina di un procuratore.

Questa, naturalmente, è soltanto la sua idea di civiltà. Ed è un’idea molto lontana dal livello di civiltà giuridica che i paesi europei hanno raggiunto, più o meno da un paio di secoli. Però Di Maio ci fa il piacere di lasciarci immaginare cosa sarebbe il Paese civile che avesse lui alla sua guida: dopo tutto non è nemmeno un’ipotesi così peregrina, visto che è pur sempre il più papabile candidato premier dei Cinquestelle. Sarebbe un Paese in cui uscite sopra le righe come quelle di De Luca costerebbero la detenzione.

Ma intanto il Paese che abbiamo è questo: un Paese in cui Luigi Di Maio si scandalizza per il linguaggio del governatore campano, e tutto infervorato, e tutto consumato dal sacro fuoco dell’indignazione, ne spara una di gran lunga più grossa. Era infelice la battuta di De Luca sulla Bindi? Certo, lo era. Ed era spudorato il comizio di De Luca agli amministratori locali, con il suo elogio iperbolico del perfetto sindaco clientelare? Sì, lo era. Ma è frutto di una incultura giuridica molto più pericolosa, e di una mentalità intrisa di estremismo giacobino, la più lontana possibile da ogni idea liberale della politica e del diritto, l’incitazione all’arresto di De Luca, da parte di Di Maio? Sì, lo è.

Dopodiché cosa succede? Che in commissione tutto si ferma, e quel provvedimento che doveva modificare le regole del commissariamento straordinario, consentendo di riportare la sanità campana (e quella calabrese) sotto la responsabilità politica del governatore, viene sospeso. Chi se la sente infatti di difendere De Luca, mentre il tribunale dei Cinquestelle ne chiede l’arresto per voto di scambio? Non parlano già di schifezza ed abominio (come se la gestione commissariale di questi anni avesse regalato servizi migliori in qualità e quantità)? È chiaro che ora la materia scotta, ed è perlomeno inopportuno, politicamente parlando, mettersi per questa strada. A pochi giorni dal voto referendario, era difficile sfuggire a questa considerazione. Così anche il ministero della Salute ha cominciato a frenare. E addio emendamento.

Ora che quel che succederà dopo il 4 dicembre nessuno lo sa. Bisogna spiegarlo però ai cittadini campani. E spiegarlo bene, perché la sanità è la gran parte del bilancio regionale, oltre ad essere insieme al lavoro, in cima alla preoccupazione delle persone. Senza l’emendamento, la sanità continua a rimanere al di fuori della conduzione del governo regionale. Ospedali, farmaci, prestazioni: tutto. In un Paese civile, questo non accadrebbe se non in via del tutto eccezionale, e per un tempo molto limitato. In un Paese civile, ci si dovrebbe preoccupare piuttosto di come fare perché i politici rispondano del loro operato dinanzi alla pubblica opinione e, in occasione del voto, all’elettorato. Nel nostro Paese, invece, si risponde a Luigi Di Maio.

(Il Mattino, 23 novembre 2016)

Matteo, Vincenzo e le ragioni dell’alleanza

immagineeeLa partita politica che si gioca sul voto del 4 dicembre rischia di avere il sopravvento su quella istituzionale. In realtà, è evidente da tempo che le due partite sono indissolubilmente intrecciate, ed è difficile immaginare che sarebbe potuta andare diversamente. L’azione di riforma costituzionale intrapresa dal governo Renzi, ma già impostata dal governo presieduto da Enrico Letta, era iscritta all’origine di questa legislatura: pensare che possa risolversi  – qualunque sia lo scioglimento finale – senza coinvolgere le prospettive politiche che si profileranno all’indomani dell’esito referendario è abbastanza ingenuo.

Questo è dunque il nodo sostanziale, da cui dipendono legami, rapporti, alleanze. Così si muovono ormai i protagonisti della campagna elettorale. Così è anche tra De Luca e Renzi. Le cronache dicono che fra i due sarebbe sceso il gelo, dopo le frasi indifendibili del governatore campano su Rosi Bindi,e dopo le apostrofi schiette fino alla brutalità, da lui usate per mobilitare sindaci e amministratori locali. Il tour elettorale di Renzi, che è di nuovo stato in Campania, non ha portato infatti il governatore e il premier di nuovo l’uno accanto all’altro: imbarazzo, prudenza, o presa di distanza? Forse nessuna delle tre. O forse meglio: nessuna delle tre condotte tocca il nodo vero, che dipende molto meno dalle parole usate in questi giorni e molto di più dai rapporti di forza che il voto referendario consentirà di misurare.

De Luca, infatti, non ha smesso un solo istante di fare campagna elettorale. E andrà avanti così, fino all’ultimo giorno utile. Figuriamoci se si lascerà infastidire dalle critiche che ha ricevuto in questi giorni, in privato e in pubblico, o da una stretta di mano mancata. Il suo obiettivo è chiaro: quali che siano le percentuali che il sì riuscirà a raggiungere il 4 dicembre, la Campania deve stare al di sopra di quelle percentuali. E più starà al di sopra, più sarà l’ago della bilancia, meglio De Luca dimostrerà non solo il consenso di cui gode, ma che – ancora una volta – quel consenso è anzitutto merito suo. Poi, certo, non è la stessa cosa: se il sì vince, Renzi rimarrà ancora a lungo il dominus della situazione, e De Luca avrà da trattare con lui, sulla base del risultato campano. Se invece vince il no, si giocherà in un futuro non lontano la rivincita delle elezioni politiche: a scadenza naturale o anticipata, con o senza una nuova legge elettorale, con o senza un governo di scopo, o di transizione, ma in ogni caso con Renzi ancora in campo a guidare il fronte del cambiamento. E De Luca a dettare le sue condizioni per sostenerlo.

Insomma, sia Renzi sia De Luca non hanno scelto di amarsi e onorarsi per tutti i giorni della loro vita. Non lo hanno scelto ieri, né lo avevano scelto un anno fa. Checché se ne dica, i due non si somigliano affatto, né a quanto pare vogliono somigliarsi. Le parti sono assegnate e ognuno fa il suo: Renzi vuole essere il perno di un sistema politico nazionale rinnovato, e De Luca vuole essere il rappresentante degli interessi meridionali nel nuovo assetto istituzionale. Ma, per il resto, i due non hanno la stessa cultura politica, non provengono dalla stessa storia, non hanno la stessa età e probabilmente nemmeno gli stessi gusti. È vero che in entrambi non si trova più la fraseologia tradizionale della politica italiana, ma la nuova non è fatta con lo stesso impasto. De Luca non cessa di dimostrare che ha la forza per andare avanti senza perdere tempo – a volte senza neanche prendersi il disturbo di far valere le proprie migliori ragioni –;  Renzi, dal canto suo, tiene alle ragioni del suo progetto politico, ma certo non ignora che ha bisogno di forza per portarle avanti.

Soprattutto al Sud. La rottamazione ha comportato un ricambio politico di classe dirigente a livello nazionale, e i D’Alema e i Bersani ne hanno fatto le spese. Ma nelle diverse realtà locali, e in particolare nel Mezzogiorno, non è andata nello stesso modo. Le sue primarie, anzi, Renzi le ha vinte proprio grazie all’appoggio di pezzi di partito, amministratori e sindaci che hanno trovato in lui l’unica risposta credibile ai Cinquestelle (e spesso anche l’unica maniera possibile per rimanere a galla). Però, al di là delle reciproche convenienze e delle personali ambizioni, il combinato disposto di Renzi a Roma e De Luca a Napoli finora ha dimostrato di funzionare. De Luca porta in dote un consenso e una popolarità larga, che Renzi non si sogna di turbare, e in cambio chiede un’attenzione speciale per la Campania – in termini di risorse e investimenti – che il governo non gli fa mancare.

Chi usa il termometro per misurare la tenuta dell’accordo politico fra i due non registrerà bruschi cambiamenti: non siamo alle basse temperature oggi, come non si scaldavano i cuori ieri. Siamo invece nella regione temperata dell’accordo, della mediazione, dello scambio, dove si coagulano interessi e forze sociali, istanze collettive e, anche, identità nazionale. Non è un male, e neppure un bene: è il materiale di cui è fatta la politica, e che può svoltare tanto nel senso del cambiamento, quanto nel senso della conservazione.

(Il Mattino, 21 novembre 2016)

La lezione di Croce

acquisizione-a-schermo-intero-19112016-195150-bmpAntonio Gramsci, Norberto Bobbio, Enzo Paci, Eugenio Garin: la tradizione comunista e quella liberalsocialista, il pensiero fenomenologico ed esistenzialista della scuola milanese e l’umanesimo civile della grande tradizione storiografica italiana: non si tratta, in senso stretto, dell’eredità crociana, ma una mappa del pensiero italiano del Novecento non può non organizzarsi intorno a questi nomi, e tutti non possono essere letti né essere compresi se non nel confronto e finanche nella contrapposizione al pensiero di Benedetto Croce. È in questo modo che Biagio De Giovanni ci avvicina all’appuntamento di lunedì prossimo quando, nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, terrà la sua prolusione sul concetto speculativo della libertà in Croce, in occasione dei 150 anni della nascita del filosofo e dei settant’anni di vita dell’Istituto. Perché questo tema? De Giovanni è seduto, si schiarisce un poco la voce, quasi sembra chiedere scusa per la complessità e la densità dei problemi che si prepara ad affrontare e comincia a rispondere. Ma le sue non sono risposte, sono ragionamenti lucidi e serrati, interrotti solo da qualche miagolìo del gatto che si muove nei paraggi, l’unico autorizzato a interromperlo.

Il titolo della mia prolusione nasce da una recente rilettura di alcune pagine crociane, che risalgono al 1941. In particolare di un saggio, ripubblicato in un’appendice al Contributo alla critica di me stesso, in cui Croce dice: noi abbiamo ancora bisogno di una teoria speculativa della libertà. Abbiamo bisogno cioè della filosofia, non ci basta più una libertà che scorre tranquillamente negli eventi; non ci basta più la storiografia. Il che, detto da lui, che aveva sostenuto più di ogni altro l’esaurimentodella teoresi, cioè della filosofia, nella metodologia della storiografia, non è cosa da poco. Questa necessità di isolare speculativamente il tema della libertà, nel momento più alto della crisi della coscienza europea, mi ha molto colpito.

Colpisce anche me, e ti ringrazio per aver ricordato quelle pagine, tra le più problematiche – se capisco – del pensiero di Croce. Che la filosofia non si esaurisca nell’esercizio storiografico mi pare una breccia assai significativa nel pensiero di Croce.

Per lui il momento della storiografia è il momento della sanità del mondo, il momento in cui il mondo non ha bisogno della filosofia. La filosofia per Croce è qualcosa che interviene nei momenti di scissione, di malattia. La storiografia è il momento più disteso.

Il titolo della tua prolusione richiama però alla mente anche la critica di Bobbio, che in un saggio sul liberalismo di Croce lamentava l’indifferenza del filosofo verso la dimensione empirica della libertà.

Quel celebre saggio di Bobbio, uscito solo qualche anno dopo la morte del filosofo napoletano, imputava a Croce di non aver preso nulla dal pensiero anglosassone, da quei paesi nei quali storicamente la libertà e la democrazia si erano realizzate. Ma Croce aveva già risposto ante litteram. Lo aveva già scritto: la libertà è stata vissuta in chiave  empirica e utilitaristica, ma è stata pensata speculativamente soltanto in area tedesca.

Ma cosa significa pensare speculativamente la libertà, per Croce?

Cercherò di dirlo dopodomani, all’Istituto. Provo però a spiegarmi in questo modo: è una sorta di condizione trascendentale della storicità, di potere costituente della storia.  È la libertà nella sua liberazione dall’empirico.

Traduco a mia volta: una dimensione non orizzontale ma verticale della libertà umana; non una proprietà dell’uomo, ma una condizione che rende pensabile la sua stessa umanità.

Forse ci intendiamo. La storia ha bisogno di una condizione che ne rende possibile la leggibilità, altrimenti diventa un’avventura senza senso. Mettere come principio della storia la libertà, senza cedere a disegni finalistici o provvidenzialistici: questa l’operazione di Croce.

 

In che modo però questo tema passa nella filosofia italiana? Se c’è un tratto portante del pensiero italiano, è proprio il suo rapporto con la storia, in cui tuttavia la filosofia sembra a volte essersi risolta senza residui. Dove rimane invece aperta quella breccia, che tu vedevi aprirsi già nell’ultimo Croce, per cui il nostro non è soltanto un destino epigonale, di chi deve rimuginare i pensieri altrui senza aver più molto da pensare per dir così in proprio, all’altezza di questo tempo? Non è questo un rischio che la cultura filosofica italiana non ha sempre sventato?

Il tema è complicato. Io penso che l’erede vero dell’interpretazione del rapporto fra storia e filosofia che ho provato a proporre non è un filosofo in senso professionale. È Antonio Gramsci. Il suo Anti-Croce è il più alto monumento a Croce che sia stato costruito nel pensiero italiano del ‘900. È così intrinseca l’eredità crociana, pur nella critica e nell’opposizione, che non potremmo intendere l’uno senza ricorrere all’altro.

E dopo Gramsci?

Dopo Gramsci, o a lato, entrano in campo altri autori, nel pensiero italiano: Heidegger, Nietzsche, l’esistenzialismo. Io penso però che sia ancora utile guardare al modo in cui la lezione di Crocepassava nella riflessione di un pensatore importante come Enzo Paci. Croce, nel confronto con Paci, cercava di difendere il terreno della storicità come un terreno distinto dal terreno dell’esistenza.

Eppure il suo pensiero continua ad agire, per dir così, nei suoi rovesci. C’è una presenza di Croce anche nelle punte più critiche: l’alto liberalismo italiano, che attraversa molte zone della filosofia politica italiana, ha Croce come punto di riferimento: dialettico e per contrapposizione, come per esempio nel Bobbio che ricordavamo prima.

E poi c’è il confronto con Gentile e la scuola gentiliana.

Certo. È difficile sopravvalutarne l’importanza. I due autori pensano gli stessi problemi, ma con effetti diversi sulla filosofia e la vita politica e culturale della nazione. E non solo perché Croce diventa, in risposta a Gentile e al suo Manifesto del fascismo,  la guida dell’intellettualità italiana antifascista. Croce finisce così col trovarsi a una distanza incolmabile non solo da Gentile, ma anche dall’altro grande filosofo della prima metà del ‘900, Heidegger.

Dove possiamo meglio misurare questa distanza?

Nella sua Storia d’Europa nel secolo decimonono.LìCroce dà la risposta più alta ai totalitarismi del Novecento. L’irruzione della religione della libertà nella Storia d’Europa (siamo nei primi anni Trenta) è decisiva per la cultura antitotalitaria in Europa. Nel secolo più metafisico che l’Europa abbia vissuto, Croce si troverà sempre su un altro versante, con la sua idea liberale. Non c’è nessun altro grande pensatore, in Europa, che abbia avuto un ruolo paragonabile a Croce in quegli anni.

Dal bilancio non possiamo tener fuori un altro grande pezzo della cultura italiana che è legato non solo a lui, ma persino a questi luoghi, a Palazzo Filomarino, alle stanze dell’istituto. Penso al magistero storico di Croce.

Naturalmente. Si tratta di una tradizione storiografica di grandissimo valore, che viene tutta da Croce. Maestri come Giuseppe Galasso ne dimostrano tuttora la grande ricchezza. È un filone di cultura alto, non filosofico in senso stretto, che nasce da un’idea di storiografia etico-politica squisitamente crociana, e in cui si afferma l’idea di un’articolazione del pensiero nella grande opera della storiografia, che dipende dal ciclo delle Storie scritte da Croce

De Giovanni fa una pausa, e prova a riordinare i pensieri esposti. Nonostante una fastidiosa sciatalgia. E nonostante il gatto.

C’è dunque il filone gramsciano, che è andato poi a influenzare tante zone del pensiero italiano anche oltre il gramscismo; poi c’è il filone alto-liberale; poi c’è la grande storiografia. E c’è tutto il campo delle letture vichiane, che ha ravvivato la tradizione storicistica italiana e europea, non solo napoletana.

Un altro snodo nell’albero genealogico della cultura italiana del Novcento è Eugenio Garin. Gentiliano, ma che discute Croce, anche attraverso Gramsci. È Garin che trova in Croce due anime, quella storica e quella logica, e opta decisamente per la prima, meno gravata da filosofemi e fraseologie speculative: da residue scorze teologiche.

Quando incontra il pensiero di Gramsci, quando scrive La filosofia come pensiero storico, Garin sposta certi suoi accenti in direzione di Croce. Ma è indubbio: lui fa parte di quella generazione che di Croce valorizza soprattutto la straordinaria opera storica, ma mette fra parentesi e in certo senso svaluta quella condizione trascendentale della storiografia di cui parlavo prima.

Quello però che non trovo nella sua ricostruzione del paesaggio culturale e filosofico italiano è il motivo della polemica contro l’ottimismo delle filosofie neo-idealistiche

Ma il topos del Croce ottimista, erasmiano, è frutto di una cattiva lettura che ha contribuito, purtroppo, a un certo oscuramento della presenza di Croce. Croce è un pensatore tragico. Nel fondo della storia umana c’è per lui una forza vitale, selvatica. E ambigua. Che può sempre riaffiorare con violenza. In Croce c’è una doppia idea della vita. C’è un’idea umanistico-goethiana, e c’è un’idea biologistico –darwiniana.Ma questo sempre, non solo nell’ultimo Croce. Basti pensare alle pagine conclusive della Filosofia della pratica, che è un testo che fa ancora parte del primo sistema della filosofia dello spirito, e che finisce con il celebre passaggio sulla vita «che è vero mistero». Dopo aver cercato di chiudere nelle categorie della storiografia la storicità, questa immagine della vita con la V maiuscola torna in campo come uno sfondo irresolubile e irrisolto.

Altro tema sul quale è ineludibile il confronto con Croce è quello dell’Europa.

Vale per Croce quello che vale per tutto il grande pensiero europeo fino ai primi del ‘900, vale cioè l’idea di una coincidenza fra civiltà e civiltà europea. Dietro Croce c’è l’Europa: quando lui parla di tornare alla filosofia, è perché ha l’impressione di trovarsi dinanzi a una profonda crisi della civiltà. Il fiore che fiorisce sulla roccia e che un colpo di vento può gettare via, come recita una sua celebre pagina. È il tema della finisEuropae, di una crisi che tocca però la struttura stessa dell’umanità. Croce ha però la lucidità per immaginare la possibilità di un’unificazione europea, di un’Europa in grado di ricostruire la sua unità, di fare sintesi.

Si può allora cominciare a rileggere Croce di qui? Se dovesse indicare a un giovane quale libro prendere innanzitutto, in un lascito di decine di migliaia di pagine, da dove suggerirebbe di cominciare?

Tutto sommato gli suggerirei proprio la Storia d’Europa. Per un giovane, è il libro che fa più fremere qualche nota di attualità: sia per l’epilogo, sull’idea di una possibile unificazione, sia però per la drammatica problematicità di una storia carica di contrasti e di lotte.

E infine, se dovessimo fare anche per Croce il gioco di ciò che del suo pensiero è vivo e di ciò  che è morto?

Vivissimo il tema della storicità – tema declinato in tutto il pensiero europeo a lui coevo – che oggi formulerei in una forma persino inquietante: ci possiamo ancora considerare esseri storici? Tema vivo e oltremodo problematico. Morto è forse qualcosa che Croce stesso mette in questione del suo proprio percorso, e dico il rapporto fra storia e storiografia. È già l’ultimo Croce che mette in crisi certe soluzioni sistematiche del suo pensiero. È già in Croce, come dicevo prima, che entra in crisi il rapporto fra vita e storia. Questo non significa che in Croce vi sia un esito di tipo biopolitico. Croce non ha mai una visione in cui la storia si riduce o si concentra nella vitalità. È se mai il contrario, è la voce della filosofia e dell’alta etica che combatte ogni possibilità di una riduzione biopolitica. E questa è una lezione con cui dobbiamo ancora confrontarci.

(Il Mattino, 19 novembre 2016)

La democrazia del fuori onda

maxresdefaultLe parole di De Luca, a proposito della lista degli impresentabili stilata dalla Presidente della Commissione Antimafia Rosi Bindi – «quella è stata una cosa infame, da ucciderla» – sono appena una tacca al di sopra del livello che l’eloquio del governatore raggiunge, nell’imitazione che ne fa spesso Maurizio Crozza. Sono un’enormità, sono letteralmente indifendibili. E infatti De Luca non le ha difese, ma ha denunciato il comportamento del giornalista, che avrebbe prima chiuso l’intervista e poi stuzzicato la vanità del governatore. Che ridendo di gusto alle provocazioni di un altro che va volentieri sopra le righe, Vittorio Sgarbi, se ne è uscito con quell’espressione veramente infelice.

Ora si contrappongono due versioni: quella di De Luca, che accusa il giornalista di avere scorrettamente raccolto le sue parole in libertà; e quelle del giornalista, per cui invece tutto è andato nel più corretto e professionale dei modi. A guardare il video, in verità, si comprende abbastanza chiaramente che si tratta di un fuori onda. Di una trappola, di quelle che i giornalisti tendono per far «cantare» qualcuno. Del resto, De Luca si lascia andare anche ad un’altra coloritissima espressione, a proposito dei gesti apotropaici che esegue quando Salvini compare in tv: come non ravvisarvi una conferma di quanto poco De Luca pensasse, in quel momento, di essere ripreso?

È evidente quel che è accaduto: De Luca pensava di parlare in privato e invece ora le sue parole sono pubbliche; lui pensava di poter esprimersi in tono confidenziale, e invece il suo interlocutore stava ancora lì, con microfoni e telecamere, nell’esercizio della professione; lui pensava di potersela ridere e invece il giornalista faceva sul serio; lui credeva di poter usare un’iperbole e invece le sue parole, del tutto fuori contesto, vengono ora commentate come se andassero prese alla lettera. Ne è seguita una giornata intera di dichiarazioni, richiese di scuse, espressioni di solidarietà, precisazioni, giustificazioni, prese di distanza.

E commenti, in cui l’indice è ovviamente puntato contro le sparate di De Luca. Il quale in molte occasioni se le cerca. È lui che affibbia nomignoli e soprannomi, fa le caricature degli avversari politici, chiama gli uni mezze pippe e gli altri pinguini: la delucheide è ormai un genere letterario che ha i suoi cultori, i suoi estimatori e i suoi detrattori. È un pezzo della sua popolarità, quella che gli procura l’onore di essere tra le imitazioni meglio riuscite di Crozza. D’altra parte, il giornalista non intervistava De Luca sul tema del «politicamente scorretto», di cui lui sarebbe, in Italia, il campione, come in America lo è Trump? E lui non si è prestato con qualche compiacimento al paragone, salvo ironizzare pure sul parrucchino, o forse sul «nido di cinciallegra» che il presidente americano avrebbe al posto dei capelli? A onor del vero, le esuberanze linguistiche non toccano di regola, nel caso di De Luca, i temi sensibili dei diritti e delle minoranze, ma gli avversari politici, e questa fa una qualche differenza.

Ma in gioco ci sono anche altre differenze. Un conto è parlare in via ufficiale, un’altra è parlare off the record. Un conto è sapere che le parole saranno riferite, un altro è ignorarlo, o magari essere esplicitamente o implicitamente essere rassicurati del contrario. Un conto è parlare dopo il primo ciak e prima dell’ultimo, un conto è essere inseguiti da microfoni e telecamere anche quando se ne vorrebbe essere liberati.

Come molte altre distinzioni, anche queste tendono a cadere, insieme a molte altre che dovrebbero regolare i rapporti fra sfera pubblica e sfera privata, ma anche tra politica e giornalismo. Si dice: ai politici piacerebbe che i giornalisti se ne stessero buoni dietro robuste transenne, alle quali benevolmente avvicinarsi come e quando aggrada per dare sempre solo la “versione ufficiale”. E invece il giornalista deve mettere il naso dappertutto, deve fare il cane da guardia del potere: «con forza, vigore e senza impedimenti» diceva Benjamin Franklin, dimenticandosi forse di aggiungere l’astuzia.

E tuttavia non è così che stanno ormai le cose. Perché, da una parte, sono sempre più i politici a cercare le telecamere, come le falene la luce (e a volte, immancabilmente, si bruciano), e perché, dall’altra parte, non è affatto il fuori onda, non sono le parole dal sen fuggite il vero retrobottega della politica, dove scovare le sue inconfessabili verità, ma solo la continuazione dello spettacolo con altri mezzi.

Poco male? Non proprio. In gioco non ci sono le imitazioni di un politico da condividere, e neppure le violenze verbali da condannare. C’è proprio il fuori onda, cioè quello spazio della vita che si tiene fuori dal proscenio, e che è, per tutti, uno spazio di libertà. Lì De Luca si lascia andare a espressioni poco riguardose e ciascuno di noi, ammettiamolo senza ipocrisie, ne dice di tutti i colori. Bonificare quello spazio con la luce potente dei riflettori non uccide solo lo sporco, toglie di mezzo pure noi stessi, i nostri piccoli segreti e le nostre grandi fragilità.

(Il Mattino, 18 novembre 2016)

Se Forza Italia non ha un erede

acquisizione-a-schermo-intero-19112016-192038-bmp«Nel centrodestra c’è un unico leader e un unico federatore, ed è Silvio Berlusconi». A dirlo è Renato Brunetta. E a quanto pare è vero. Neanche Parisi ce la fa. Ma quello che ai bei tempi era il punto di forza del centrodestra – l’insostituibile carisma del fondatore di Forza Italia – è, ormai da un bel po’, un drammatico punto di debolezza: l’incapacità o forse persino l’impossibilità di costruire un’alternativa al leader di Arcore, almeno finché in campo c’è lui.

Se si mettono infatti uno dopo l’altro tutti quelli che hanno provato a raccogliere la successione del Cavaliere, per investitura diretta o lanciando un guanto di sfida, si rimane impressionati. Ci ha provato Umberto Bossi, il gran capo della Lega. Ci ha provato Gianfranco Fini, il gran capo della destra nazionale post-fascista. Ci hanno provati quelli della generazione successiva: gli Angelino Alfano e i Raffaele Fitto, trasmigrati altrove, e con poca voglia di frequentare ancora Palazzo Grazioli. Poi ci sono quelli a cui ha pensato Berlusconi medesimo. Alfano, per il Cavaliere, non aveva il quid, così lui ha creduto che ce l’avesse Giovanni Toti. Che è stato in campo il tempo necessario per candidarsi in Liguria e mettersi in proprio, gravitando sempre più dalle parti della Lega. Allora è stata la volta di Stefano Parisi, che ha ben impressionato il leader di Forza Italia nella campagna elettorale per il Comune di Milano. Ma ieri è arrivato lo stop, che sa tanto di bocciatura definitiva: Parisi non ne vuole sapere di «quella roba» populista e xenofoba che Salvini rappresenta, e allora Berlusconi lo scarica: siccome il centrodestra lo si deve fare per forza anche con Salvini e con la Meloni, cioè con la destra-destra che guarda a Trump e a Marine Le Pen, il moderato e riformista Parisi non va più bene.

Contateli: sicuramente sarà sfuggito qualcuno, ma se ai già nominati aggiungete tutti gli uomini del Presidente – i professori della prima leva di Forza Italia, come Pera e Urbani, o i fedelissimi come Bondi, Verdini e Cicchitto, arrivate a un numero ancora più grande, e più impressionante. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno dovuto mollare. E se Piersilvio e Marina si sono rifiutati di scendere in campo per raccogliere l’eredità del Padre, è forse perché è parso loro evidente chi fosse, in politica, Silvio Berlusconi: Crono che divora i suoi figli. Crono che prova a sfuggire al suo destino, cioè all’ordine naturale delle cose. Perché Crono è il tempo, e necessità vuole che, col tempo, il figlio succeda al padre, e che il padre si faccia da parte. Ma così, nel centrodestra italiano, non riesce a andare.

Dalla parte di Berlusconi sta il fatto che Forza Italia è nata in maniera del tutto artificiale, fuori dalle culture politiche consolidate del Paese. E ancora più artificiale è stata la costruzione del centrodestra, che solo l’invenzione del Cavaliere ha consentito di tirar su, nonostante fosse contro natura l’incontro delle sue componenti: il federalismo e il nazionalismo, il populismo e il riformismo, i socialisti e i democristiani d’antan, un certo laicismo liberalsocialistama anche il tradizionalismo cattolico. Così, se nel mito alla fine la natura torna a imporsi – Zeus sfugge al padre Crono e ne rovescia il regno, stabilendosi sul monte Olimpo – nell’eredità politica berlusconiana non c’è nessun nuovo leader, come ha detto Brunetta, in grado di fare la stessa cosa: ammazzare il Padre, o almeno relegarlo in un angolo. Nella Lega a Salvini è riuscito; nella destra finiana pure (bene o male): in Forza Italia non c’è modo.

Intendiamoci: la doccia gelata che Berlusconi ha inflitto senza troppi riguardi al povero Parisi, che da principe delfino si ritrova improvvisamente senza alcun titolo per succedere al trono, ha le sue ragioni nello scenario politico che Berlusconi vede disegnarsi dopo la vittoria di Trump.Perché delle molte anime che il berlusconismo ha incarnato, quella che sembra prevalere, nell’attuale congiuntura, è l’anima anti-sistema, lo spirito di discontinuità e di rottura, la rivolta contro «il teatrino della politica». Può darsi che il Cavaliere nutra la convinzione che si tratta di una parentesi, che si può aprire e chiudere. Aprire per ingoiare Renzi e il centrosinistra, e richiudere subito dopo per far pesare, nei nuovi equilibri politici che si costruiranno dopo il referendum, la propria forza residuale.

Ora, non è chiaro se questa strategia sia quella giusta, se la destra che torna a fare la destra sia la risposta, e per il centro moderato e riformista si vedrà poi. È anche possibile che, così facendo, altro che parentesi: si porta soltanto acqua al pozzo di Grillo, l’unico che approfitterebbe della caduta di Renzi. Quel che è certo, è che se Forza Italia si muove in quella direzione, allora Salvini rimane, volenti o nolenti, un competitor ma anche un alleato strategico, e Parisi non può essere più il leader e il federatore.

Parisi non ha il quid. L’unico rimane Berlusconi. Ma il tempo passa, Crono divora i suoi figli, e l’Olimpo rischia di rimanere vuoto di dèi.

(Il Mattino, 16 novembre 2016)

La Campania offre un patto al governo

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La provocazione ha avuto effetto: i 200.000 posti del piano di Vincenzo De Luca per la pubblica amministrazione nel Mezzogiorno hanno tirato fuori il dibattito dalle secche in cui c’è sempre il rischio che scivoli, quando si tratta di misurarsi con la sempiterna questione meridionale. La proposta è in sé discutibile, ed infatti è stata discussa. È stata anzi al centro della discussione che ha ravvivato questi Stati Generali, voluti dal governatore De Luca per rilanciare il tema dello sviluppo del Sud e porlo nuovamente al centro dell’agenda nazionale. E nella discussione sono affiorate le domande: siamo sicuri che il Mezzogiorno abbia bisogno anzitutto di un piano straordinario di assunzioni, anziché di un rilancio degli investimenti? Siamo sicuri che è un piano sostenibile per le finanze dello Stato? Siamo sicuri che il tema delle burocrazie pubbliche non sia anche un tema di qualità complessiva dell’azione amministrativa e di efficientamento delle policies? Siamo sicuri che basti indicare un obiettivo generale, e non siano piuttosto da considerare i settori strategici nei quali occorre anzitutto rafforzare la macchina dello Stato?

Ma ora ci sono le domande, e prima non c’erano nemmeno quelle. Diciamo anzi la verità: la proposta di De Luca ha almeno un primo merito, quello di rovesciare senza timidezze la retorica corriva, secondo la quale i soldi dati al Mezzogiorno sono per forza soldi sprecati, che finiscono invariabilmente in clientele, assistenzialismo, ruberie. Finché prevale questa narrazione, è difficile impostare il tema della riforma della pubblica amministrazione in maniera diversa da quella dei tagli, del risanamento e della spending review. Poi ne ha anche un secondo, più generale, dal momento che una proposta del genere suppone che ridurre il perimetro dell’azione pubblica non sia più la priorità assoluta. Con il blocco del turn over in tutti questi anni lo Stato, secondo De Luca, è dimagrito abbastanza: in tutto il Paese e in particolare al Sud.

Su questo, il Presidente Renzi ha convenuto. «Si deve dire che si tornerà ad assumere nella pubblica amministrazione», ha detto il premier, ed in effetti il governo ha cominciato a farlo: nel settore della scuola o in quello della giustizia, per esempio. Poi però ci sono le precisazioni: «servono più ricercatori» – ha aggiunto infatti Renzi – «non più dipendenti». Che tradotto vuol dire: badiamo alle domande di cui sopra. Cioè: stiamo attenti alla qualità della spesa pubblica, non accontentiamoci di buttar dentro qualche centinaio di migliaia di statali, ma ragioniamo su dove e come impiegare nuove risorse.

La prudenza, insomma, è necessaria: dettata anzitutto dal ruolo e dalle responsabilità. Ma in nessun modo Renzi ha ribaltato i dati di partenza del ragionamento che De Luca ha proposto nel suo intervento agli Stati Generali. E cioè: l’amministrazione pubblica è anagraficamente vecchia; l’amministrazione pubblica si è progressivamente dequalificata; lo Stato non può lasciare fuori un’intera generazione.

Questi infatti sono i dati. Poi c’è il numero, la meta iperbolica delle 200.000 nuove assunzioni, e quella è evidente che a Renzi (e non solo a lui) è parsa del tutto fuori dalla portata dell’azione di governo, in questa congiuntura. Ma quel numero doveva essere dirompente, per lanciare con forza l’idea di una nuova stagione di impegno vero dello Stato nel Sud. E doveva anche avere un sottinteso politico, nemmeno tanto velato.

In politica conta chi prende l’iniziativa, chi manifesta un’ambizione, chi si fa portabandiera di un progetto di largo respiro. Renzi lo ha fatto, portando ad approvazione la riforma costituzionale e ora mettendo in gioco il futuro del Paese con il referendum del 4 dicembre. Nelle intenzioni del premier, le riforme sono il viatico della nuova Italia: hic Rhodus, hic salta.

De Luca lo fa a sua volta, chiedendo però al governo di fare un altro salto, persino più grande del primo. Proponendo cioè di riempire il disegno riformatore con un piano almeno altrettanto ambizioso, che parli da molto vicino alle persone, soprattutto in quelle aree dove la crisi economica e sociale morde ancora, e non bastano certo le attuali, risicatissime percentuali di crescita del PIL per delineare una concreta inversione di rotta. In questo senso, De Luca cerca di dare una mano a Renzi, non di mettere in difficoltà il governo. È come se gli dicesse: caro Renzi, prova a spiegare che questa maggioranza che chiama al voto il 4 dicembre sulle riforme è la stessa che vuole affrontare in maniera radicale il tema del lavoro nel Mezzogiorno, che vuole offrire una prospettiva di futuro ai giovani. Prova a far passare l’idea che anche su questo si gioca la partita del voto, e magari così ti riesce pure di vincerla. Poi i numeri li aggiustiamo, e la spesa la teniamo sotto controllo. Ma intanto lanciamo una grande controffensiva politica e culturale anche su questi temi, su un’offerta rinnovata di beni pubblici in tema di sicurezza, di sanità, d’istruzione, di ambiente su cui il Mezzogiorno ha pagato sinora il prezzo più alto.

Ora però queste cose non è che De Luca si limita a suggerirle: le dice lui stesso, in prima persona, e pure questo un significato ce l’ha. Ed è più di un messaggio o di una raccomandazione. È l’offerta di un patto politico, che il presidente della regione Campania si prefigge di stringere più fortemente, dopo che sarà chiaro il risultato del referendum.

(Il Mattino, 14 novembre 2016)

Da Abu Ghraib a Regeni. La tortura lato oscuro del potere

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Nella notte fra il 21 e il 22 luglio 2001, a Genova, con l’irruzione della polizia nella caserma Diaz, furono commesse violenze e sevizie qualificabili come atti di tortura. Lo ha stabilito una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma non un tribunale dello Stato italiano, perché in Italia il reato di tortura non c’è. Nonostante le norme di diritto internazionale. Nonostante la ratifica nel 1989, da parte del nostro Paese, della Convenzione ONU contro la tortura. Il libro di Donatella Di Cesare (Tortura, Bollati Boringhieri, pp. 217, € 11), in uscita oggi, ci fa riandare a quella notte, in cui fu scritta una delle pagine più nere della storia italiana recente, ma soprattutto getta uno sguardo profondo sui meccanismi e le dinamiche che legano non accidentalmente la politica e lo Stato alla pratica della tortura.

Abbiamo preso il libro dalla fine, dalla terza parte dedicata alla livida amministrazione della tortura, perché coinvolge più direttamente l’attualità: dalla prigione di Guantanamo al caso di Giulio Regeni, dalle fotografie dell’orrore di Abu Ghraib al G8 di Genova. Non solo i lager, dunque, o le dittature: in pieno ventunesimo secolo anche lo Stato democratico tortura, si macchia ripetutamente di abusi e violazioni. E di nuovo: nonostante le dichiarazioni universali, nonostante i diritti fondamentali, nonostante costituzioni, corti e tribunali. Perché?

La tesi dell’Autrice, svolta nella prima parte del libro, dedicata alla politica della tortura, è che se la tortura torna purtroppo come «una costante della storia umana» è perché essa è iscritta sin dall’origine nella logica del dominio: «Non è entro il codice della verità, bensì entro quello del potere che la tortura va considerata». Non si tortura, insomma, per estorcere verità o per fare giustizia, ma per affermare la presa assoluta del potere sui corpi, per riattivare l’oscuro fondamento di ogni soggezione politica.

Oscuro perché nascosto, perché spostato dal centro della sfera pubblica in qualche sottoscala o in qualche stanza male illuminata, dove sia consentito infliggere dolore e seminare terrore senza dare giustificazione alcuna. In realtà, dopo l’11 settembre e la guerra globale al terrore si sono compiuti, specie nel dibattito filosofico anglo-americano, tentativi spericolati di giustificare la tortura, di costruire paraventi giuridici e dilemmi morali con i quali autorizzare la politica delle «mani sporche»: per salvare vite umane, ma in realtà per spingere lo Stato oltre i confini della sua legittimità democratica, in una terra di nessuno dove tramonta ogni idea di giustizia.

Tentativi che l’Autrice, tra le maggiori filosofe italiane, smonta con implacabile lucidità e grande rigore argomentativo. Ed è impressionante veder sfilare, in pagine molto tese e dense, la quantità di figure di linguaggio e di pensiero in cui la tortura ha potuto trovare una parvenza di presentabilità. Una fenomenologia della tortura, così recita il titolo della seconda parte del libro, che toglie il fiato. E che purtroppo si rinnova anche oggi, nelle manovre che giuristi, politici e filosofi compiono per attenuare, camuffare o difendere l’indifendibile.

Per questo «Tortura» si rivela un libro non solo importante, ma necessario. Perché trovare le parole, a cominciare da quelle che dicono la sofferenza e la sottraggono alla muta violenza che giace al fondo di ogni potere, costituisce il primo atto di resistenza. Occorre dire, occorre dire e denunciare. E occorre, in Italia, a distanza di quindici anni dai fatti di Genova, una legge: senza ulteriori rinvii.

(Il Messaggero, 11 novembre 2016)

Ha incarnato troppo il potere

xbro_science_donald_pump_on_white_display1447380428564545ccf38c7-png-pagespeed-ic-vr5jwk8exwBisogna essere onesti: fra le molte ragioni per le quali Hillary Clinton ha perso, non vi è l’essere donna. (Così come del resto, tra le ragioni per cui Trump ha vinto non vi è (per fortuna) il sessismo. Il tetto di cristallo che impedisce a una donna di diventare Presidente degli Stati Uniti d’America questa volta non c’entra. Hillary ha perso perché non era il candidato giusto, perché non era amata dai suoi stessi elettori, perché apparteneva all’establishment di Washington e alla politica di ieri, perché era una donna di molto potere che appariva distante dai ceti medi e dagli strati popolari, perché gli scandali l’avevano più che lambita, perché la sinistra clintoniana è finita da un pezzo. E perché in fondo i voti li ha chiesti solo per fermare «The Donald»: troppo poco.

Certo: è facile dirlo, con il senno di poi. Ma siccome un evento illumina il suo passato, come diceva la filosofa Hannah Arendt, è giusto chiedersi, a urne ormai aperte, perché sia andata così. Era davvero imprevedibile, oppure non si voleva vedere quello che stava capitando (e, anzi, sta capitando da un bel po’ di tempo, ormai)?

Forse tutti i motivi assommano a uno solo: la politica tradizionale ha perso, la politica muscolare ha vinto. Clinton era la politica tradizionale, era un insieme di ricette proposte senza troppe variazioni rispetto all’Amministrazione uscente, una maniera di dipingere grigio su grigio che non risponde evidentemente allo spirito del tempo, ai risentimenti, alle insofferenze e ai rancori che ribollono nella grande provincia americana: nelle pianure del Midwest, nelle aree deindustrializzate del Nord del Paese, negli Stati conservatori del Sud.

Obama sembra, a guardare oggi l’America, non esserci mai stato. Contano meno i risultati della sua Presidenza, evidentemente, che non i quindici anni di lotta al terrorismo e gli otto anni dalla grande paura del crollo economico e finanziario. Non si tratta però della performance complessiva del sistema economico, che negli States non è così fiacca come da noi, ma più profondamente della capacità degli attori politici di farsene interprete, e di impadronirsi così del destino della nazione.

Vale per l’America di Trump come per l’Europa dei populismi e dei nazionalismi che ne stanno modificando radicalmente la geografia politica. Queste nuove formazioni chiedono un’identificazione simbolica che la Clinton non è stata in grado di suscitare. Nessun feeling con l’elettorato: questo è stato il limite principale della sua candidatura, peraltro ben noto ed evidente già durante la corsa delle primarie. Perché altrimenti non si spiega come il vecchio democratico, quasi socialista, Bernie Sanders abbia potuto rimanere per mesi in campo, nonostante la Clinton avesse tutto l’appoggio del partito, e una disponibilità di mezzi infinitamente superiore. Sanders, però, era credibile quando se la prendeva con Wall Street o si rivolgeva ai giovani; Hillary Clinton non avrebbe mai potuto esserlo. Non avrebbe potuto giocare – e in effetti non ha giocato – nessuna delle carte che i nuovi, aggressivi leader populisti usano: non la carta della polemica contro le enormi ricchezze di banchieri, lobbysti e affaristi; non quella della critica della globalizzazione; non quella della politica corrotta e subalterna ai poteri forti; e neppure quella politicamente scorretta del rifiuto del diverso (che si tratti i migranti o gli omosessuali, i latinos o i musulmani). Trump, invece, queste carte le aveva tutte nel mazzo.

Se però a gettarle sul tavolo è il leader della prima potenza mondiale, è chiaro che la partita cambia per tutti. La crisi di legittimazione delle democrazie contemporanee, che non data da ieri, è certamente legata alla recessione, alla crisi fiscale, al deperimento dello Stato sociale, ai fenomeni di impoverimento e di crescita delle diseguaglianze. Ma è legata almeno altrettanto all’estenuazione del gioco politico. Così succede che appena compare un attore che sembra voler azzerare tutto e ricominciare daccapo, ecco che calamita immediatamente nuovi consensi. Con un senso di urgenza e di novità che lascia spiazzati.

Purtroppo, in prossimità dello zero politico non si trovano belle maniere e buona educazione, ma energie e passioni più immediate, persino più brutali. Che pretendono di avere, proprio in nome di questa vitale immediatezza, una verità che le forme paludate, i linguaggi forbiti non hanno più. D’improvviso il lessico politico si secca e muore, e la rappresentanza democratica prende a significare solo distanza, quindi lontananza, quindi estraneità. «Loro» contro «noi, il popolo». E tanto basta.

Non meraviglia dunque che Donald Trump, con il parrucchino giallo e la moglie modella, si sia trovato dalla parte dell’autenticità, mentre Hillary Clinton, con tutta la sua esperienza di politica navigata, si sia trovata nella scomoda e intenibile posizione della politica logora, della doppiezza e dell’ipocrisia.

No, Hillary non era la candidata che ci voleva, per fronteggiare l’urto. Non in questo momento. L’evento ha illuminato il passato e ne ha rivelato il significato. È un peccato che non getti una luce chiara anche sul futuro.

(Il Mattino, 10 novembre 2016)

La grande democrazia in affanno

cattura4Era più facile avere certezze sul dopo voto, che non sul voto stesso. Sul voto, fino all’ultimo, non si è potuto dir molto, se non che: gli exit poll danno in lieve vantaggio Hillary Clinton, come nei pronostici della vigilia; l’affluenza alle urne è stata alta e fin da subito si sono viste file ai seggi, come non accadeva da tempo. Soprattutto, il Paese è spaccato a metà: cosa, questa, che è accentuata dalla distanza politica e ideologica tra i due candidati: l’outsider Trump che ha sbaragliato soprattutto il partito repubblicano, da una parte; la democratica Clinton che non appassiona anzitutto i democratici dall’altro. L’una è stata più aperta e rassicurante, convincente soprattutto fra le donne e le minoranze di neri e latinos, ma anche vicina ai grandi poteri economici e finanziari, promessa di continuità senza il brivido dell’avventura o la scommessa dirompente di un break. L’altro è stato dichiaratamente anti-establishment e sopra le righe, in rotta coi politici di Washington e con le élites, portavoce degli americani stufi e risentiti, impoveriti e spaventati.

Ora che la Clinton sembra aver vinto sul filo di lana (ma potremo dirlo veramente solo quando lo spoglio sarà concluso) si può riconoscere che la vittoria di Trump avrebbe provocato un terremoto, mentre quella di Hillary avrebbe l’effetto di rasserenare perlomeno i mercati e le cancellerie europee.

Anche se è finita, però, questa campagna elettorale ha lasciato il segno.

Sul sito della CNN, hanno provato a riassumerla con le parole più cliccate nel corso di questi mesi. Al primo posto sta la parola «trumpery», che non è solo un gioco di parola formato con il cognome del candidato più discusso della storia americana recente. «Trumpery» vuol dire infatti vistoso, appariscente, e non c’è dubbio che il miliardario americano non abbia fatto molto per passare inosservato. Ma non è solo questo; a colpire è la somiglianza che la corsa presidenziale ha avuto con il genere di trasmissioni televisive – popolari anche da noi – in cui non contano bravura, competenza o professionalità, quanto piuttosto capacità di far colpo, disinvoltura nell’infrangere i codici comunicativi standard, forza per imporsi anzitutto con la propria stessa presenza.

Lo choc, insomma. Perché però l’America avrebbe avuto bisogno di uno choc? E perché Trump, comunque sia andata a finire, ha potuto proporsi come un probabile vincitore della corsa alla Casa Bianca? Probabile, «presumptive», è del resto la seconda parola della lista, quella che il tycoon ha cominciato a proporre in maniera martellante subito dopo che Ted Cruz ha abbandonato le primarie, lasciando il campo libero a «The Donald».

La risposta è forse nell’affanno in cui versano i sistemi democratici, di là e di qua dell’Atlantico. Sembrano infatti presi in questa alternativa: o si tengono dentro la carreggiata del buon senso, del ragionevole, del prevedibile (che in America voleva dire Clinton), ma allora non accendono speranze e producono disaffezione; oppure suscitano sentimenti vivaci, passioni contrastanti (che in America voleva dire Trump), ma allora pagano questa vitalità con sgrammaticature e strappi rispetto al tessuto di diritti e di civiltà costruito in una lunga storia secolare.

Un assaggio della tensione con cui questa vigilia è stata vissuta è stato il primo ricorso che lo staff di Trump ha presentato ad urne ancora aperte, in Nevada, dinanzi alle file di elettori ispanici presenti nei seggi anche dopo l’orario di chiusura. Tutto regolare, secondo le autorità, ma per Trump è il segnale di una mobilitazione delle minoranze che potrebbe decidere il risultato finale.

Ora però non mancano i motivi di preoccupazione. Se avremo una prima donna Presidente degli Stati Uniti d’America non è detto che non avremo comunque un Congresso a maggioranza repubblicana. È chiaro comunque che un’elezione ottenuta di misura, in maniera poco convincente e tra molte perplessità – non ultime quelle sollevate dallo scandalo delle email in cui la Clinton è rimasta invischiata – non sarebbe il miglior viatico per il futuro inquilino della Casa Bianca.

E dopo le incognite che hanno gravato sul voto, verranno le incognite del dopo voto. Certo, l’enigma maggiore era Trump. Sulle politiche monetarie e fiscali, aveva tirato fuori solo la generica promessa di abbassare le tasse (un «must» dei conservatori), mentre in politica estera pesava l’inquietante amicizia con Putin. Ma se lo slogan del miliardario, di fare di nuovo l’America grande e rispettata nel mondo, ha avuto presa, è perché dall’altra parte non c’erano grandi risultati di politica estera da esibire. Dalle primavere arabe in poi, la guida di Obama è sembrata molto più riluttante e indecisa di quelle offerte dai Bush, o da Bill Clinton. E Hillary, che è stata Segretaria di Stato nel corso del primo mandato di Obama, non ha potuto non rappresentare anche su questo versante una poco convincente continuità.

Da qualunque parte le si guardi, dunque, queste elezioni non rappresentano per l’America un punto d’arrivo. Il Paese non sapeva se consegnarsi alla virilità spaccona di Trump, o alla femminilità poco accomodante della Clinton. Non sapeva se fermarsi o ripartire; se alzare la voce o provare ad ascoltare; se tendere la mano o serrare i pugni. Se credere o diffidare. Ora che la scelta è compiuta, se è la determinazione di Hillary Clinton ad essere stata infine coronata dal successo, come pare, saranno in molti a chiedersi comunque se davvero si è scelto per il meglio. Anche fra le fila dei suoi sostenitori: saranno di più quelli sollevati all’idea di non essere finiti nelle mani di un avventuriero, che non quelli sicuri di avere trovato la migliore erede di Barack Obama.

Dopo il primo Presidente nero, avremmo dunque il primo Presidente donna degli Stati Uniti d’America. Sarebbe un segno storico di progresso. Eppure, chi oggi non vede l’ora di esultare ha temuto fino a ieri un improvviso e inaspettato regresso. Se sarà stato evitato, non per questo non avrà gettato un’ombra lunga sul futuro dell’America, e della democrazia.

(Il Mattino, 9 novembre 2016)

La notte più lunga d’America. La continuità contro lo choc

johns-flags-570-379.jpgQuando Percival Everett è venuto in Italia, due anni fa, per presentare il suo ultimo libro, gli hanno chiesto di Obama. Domanda inevitabile: Everett è uno dei più interessanti scrittori americani viventi e, guarda un po’, è nero. E continua a capitargli quello che ha raccontato in uno dei suoi romanzi, il quasi autobiografico «Erasure», «Cancellazione»: uno scrittore afroamericano non riesce a sfondare perché si ostina a non scrivere le storie che ci si aspetta dai neri. E cioè: violenza, emarginazione urbana,schiavismo e profondo Sud, soul e diritti civili.

Neanche Obama ha fatto quello che ci aspetta da un nero: è diventato presidente degli Stati Uniti d’America. Per questo, forse, la sera della prima, storica elezione – quella del 2008 – esordì con queste parole: «Se c’è qualcuno lì fuori che ancora dubita che l’America sia un posto dove tutto è possibile, questa notte è la vostra risposta».

Naturalmente, se tutto è possibile, è anche possibile che solo otto anni dopo quella stessa America scelga, in un’altra notte, colma di incertezze e paure, il miliardario Donald Trump. Che non solo non è afroamericano, come i suoi capelli non smettono di dimostrare, ma è le mille miglia lontano da tutto ciò che poteva significa l’elezione di Obama alla testa della prima nazione del mondo.

E forse aveva ragione Everett, che alla domanda pensoso rispose: «Che un nero sia stato eletto alla presidenza è un segno che il paese è comunque cambiato, anche se sul piano politico ci sono ancora resistenze. Ma non necessariamente la sua elezione ha potuto cancellare cento anni di oppressione e discriminazione razziale. Esattamente come, se accadrà in futuro, l’elezione di una donna alla Casa Bianca non eliminerà né potrebbe eliminare il sessismo».

Due anni fa, Percival Everett non tirava a indovinare, formulando l’ipotesi di una donna alla Casa Bianca. Eletta al Senato quando era ancora la First Lady, Hillary ha dovuto cedere una prima volta il passo a Obama, che l’aveva sconfitta alle primarie, ma non per questoera uscita di scena. Né si è ritirata, nel 2013, dopo aver lasciato la carica di Segretario di Stato.

Perché è vero quel che è stato costantemente ripetuto nel corso di quest’ultima campagna elettorale: la Clinton è espressione dell’establishment, e Donald Trump non è arrivato sino al punto che tutto, stanotte, è possibile, se non avesse potuto sollevare, alta e muggente, l’ondata di insofferenza nei confronti dei politici di Washington.

Così oggi la partita è sorprendentemente aperta. Il miliardario sembrava, all’inizio, un personaggio improbabile. Uno che vuole tirare su un muro,«grandissimo e bellissimo», per dividere gli Stati Uniti dal Messico e fermare i flussi migratori non è quel che si dice il più presidenziale dei candidati possibili. Senza dire delle battute a sfondo sessuale o delle dichiarazioni avventurose come quelle su Obama musulmano.

È chiaro però che il giudizio che da questa parte dell’Atlantico si dà dell’America è spesso falsato da costruzioni ideologiche, da miti e narrazioni che in fondo ci presentano di quel Paese il volto più europeo (e più rassicurante). Così scegliamo di vedere dell’America New York e San Francisco, le battaglie per i diritti civili e il faro del mondo libero, la cultura laica e progressista dei campus americani e, certo, i grandi studios hollywoodianie la Silicon Valley. Del resto, gli Accademici svedesi, pure loro: non hanno dato il premio Nobel della letteratura a Bob Dylan, il menestrello del rock?

E però l’America è anche altro. Ci sono le coste e i grandi laghi, ma pure le montagne e le aree desertiche. I grattacieli e i marciapiedi delle metropoli urbane, ma pure le stazioni di servizio e e le tavole calde in mezzo al nulla.

Prendete allora una cartina e dispiegatela su un tavolo. Cominciate pure dalla costa orientale, dagli Stati del New England: lì prevale l’America liberal che vota democratico, prevale il voto istruito, e una mentalità aperta e cosmopolita. Ma se cominciate a spostarvi nel Midwest, la partita si fa subito più incerta. Negli Stati rurali è davanti il voto repubblicano, ed è decisamente meno ovvio, da quelle parti, che sia giusto aprire le porte agli immigrati (ma anche concedere il diritto di abortire). Stessa storia se vi spostate ancora più ad ovest. Lungo la costa del Pacifico, dove trionfa la new economy, si vota a maggioranza per l’Asinello democratico, ma nelle aree interne, più conservatrici, è tutta un’altra musica. Lì non è certo il massimo presentarsi come un avvocato newyorkese donna (Hillary) mentre fa effetto avere soldi, fare il macho, e abbracciare il potente partito delle armi (Trump).

I cambiamenti demografici (con conseguenti effetti elettorali) si fanno invece sentire soprattutto nel sud degli Stati Uniti. In Arizona, ad esempio, e in Texas. La popolazione ispanica, che a metà del secolo scorso valeva il 3% della popolazione, salirà nel 2050 al 30%: sono questi latinos che forse decideranno il voto. Perché Arizona e Texas sono stati tradizionalmente repubblicani, ma proprio il crescente peso delle minoranze e dei gruppi etnici, forte anche nei maggiori centri urbani del Paese, potrebbe cambiare il risultato finale. Trump ci ha messo ovviamente del suo,aprendo la sua corsa alla Casa Bianca con l’accusa rivolta alle autorità messicane di rovesciare sul suolo americano trafficanti e stupratori. Come se fosse sul set de «L’’infernale Quinlan», il film capolavoro di Orson Welles ambientato al confine tra Messico e Stati Uniti.In verità, Trump ne assume anche la parte: quella del poliziotto spiccio e dai modi autoritari, che serve la giustizia a modo suo, fabbricando prove false, se necessario, pur di acciuffare i colpevoli. (È, però, azzeccandoci).

Ma la domanda è: questi ispano-americani – e le minoranze etniche in genere – voteranno contro Trump offesi dalla sua political uncorrectness e dai provvedimenti annunciati contro gli immigrati irregolari, oppure prevarranno le preoccupazioni di carattere economico, la mancanza di lavoro, l’incertezza sul futuro? In fondo, non si può essere stanchi all’idea di doversi spingere sempre più avanti, soprattutto se non è più chiaro verso dove?

Se così fosse, avrebbero ragione quelli che scomodano la parola nichilismo a proposito del «secolo americano»,del suo inveramento nei processi di finanziarizzazione dell’economia, nell’esplosione delle tecnologie informatiche, nel trionfo della società dello spettacolo: si capirebbe perché Trump possa rappresentare agli occhi di molti il ritorno a un’America forte, sana, autentica, che sa quel che vuole e che si fa rispettare.

Quello che forse è mancato ad Obama, agli occhi di molti americani. La sua ritrosia ad usare l’«hard power», che negli ultimi tempi ha dovuto sempre più confrontarsi col protagonismo crescente della Russia di Putin, ha finito per consegnare l’immagine di un Paese incerto sul da farsi, un’America più che paziente riluttante, più che prudente rinunciataria.

Il paradosso è che dei due candidati, Trump è quello più isolazionista, pronto a riaggiornare la dottrina Monroe – quella dell’America agli americani – mentre Clinton è, secondo il filosofo e psicanalista sloveno Zizek, che ha a lungo insegnato negli States, il prototipo perfetto dell’interventismo democratico, dell’idealismo a cui però sono i droni killer ad aprire la strada.

Di paradosso in paradosso, Zizek capovolge tutta la nostra  maniera di guardare alla scena americana. Invece di parteggiare per i buoni, per il nero Obama e per la donna Hillary; invece di stare dalla parte dell’America liberal, che lotta per i diritti e contro le ingiustizie sociali, Zizek sta con il cattivo, con Trump, sta con gli «incazzati neri» che si sono stufati del riformismo inconcludente e moraleggiante che non cambia veramente le cose. Zizek si sa, è un leninista non pentito, per il quale il comunismo continua ad essere il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, mentre democratici, progressisti e riformisti di ogni specienon aboliscono proprio nulla, e coprono anzi  una realtà fatta di diseguaglianze crescenti. Zizek, insomma, è per la scossa, per lo choc, quella che secondo molti neppure il primo Presidente nero eletto otto anni fa ha saputo dare, accendendo speranze in certa parte deluse.

Ebbene, non è detto che stanotte non accada davvero qualcosa del genere.

Ma anche se si tirerà il fiato e si penserà che l’abbiamo scampata bella, il segnale è arrivato forte e chiaro anche da questa parte dell’oceano.

(Il Mattino, 8 novembre 2016)

Il nuovo Pantheon e l’ambizione di cambiare il Paese

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Che cosa c’era nel discorso conclusivo di Renzi, alla Leopolda? Una cosa sopra tutte: l’idea che la legittimazione politica dell’attuale classe dirigente che guida il Paese stia nell’ambizione di cambiare l’Italia. Tutto è commisurato a questa ambizione. Era così fin dal primo giorno della prima Leopolda, ma ora il referendum costituzionale consente a Renzi di affermare che siamo dinanzi a una sorta di nuovo inizio. Sul contagiri del governo manca pochissimo al traguardo dei mille giorni, ma ieri Renzi ha parlato come se il referendum rimettesse le lancette della politica italiana sullo start.

La mossa risponde all’esigenza di proiettare il risultato del voto di dicembre in avanti, per legarlo a una promessa di futuro. Chi vota non vota tanto sul quesito referendario, quanto piuttosto sull’Italia: l’Italia del cambiamento contro l’Italia della conservazione. Nuova contro vecchia generazione. Una nuova classe dirigente che ci prova contro quell’altra che ha già fallito. Il canto della speranza contro la cultura del piagnisteo.

Questa volontà di sgravarsi del passato ha sicuramente prodotto un cambiamento reale nel modo in cui è ormai organizzata la discussione pubblica, almeno nei paraggi del PD. Quando il partito è nato, il tema delle culture politiche virava al passato, nel senso di una discussione sui riformismi che, provenendo da lontano, dovevano andare lontano: così si diceva una volta. Quella volta – quella retorica, quella devozione verso le antiche radici – per Renzi non c’è più: non è più questione, insomma, di cosa sia o dove sia il cattolicesimo democratico, o il socialismo europeo.

In fondo, già Veltroni aveva provato, senza riuscirvi, un’operazione del genere, cercando di incarnare la figura del politico che parla un linguaggio nuovo. Ma Veltroni era, in questo, molto meno credibile di Renzi, e soprattutto cercava la novità in un eclettismo che l’obbligava a citare tutti, come nella canzone di Jovanotti: da Che Guevara a Madre Teresa. Veltroni portava sulle proprie spalle il peso di un Pantheon di riferimenti culturali, politici, ideologici, dei quali non sapeva in nessun modo sbarazzarsi. Renzi un Pantheon alle spalle non ce l’ha. Lui non perde neanche un secondo a fare il gioco delle citazioni. Parla a braccio, prende quel che gli serve, prova a definire l’agenda del partito e del governo, legandole unicamente a un motivo: il futuro dell’Italia. «Noi siamo l’Italia», ripete, dove Berlusconi aveva detto (nel 1994) «l’Italia è il Paese che amo», e Veltroni aveva scelto (nel 2007) di esordire con «Fare un’Italia nuova».

Renzi però non ha semplicemente rottamato: ha inventato la sua maniera di essere di sinistra. Provando a renderla riconoscibile attraverso tre direttrici. La prima l’ha legata all’anima sociale del governo, ai provvedimenti presi in materia di diritti (vedi la legge sulle unioni civili, oppure quella sul “dopo di noi”), e in cultura (dalle borse di studio per l’università alla legge sul cinema). La seconda l’ha declinata nel rapporto con le istituzioni europee, nel tentativo di superare i vincoli dell’austerità imposta da Bruxelles, e in questo gli ha dato una mano anche Padoan, che il giorno prima ha osato criticare i tagli alla spesa pubblica come freno alla crescita (contro il mantra del rigore che la sinistra ha ingoiato fino all’ultimo giorno del governo Monti); la terza, con molta più convinzione, l’ha sviluppata lungo l’asse vecchio/nuovo che investe l’ordinamento istituzionale del Paese. Lì ha indicato il significato del voto di dicembre: è come il morto che tenta di afferrare il vivo.

Più che le singole issues, contava però il tono. Perché Renzi è passato anche per i luoghi canonici della sinistra (il recupero record dell’evasione fiscale e la redistribuzione del reddito con gli 80 euro), ma per quel tanto che gli serviva per rifiutare la lezioncina di quelli di prima, di quelli che ti dicono di startene buono, al tuo posto (quelli del «Ciccio, rispetta la fila!»).

Se si vuole capire che sinistra è questa, bisogna però andare alle due grandi narrazioni che si sono a lungo contesi l’interpretazione della modernità. Perché non c’è sinistra senza un’idea di modernità e di futuro, e Renzi l’ha capito benissimo. Nel suo discorso i pedali che premeva, per restituire questo sapore, erano da una parte l’America, Obama, e l’ultima cena di Stato alla Casa Bianca; dall’altra il progresso tecnologico, l’innovazione, persino la robotica (parola che deve evidentemente affascinarlo, per quante volte la ripete).

Ma la modernità può essere interpretata come un processo di secolarizzazione, in una logica di trasformazione ma insieme anche di continuità con la tradizione; oppure in termini di rottura, di autoaffermazione, senza bisogno di blande autorizzazioni dal passato. Renzi ha scelto questo secondo racconto, e la platea della Leopolda lo ha applaudito più calorosamente in tutti i passaggi in cui ha reso esplicita questa volontà di scrollarsi di dosso i vecchi, i padri, i gufi, i rancorosi.

Ed è per questo che ieri non ce l’aveva tanto con la destra, e neppure coi grillini, quasi mai citati. Il battesimo del 4 dicembre era ieri innanzitutto la pretesa di non rimandare più ad altri il diritto di definire cosa è sinistra. Piaccia o no: ha provato a farlo lui.

Sarà per via di questa sfrontata franchezza che qualcuno deve aver pensato che per il titolo di questa Leopolda bisognava usare gli stessi caratteri tipografici del libro di Moccia, quello dei tre metri sopra il cielo. È stata l’unica gentilezza esibita dal palco. Tutto il resto è stata lotta politica vera, e su questo anche gli avversari potranno convenire: il Pd di Renzi non ha alcun motivo per perpetuare, a sinistra, la lunga stagione degli ex-, dei complessi di inferiorità, delle cattive coscienze e delle supplenze, di cui in fondo l’Ulivo era ancora, almeno in parte, espressione.

(Il Mattino, 7 novembre 2016)

L’ultima sfida di chi ha cambiato la sinistra: rifare la politica

Acquisizione a schermo intero 05112016 161332.bmp.jpgPippo Civati, chi era costui?  Era il giovane consigliere regionale lombardo che affiancava Matteo Renzi, allora giovane sindaco fiorentino, nella prima,primissima Leopolda: quella del 2010. I due facevano a gara a chi rottamava di più. Oggi uno è Presidente del Consiglio, nonché segretario del partito democratico; l’altro, invece, fuoriuscito dal Pd, è quasi sparito dalla ribalta politica nazionale. Guida la formazione “Possibile”, e cerca di pescar voti a sinistra, ma quindici minuti di celebrità come quelli della pionieristica Leopolda non li ha avuti più.

Quando si guarda indietro, muovendo dal punto al quale siamo, si ha sempre l’impressione che le cose non potevano andare in altro modo: che Renzi era una sorta di predestinato; che dunque la vecchia guardia del partito democratico non avrebbe resistito all’onda d’urto sollevata; che uno dopo l’altro Prodi Veltroni D’Alema sarebbero stati accompagnati alla porta; che Renzi avrebbe preso le redini del Pd e del Paese.

In realtà, le cose sarebbero potute andare anche molto diversamente, e proprio il diseguale destino di Renzi e Civati lo dimostra. Nel 2010, D’Alema poteva ancora rivolgersi a Renzi come a un simpatico «giovanotto»; oggi non più. Nel 2010, Bersani, allora segretario del partito, poteva permettersi di tenersi lontano dalla stazione fiorentina; oggi gira ancora alla larga, ma perché sospinto sempre più nella ridotta minoranza piddina.

Qualcosa in realtà era già successo. Il Pd era già imploso una prima volta, con le dimissioni di Veltroni, un anno dopo la sconfitta alle elezioni politiche. La parola d’ordine della rottamazione era nata proprio per prendere il timone del partito togliendolo ai sessantenni che lo avevano guidato negli anni del berlusconismo. Poi, certo, Renzi aggiungeva che non era un fatto anagrafico, di ricambio generazionale, «ma piuttosto di cambio del gruppo dirigente, di idee e di linguaggio», ma intanto il messaggio arrivava forte e chiaro: non si fa nessun «nuovo Ulivo» mantenendo «vecchie facce». A distanza di tempo, Renzi non ha solo promosso una nuova generazione – Lotti, Boschi, Serracchiani, Del Rio, Gozi: tutti passati per le varie Leopolde – ma ha effettivamente cambiato i connotati del centrosinistra. Chi oggi parla ancora di spirito dell’Ulivo lo fa dai giardinetti della politica, non certo nel vivo delle battaglie che si combattono: dal referendum costituzionale al confronto con l’Unione europea.

All’inizio, però, l’aria era ancora quella di chi «si diverte seriamente»: con gli ospiti e le canzoni, i video e i cartoon; lo stagista Boris e il fumetto di Will Coyote. La Leopolda esordiva, nel 2010, con una voce fuori campo che salutava i presenti con queste parole: «Siete pregati di prendere posto e di lasciarlo dopo tre mandati, e poi non lasciate aperti i finestrini per evitare correnti».

Col passare degli anni, la Leopolda si è fatta un po’ più seria, un po’ più istituzionale, un po’ più ufficiale. Su un punto non ha ceduto: su una certa idea di ritmo e di velocità. Sui cento fiori che fioriscono e le scuole di pensiero che gareggiano: Mao Tze Tung, insomma, ma virato al pop come in un ritratto di Andy Warhol.

In quest’ultima edizione, la settima, il programma di sala invece annuncia che si discuterà «soprattutto di terremoto, protezione civile, terzo settore, leggi sociali, volontariato». È chiaro: c’è appena stato il sisma e corrono i cinquant’anni dall’alluvione di Firenze, ma l’impressione è che il registro degli umori sia cambiato, e che il momento richiede se non compunzione, certo meno scanzonature e più sobrietà.

È forse il renzismo che è cambiato? Diciamo che un conto è buttar giù, un altro è stare in sella. Per buttar giù si può dar fondo anche ai temi che infiammano il populismo dei Cinquestelle – fine dell’immunità, fine delle indennità, e quasi fine della (vecchia) politica – e infatti Renzi e Civati salgono sul palco, nel 2010, nelle vesti di comici-presentatori. Poi però, poco a poco, il profilo viene affinato, e qualche elemento di costruzione politica viene aggiunto. In verità, se si dà uno sguardo alla lista delle cose da fare che Renzi presenta nel 2011, alla seconda Leopolda (quando già Civati non c’è più) si trovano: la fine del bicameralismo paritario (basta con i doppioni inutili); l’abolizione del Porcellum (anche se a favore di collegi uninominali, che l’Italicum invece non prevederà); l’abolizione delle province, l’abolizione del Cnel, l’abolizione del finanziamento pubblico. Si trova insomma una linea politica e istituzionale che in gran parte confluisce nella riforma Boschi. Era il programma con il quale Renzi ha affrontato le primarie negli anni successivi: prima perdendole (con Bersani), poi vincendole (contro Cuperlo). Di mezzo c’è stata ovviamente la non-vittoria del centrosinistra alle politiche del 2013, ma a svolgere il filo degli eventi si trova una coerenza di fondo, che battute e slogan, imprevisti e astuzie non hanno intaccato di molto.

Certo, c’erano anche cose che, col senno di poi, vien da sorridere: la più macroscopica delle quali è senz’altro l’obiettivo del rapporto debito/Pil al 100% in 3 anni. E in effetti è sul terreno dell’economia che le cose non hanno camminato veloci come Renzi pensava. Ma rimane l’impressione di un disegno strategico perseguito nel tempo, anche attraverso qualche abile capriola tattica: non solo il famoso «Enrico, stai sereno» che precedette il siluramento del governo Letta, nel 2014, ma anche, molto prima, l’incontro con il Cavaliere ad Arcore. È stato il primo, clamoroso risultato politico ottenuto a distanza di soltanto un mese dalla Leopolda (del quale incontro, non a caso, Civati non aveva saputo nulla). Fioccano le polemiche, è chiaro. Matteo figlio di Silvio, scrivono i giornali, con Berlusconi che – assicura – lo trova a lui simile: per stile e modello di leadership.

Forse è vero. Ma l’incontro non colloca Renzi più a destra di quanto non fossero prima di lui i Prodi, i Ciampi o i D’Alema che hanno portato l’Italia dentro Maastricht e l’euro. Semplicemente, l’appuntamento di Arcore è la dimostrazione che Matteo è pronto a riscrivere gli spartiti della politica italiana, e a cambiare i temi su cui passerà di lì in avanti la demarcazione dello spettro politico. Non più l’antiberlusconismo morale, ma la riforma dell’ordinamento repubblicano. Per la quale non ha mai smesso di cercare accordi nel campo avverso.

La Leopolda di quest’anno cade in un tempo quasi sospeso: febbrile per la campagna elettorale in corso, ma in bilico sul risultato del referendum. Difficile che la convention riesca a spingere lo sguardo oltre quella data. Ma è chiaro che dietro le quinte si sta ragionando già sul dopo. Sia che vinca il sì, infatti, sia che vinca il no, la domanda è se vi saranno nuove elezioni: in un caso, per capitalizzare il successo; nell’altro, per cercare una ripartenza. Arrivare fino al 2018 è difficile, se vince il no, anche se bisognerà trovare il modo di scrivere una nuova legge elettorale, per non rischiare il caos istituzionale. In caso di vittoria del sì, il rispetto della scadenza naturale potrebbe invece servire per aprire contraddizioni nel campo grillino, e magari favorire anche una ricomposizione del centrodestra, che a quel punto dovrebbe definitivamente voltare pagina rispetto all’impasse in cui si è cacciato dopo il declino di Berlusconi. Questa è anzi, con tutta probabilità, la partita più grande che Renzi e il Pd dovranno giocare, se supereranno il voto di dicembre: restituire alla politica la fisiologia di un confronto politico fra destra e sinistra, che l’enorme bubbone a Cinquestelle ha alterato. E per quello, contano i contenuti della riforma, ma conta pure la politica. Alla Leopolda,e nel Pd, qualcuno deve prepararsi per lanciare l’ultima sfida.

(Il Mattino, 5 novembre 2016)

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