Pippo Civati, chi era costui? Era il giovane consigliere regionale lombardo che affiancava Matteo Renzi, allora giovane sindaco fiorentino, nella prima,primissima Leopolda: quella del 2010. I due facevano a gara a chi rottamava di più. Oggi uno è Presidente del Consiglio, nonché segretario del partito democratico; l’altro, invece, fuoriuscito dal Pd, è quasi sparito dalla ribalta politica nazionale. Guida la formazione “Possibile”, e cerca di pescar voti a sinistra, ma quindici minuti di celebrità come quelli della pionieristica Leopolda non li ha avuti più.
Quando si guarda indietro, muovendo dal punto al quale siamo, si ha sempre l’impressione che le cose non potevano andare in altro modo: che Renzi era una sorta di predestinato; che dunque la vecchia guardia del partito democratico non avrebbe resistito all’onda d’urto sollevata; che uno dopo l’altro Prodi Veltroni D’Alema sarebbero stati accompagnati alla porta; che Renzi avrebbe preso le redini del Pd e del Paese.
In realtà, le cose sarebbero potute andare anche molto diversamente, e proprio il diseguale destino di Renzi e Civati lo dimostra. Nel 2010, D’Alema poteva ancora rivolgersi a Renzi come a un simpatico «giovanotto»; oggi non più. Nel 2010, Bersani, allora segretario del partito, poteva permettersi di tenersi lontano dalla stazione fiorentina; oggi gira ancora alla larga, ma perché sospinto sempre più nella ridotta minoranza piddina.
Qualcosa in realtà era già successo. Il Pd era già imploso una prima volta, con le dimissioni di Veltroni, un anno dopo la sconfitta alle elezioni politiche. La parola d’ordine della rottamazione era nata proprio per prendere il timone del partito togliendolo ai sessantenni che lo avevano guidato negli anni del berlusconismo. Poi, certo, Renzi aggiungeva che non era un fatto anagrafico, di ricambio generazionale, «ma piuttosto di cambio del gruppo dirigente, di idee e di linguaggio», ma intanto il messaggio arrivava forte e chiaro: non si fa nessun «nuovo Ulivo» mantenendo «vecchie facce». A distanza di tempo, Renzi non ha solo promosso una nuova generazione – Lotti, Boschi, Serracchiani, Del Rio, Gozi: tutti passati per le varie Leopolde – ma ha effettivamente cambiato i connotati del centrosinistra. Chi oggi parla ancora di spirito dell’Ulivo lo fa dai giardinetti della politica, non certo nel vivo delle battaglie che si combattono: dal referendum costituzionale al confronto con l’Unione europea.
All’inizio, però, l’aria era ancora quella di chi «si diverte seriamente»: con gli ospiti e le canzoni, i video e i cartoon; lo stagista Boris e il fumetto di Will Coyote. La Leopolda esordiva, nel 2010, con una voce fuori campo che salutava i presenti con queste parole: «Siete pregati di prendere posto e di lasciarlo dopo tre mandati, e poi non lasciate aperti i finestrini per evitare correnti».
Col passare degli anni, la Leopolda si è fatta un po’ più seria, un po’ più istituzionale, un po’ più ufficiale. Su un punto non ha ceduto: su una certa idea di ritmo e di velocità. Sui cento fiori che fioriscono e le scuole di pensiero che gareggiano: Mao Tze Tung, insomma, ma virato al pop come in un ritratto di Andy Warhol.
In quest’ultima edizione, la settima, il programma di sala invece annuncia che si discuterà «soprattutto di terremoto, protezione civile, terzo settore, leggi sociali, volontariato». È chiaro: c’è appena stato il sisma e corrono i cinquant’anni dall’alluvione di Firenze, ma l’impressione è che il registro degli umori sia cambiato, e che il momento richiede se non compunzione, certo meno scanzonature e più sobrietà.
È forse il renzismo che è cambiato? Diciamo che un conto è buttar giù, un altro è stare in sella. Per buttar giù si può dar fondo anche ai temi che infiammano il populismo dei Cinquestelle – fine dell’immunità, fine delle indennità, e quasi fine della (vecchia) politica – e infatti Renzi e Civati salgono sul palco, nel 2010, nelle vesti di comici-presentatori. Poi però, poco a poco, il profilo viene affinato, e qualche elemento di costruzione politica viene aggiunto. In verità, se si dà uno sguardo alla lista delle cose da fare che Renzi presenta nel 2011, alla seconda Leopolda (quando già Civati non c’è più) si trovano: la fine del bicameralismo paritario (basta con i doppioni inutili); l’abolizione del Porcellum (anche se a favore di collegi uninominali, che l’Italicum invece non prevederà); l’abolizione delle province, l’abolizione del Cnel, l’abolizione del finanziamento pubblico. Si trova insomma una linea politica e istituzionale che in gran parte confluisce nella riforma Boschi. Era il programma con il quale Renzi ha affrontato le primarie negli anni successivi: prima perdendole (con Bersani), poi vincendole (contro Cuperlo). Di mezzo c’è stata ovviamente la non-vittoria del centrosinistra alle politiche del 2013, ma a svolgere il filo degli eventi si trova una coerenza di fondo, che battute e slogan, imprevisti e astuzie non hanno intaccato di molto.
Certo, c’erano anche cose che, col senno di poi, vien da sorridere: la più macroscopica delle quali è senz’altro l’obiettivo del rapporto debito/Pil al 100% in 3 anni. E in effetti è sul terreno dell’economia che le cose non hanno camminato veloci come Renzi pensava. Ma rimane l’impressione di un disegno strategico perseguito nel tempo, anche attraverso qualche abile capriola tattica: non solo il famoso «Enrico, stai sereno» che precedette il siluramento del governo Letta, nel 2014, ma anche, molto prima, l’incontro con il Cavaliere ad Arcore. È stato il primo, clamoroso risultato politico ottenuto a distanza di soltanto un mese dalla Leopolda (del quale incontro, non a caso, Civati non aveva saputo nulla). Fioccano le polemiche, è chiaro. Matteo figlio di Silvio, scrivono i giornali, con Berlusconi che – assicura – lo trova a lui simile: per stile e modello di leadership.
Forse è vero. Ma l’incontro non colloca Renzi più a destra di quanto non fossero prima di lui i Prodi, i Ciampi o i D’Alema che hanno portato l’Italia dentro Maastricht e l’euro. Semplicemente, l’appuntamento di Arcore è la dimostrazione che Matteo è pronto a riscrivere gli spartiti della politica italiana, e a cambiare i temi su cui passerà di lì in avanti la demarcazione dello spettro politico. Non più l’antiberlusconismo morale, ma la riforma dell’ordinamento repubblicano. Per la quale non ha mai smesso di cercare accordi nel campo avverso.
La Leopolda di quest’anno cade in un tempo quasi sospeso: febbrile per la campagna elettorale in corso, ma in bilico sul risultato del referendum. Difficile che la convention riesca a spingere lo sguardo oltre quella data. Ma è chiaro che dietro le quinte si sta ragionando già sul dopo. Sia che vinca il sì, infatti, sia che vinca il no, la domanda è se vi saranno nuove elezioni: in un caso, per capitalizzare il successo; nell’altro, per cercare una ripartenza. Arrivare fino al 2018 è difficile, se vince il no, anche se bisognerà trovare il modo di scrivere una nuova legge elettorale, per non rischiare il caos istituzionale. In caso di vittoria del sì, il rispetto della scadenza naturale potrebbe invece servire per aprire contraddizioni nel campo grillino, e magari favorire anche una ricomposizione del centrodestra, che a quel punto dovrebbe definitivamente voltare pagina rispetto all’impasse in cui si è cacciato dopo il declino di Berlusconi. Questa è anzi, con tutta probabilità, la partita più grande che Renzi e il Pd dovranno giocare, se supereranno il voto di dicembre: restituire alla politica la fisiologia di un confronto politico fra destra e sinistra, che l’enorme bubbone a Cinquestelle ha alterato. E per quello, contano i contenuti della riforma, ma conta pure la politica. Alla Leopolda,e nel Pd, qualcuno deve prepararsi per lanciare l’ultima sfida.
(Il Mattino, 5 novembre 2016)