Il nuovo Pantheon e l’ambizione di cambiare il Paese

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Che cosa c’era nel discorso conclusivo di Renzi, alla Leopolda? Una cosa sopra tutte: l’idea che la legittimazione politica dell’attuale classe dirigente che guida il Paese stia nell’ambizione di cambiare l’Italia. Tutto è commisurato a questa ambizione. Era così fin dal primo giorno della prima Leopolda, ma ora il referendum costituzionale consente a Renzi di affermare che siamo dinanzi a una sorta di nuovo inizio. Sul contagiri del governo manca pochissimo al traguardo dei mille giorni, ma ieri Renzi ha parlato come se il referendum rimettesse le lancette della politica italiana sullo start.

La mossa risponde all’esigenza di proiettare il risultato del voto di dicembre in avanti, per legarlo a una promessa di futuro. Chi vota non vota tanto sul quesito referendario, quanto piuttosto sull’Italia: l’Italia del cambiamento contro l’Italia della conservazione. Nuova contro vecchia generazione. Una nuova classe dirigente che ci prova contro quell’altra che ha già fallito. Il canto della speranza contro la cultura del piagnisteo.

Questa volontà di sgravarsi del passato ha sicuramente prodotto un cambiamento reale nel modo in cui è ormai organizzata la discussione pubblica, almeno nei paraggi del PD. Quando il partito è nato, il tema delle culture politiche virava al passato, nel senso di una discussione sui riformismi che, provenendo da lontano, dovevano andare lontano: così si diceva una volta. Quella volta – quella retorica, quella devozione verso le antiche radici – per Renzi non c’è più: non è più questione, insomma, di cosa sia o dove sia il cattolicesimo democratico, o il socialismo europeo.

In fondo, già Veltroni aveva provato, senza riuscirvi, un’operazione del genere, cercando di incarnare la figura del politico che parla un linguaggio nuovo. Ma Veltroni era, in questo, molto meno credibile di Renzi, e soprattutto cercava la novità in un eclettismo che l’obbligava a citare tutti, come nella canzone di Jovanotti: da Che Guevara a Madre Teresa. Veltroni portava sulle proprie spalle il peso di un Pantheon di riferimenti culturali, politici, ideologici, dei quali non sapeva in nessun modo sbarazzarsi. Renzi un Pantheon alle spalle non ce l’ha. Lui non perde neanche un secondo a fare il gioco delle citazioni. Parla a braccio, prende quel che gli serve, prova a definire l’agenda del partito e del governo, legandole unicamente a un motivo: il futuro dell’Italia. «Noi siamo l’Italia», ripete, dove Berlusconi aveva detto (nel 1994) «l’Italia è il Paese che amo», e Veltroni aveva scelto (nel 2007) di esordire con «Fare un’Italia nuova».

Renzi però non ha semplicemente rottamato: ha inventato la sua maniera di essere di sinistra. Provando a renderla riconoscibile attraverso tre direttrici. La prima l’ha legata all’anima sociale del governo, ai provvedimenti presi in materia di diritti (vedi la legge sulle unioni civili, oppure quella sul “dopo di noi”), e in cultura (dalle borse di studio per l’università alla legge sul cinema). La seconda l’ha declinata nel rapporto con le istituzioni europee, nel tentativo di superare i vincoli dell’austerità imposta da Bruxelles, e in questo gli ha dato una mano anche Padoan, che il giorno prima ha osato criticare i tagli alla spesa pubblica come freno alla crescita (contro il mantra del rigore che la sinistra ha ingoiato fino all’ultimo giorno del governo Monti); la terza, con molta più convinzione, l’ha sviluppata lungo l’asse vecchio/nuovo che investe l’ordinamento istituzionale del Paese. Lì ha indicato il significato del voto di dicembre: è come il morto che tenta di afferrare il vivo.

Più che le singole issues, contava però il tono. Perché Renzi è passato anche per i luoghi canonici della sinistra (il recupero record dell’evasione fiscale e la redistribuzione del reddito con gli 80 euro), ma per quel tanto che gli serviva per rifiutare la lezioncina di quelli di prima, di quelli che ti dicono di startene buono, al tuo posto (quelli del «Ciccio, rispetta la fila!»).

Se si vuole capire che sinistra è questa, bisogna però andare alle due grandi narrazioni che si sono a lungo contesi l’interpretazione della modernità. Perché non c’è sinistra senza un’idea di modernità e di futuro, e Renzi l’ha capito benissimo. Nel suo discorso i pedali che premeva, per restituire questo sapore, erano da una parte l’America, Obama, e l’ultima cena di Stato alla Casa Bianca; dall’altra il progresso tecnologico, l’innovazione, persino la robotica (parola che deve evidentemente affascinarlo, per quante volte la ripete).

Ma la modernità può essere interpretata come un processo di secolarizzazione, in una logica di trasformazione ma insieme anche di continuità con la tradizione; oppure in termini di rottura, di autoaffermazione, senza bisogno di blande autorizzazioni dal passato. Renzi ha scelto questo secondo racconto, e la platea della Leopolda lo ha applaudito più calorosamente in tutti i passaggi in cui ha reso esplicita questa volontà di scrollarsi di dosso i vecchi, i padri, i gufi, i rancorosi.

Ed è per questo che ieri non ce l’aveva tanto con la destra, e neppure coi grillini, quasi mai citati. Il battesimo del 4 dicembre era ieri innanzitutto la pretesa di non rimandare più ad altri il diritto di definire cosa è sinistra. Piaccia o no: ha provato a farlo lui.

Sarà per via di questa sfrontata franchezza che qualcuno deve aver pensato che per il titolo di questa Leopolda bisognava usare gli stessi caratteri tipografici del libro di Moccia, quello dei tre metri sopra il cielo. È stata l’unica gentilezza esibita dal palco. Tutto il resto è stata lotta politica vera, e su questo anche gli avversari potranno convenire: il Pd di Renzi non ha alcun motivo per perpetuare, a sinistra, la lunga stagione degli ex-, dei complessi di inferiorità, delle cattive coscienze e delle supplenze, di cui in fondo l’Ulivo era ancora, almeno in parte, espressione.

(Il Mattino, 7 novembre 2016)

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