La notte più lunga d’America. La continuità contro lo choc

johns-flags-570-379.jpgQuando Percival Everett è venuto in Italia, due anni fa, per presentare il suo ultimo libro, gli hanno chiesto di Obama. Domanda inevitabile: Everett è uno dei più interessanti scrittori americani viventi e, guarda un po’, è nero. E continua a capitargli quello che ha raccontato in uno dei suoi romanzi, il quasi autobiografico «Erasure», «Cancellazione»: uno scrittore afroamericano non riesce a sfondare perché si ostina a non scrivere le storie che ci si aspetta dai neri. E cioè: violenza, emarginazione urbana,schiavismo e profondo Sud, soul e diritti civili.

Neanche Obama ha fatto quello che ci aspetta da un nero: è diventato presidente degli Stati Uniti d’America. Per questo, forse, la sera della prima, storica elezione – quella del 2008 – esordì con queste parole: «Se c’è qualcuno lì fuori che ancora dubita che l’America sia un posto dove tutto è possibile, questa notte è la vostra risposta».

Naturalmente, se tutto è possibile, è anche possibile che solo otto anni dopo quella stessa America scelga, in un’altra notte, colma di incertezze e paure, il miliardario Donald Trump. Che non solo non è afroamericano, come i suoi capelli non smettono di dimostrare, ma è le mille miglia lontano da tutto ciò che poteva significa l’elezione di Obama alla testa della prima nazione del mondo.

E forse aveva ragione Everett, che alla domanda pensoso rispose: «Che un nero sia stato eletto alla presidenza è un segno che il paese è comunque cambiato, anche se sul piano politico ci sono ancora resistenze. Ma non necessariamente la sua elezione ha potuto cancellare cento anni di oppressione e discriminazione razziale. Esattamente come, se accadrà in futuro, l’elezione di una donna alla Casa Bianca non eliminerà né potrebbe eliminare il sessismo».

Due anni fa, Percival Everett non tirava a indovinare, formulando l’ipotesi di una donna alla Casa Bianca. Eletta al Senato quando era ancora la First Lady, Hillary ha dovuto cedere una prima volta il passo a Obama, che l’aveva sconfitta alle primarie, ma non per questoera uscita di scena. Né si è ritirata, nel 2013, dopo aver lasciato la carica di Segretario di Stato.

Perché è vero quel che è stato costantemente ripetuto nel corso di quest’ultima campagna elettorale: la Clinton è espressione dell’establishment, e Donald Trump non è arrivato sino al punto che tutto, stanotte, è possibile, se non avesse potuto sollevare, alta e muggente, l’ondata di insofferenza nei confronti dei politici di Washington.

Così oggi la partita è sorprendentemente aperta. Il miliardario sembrava, all’inizio, un personaggio improbabile. Uno che vuole tirare su un muro,«grandissimo e bellissimo», per dividere gli Stati Uniti dal Messico e fermare i flussi migratori non è quel che si dice il più presidenziale dei candidati possibili. Senza dire delle battute a sfondo sessuale o delle dichiarazioni avventurose come quelle su Obama musulmano.

È chiaro però che il giudizio che da questa parte dell’Atlantico si dà dell’America è spesso falsato da costruzioni ideologiche, da miti e narrazioni che in fondo ci presentano di quel Paese il volto più europeo (e più rassicurante). Così scegliamo di vedere dell’America New York e San Francisco, le battaglie per i diritti civili e il faro del mondo libero, la cultura laica e progressista dei campus americani e, certo, i grandi studios hollywoodianie la Silicon Valley. Del resto, gli Accademici svedesi, pure loro: non hanno dato il premio Nobel della letteratura a Bob Dylan, il menestrello del rock?

E però l’America è anche altro. Ci sono le coste e i grandi laghi, ma pure le montagne e le aree desertiche. I grattacieli e i marciapiedi delle metropoli urbane, ma pure le stazioni di servizio e e le tavole calde in mezzo al nulla.

Prendete allora una cartina e dispiegatela su un tavolo. Cominciate pure dalla costa orientale, dagli Stati del New England: lì prevale l’America liberal che vota democratico, prevale il voto istruito, e una mentalità aperta e cosmopolita. Ma se cominciate a spostarvi nel Midwest, la partita si fa subito più incerta. Negli Stati rurali è davanti il voto repubblicano, ed è decisamente meno ovvio, da quelle parti, che sia giusto aprire le porte agli immigrati (ma anche concedere il diritto di abortire). Stessa storia se vi spostate ancora più ad ovest. Lungo la costa del Pacifico, dove trionfa la new economy, si vota a maggioranza per l’Asinello democratico, ma nelle aree interne, più conservatrici, è tutta un’altra musica. Lì non è certo il massimo presentarsi come un avvocato newyorkese donna (Hillary) mentre fa effetto avere soldi, fare il macho, e abbracciare il potente partito delle armi (Trump).

I cambiamenti demografici (con conseguenti effetti elettorali) si fanno invece sentire soprattutto nel sud degli Stati Uniti. In Arizona, ad esempio, e in Texas. La popolazione ispanica, che a metà del secolo scorso valeva il 3% della popolazione, salirà nel 2050 al 30%: sono questi latinos che forse decideranno il voto. Perché Arizona e Texas sono stati tradizionalmente repubblicani, ma proprio il crescente peso delle minoranze e dei gruppi etnici, forte anche nei maggiori centri urbani del Paese, potrebbe cambiare il risultato finale. Trump ci ha messo ovviamente del suo,aprendo la sua corsa alla Casa Bianca con l’accusa rivolta alle autorità messicane di rovesciare sul suolo americano trafficanti e stupratori. Come se fosse sul set de «L’’infernale Quinlan», il film capolavoro di Orson Welles ambientato al confine tra Messico e Stati Uniti.In verità, Trump ne assume anche la parte: quella del poliziotto spiccio e dai modi autoritari, che serve la giustizia a modo suo, fabbricando prove false, se necessario, pur di acciuffare i colpevoli. (È, però, azzeccandoci).

Ma la domanda è: questi ispano-americani – e le minoranze etniche in genere – voteranno contro Trump offesi dalla sua political uncorrectness e dai provvedimenti annunciati contro gli immigrati irregolari, oppure prevarranno le preoccupazioni di carattere economico, la mancanza di lavoro, l’incertezza sul futuro? In fondo, non si può essere stanchi all’idea di doversi spingere sempre più avanti, soprattutto se non è più chiaro verso dove?

Se così fosse, avrebbero ragione quelli che scomodano la parola nichilismo a proposito del «secolo americano»,del suo inveramento nei processi di finanziarizzazione dell’economia, nell’esplosione delle tecnologie informatiche, nel trionfo della società dello spettacolo: si capirebbe perché Trump possa rappresentare agli occhi di molti il ritorno a un’America forte, sana, autentica, che sa quel che vuole e che si fa rispettare.

Quello che forse è mancato ad Obama, agli occhi di molti americani. La sua ritrosia ad usare l’«hard power», che negli ultimi tempi ha dovuto sempre più confrontarsi col protagonismo crescente della Russia di Putin, ha finito per consegnare l’immagine di un Paese incerto sul da farsi, un’America più che paziente riluttante, più che prudente rinunciataria.

Il paradosso è che dei due candidati, Trump è quello più isolazionista, pronto a riaggiornare la dottrina Monroe – quella dell’America agli americani – mentre Clinton è, secondo il filosofo e psicanalista sloveno Zizek, che ha a lungo insegnato negli States, il prototipo perfetto dell’interventismo democratico, dell’idealismo a cui però sono i droni killer ad aprire la strada.

Di paradosso in paradosso, Zizek capovolge tutta la nostra  maniera di guardare alla scena americana. Invece di parteggiare per i buoni, per il nero Obama e per la donna Hillary; invece di stare dalla parte dell’America liberal, che lotta per i diritti e contro le ingiustizie sociali, Zizek sta con il cattivo, con Trump, sta con gli «incazzati neri» che si sono stufati del riformismo inconcludente e moraleggiante che non cambia veramente le cose. Zizek si sa, è un leninista non pentito, per il quale il comunismo continua ad essere il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, mentre democratici, progressisti e riformisti di ogni specienon aboliscono proprio nulla, e coprono anzi  una realtà fatta di diseguaglianze crescenti. Zizek, insomma, è per la scossa, per lo choc, quella che secondo molti neppure il primo Presidente nero eletto otto anni fa ha saputo dare, accendendo speranze in certa parte deluse.

Ebbene, non è detto che stanotte non accada davvero qualcosa del genere.

Ma anche se si tirerà il fiato e si penserà che l’abbiamo scampata bella, il segnale è arrivato forte e chiaro anche da questa parte dell’oceano.

(Il Mattino, 8 novembre 2016)

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