Archivi del mese: dicembre 2016

Legge elettorale, le regole del Colle

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Un indizio è soltanto un indizio, due indizi fanno una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova. La scrittura della nuova legge elettorale non è un romanzo di Agatha Christie, ma ieri di indizi ne sono venuti proprio tre, come voleva la regina del giallo. Il primo lo ha fornito Silvio Berlusconi, che salito al Quirinale per il messaggio di auguri del Capo dello Stato, ha detto che di legge elettorale si tornerà a parlare dopo la Consulta, essendo necessario, su una materia così «seria», confrontarsi attorno a un tavolo per giungere a un testo condiviso.

Campa cavallo? L’unica indicazione che il Cavaliere ha fornito nel merito non va, peraltro, in direzione del Mattarellum proposto domenica, nell’Assemblea nazionale del Pd, da Matteo Renzi. Serve una legge – ha detto – che «faccia corrispondere maggioranza parlamentare e maggioranza politica». Ora l’idea stessa di una corrispondenza confligge con i meccanismi disproporzionali di qualunque legge capace di generare effetti maggioritari, come i collegi uninominali del Mattarellum. Quindi, quello del Cavaliere a tutto somiglia meno che a un via libera.

Del resto, Forza Italia non ha mai amato la legge che porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica: proprio per via dei collegi, che obbligano le forze politiche a raggiungere un accordo a livello locale, collegio per collegio, su un solo nome. Cioè costringono Berlusconi a subire il forte radicamento territoriale della Lega in certe aree del Paese.

Il secondo indizio – e siamo alla coincidenza – è venuto dai lavori parlamentari, con la scelta di non procedere all’esame della materia elettorale prima della sentenza della Consulta. La Lega ha alzato la voce, denunciando l’inedita alleanza, in commissione affari costituzionali, fra Pd, Forza Italia, M5S, e accusando i parlamentari di puntare al vitalizio, tirando per le lunghe la legislatura almeno fino al prossimo autunno. Ma non occorrono motivazioni così basse: si può fornire una spiegazione più politica per la decisione assunta, che sta meno nella volontà di allungare i tempi e più nelle perplessità che la proposta di Renzi solleva. In Forza Italia s’è detto. Quanto ai Cinquestelle, confidando di vincere le elezioni, essi sperano ancora in un Italicum magari riveduto e corretto dalla Corte, ma che mantenga comunque un premio per il primo partito. Se poi così non fosse, la seconda scelta non sarebbe certo il Mattarellum, che dà qualcosa in più, col meccanismo uninominale, alle formazioni in grado di esprimere una classe dirigente ampia e riconosciuta (che ad oggi il Movimento non ha), bensì un sistema proporzionale, che dà a ciascuno il suo senza risolvere la questione del governo. Con i chiari, anzi i raggi di luna dei cieli romani, mancare l’appuntamento del governo nazionale ma ingrossare le proprie file in Parlamento non sarebbe forse una cattiva soluzione, per Grillo & Casaleggio.

Infine il Pd: il voto di domenica lo ha ricompattato intorno alla proposta del segretario, però è noto che molti, dentro il partito, pensano che per Renzi le cose si complicherebbero non poco in uno scenario di tipo proporzionale. Nel gioco parlamentare che la prima Repubblica allestiva per giungere alla formazione dei governi (per farli, certo, e per disfarli), la regola non scritta era infatti che il Presidente del Consiglio non fosse il segretario del partito. Ci sono voluti Spadolini prima e soprattutto Craxi poi per cambiare le consuetudini dei capi democristiani. Era un altro mondo, naturalmente, ma a parte nostalgie e rimpianti – almeno in parte giustificate dalle prestazioni non eccelse dell’assetto istituzionale della seconda Repubblica – di sicuro c’é, nel Pd, chi si chiede perché dare ancora a Renzi, col Mattarellum, una dote maggioritaria che potrebbe portarlo di nuovo alla guida del governo.

Queste, ammettiamolo, sono solo ipotesi, congetture, ragionamenti astratti. Ma poi c’è il terzo, decisivo indizio: ci sono le parole del Presidente della Repubblica. A sentir le quali, di nuovo: la legge elettorale si allontana. Per Mattarella il sistema va senz’altro  «riallineato rispetto agli orientamenti del corpo elettorale», ma solo nel momento in cui «l’andamento della vita parlamentare ne determinerà le condizioni». Non c’è posizione più corretta dal punto di vista costituzionale, ma è comunque una non piccola sottolineatura. Qualcosa di più di una precisazione in dottrina. Tanto più che il richiamo, detto che non si può andare al voto con due leggi opposte fra Camera e Senato – una «fortemente maggioritaria», l’altra «assolutamente  proporzionale» – è stato accompagnato dall’invito a trovare una soluzione «più ampia della maggioranza di governo».

Di nuovo: è assolutamente corretto ed anzi auspicabile, e però una soluzione del genere da un lato prende tempo, dall’altro è molto difficile che si trovi intorno al Mattarellum, voluto allo stato solo dal partito democratico (renziano) e dalla Lega. Ora si può immaginare che la legge elettorale la facciano il Pd e la Lega? Forse no. E forse, se tre indizi fanno una prova, la battaglia politica che Renzi deve ingaggiare per spuntare una legge che gli restituisca lo scettro della leadership è molto più dura del previsto.

(Il Mattino, 21 dicembre 2016)

Renzi tra autocritica e rilancio

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Un voto quasi unanime dell’Assemblea nazionale segna la ripartenza del partito democratico. La minoranza non partecipa al voto, ma dà il via libera alla proposta di Renzi di ricominciare dal Mattarellum, «l’unica proposta che può essere realizzata in tempi brevi». E che può tastare la voglia di elezione degli altri partiti. Il congresso viene riportato alle scadenze statutarie, quindi dopo le politiche, anche per evitare di farne solo una conta, e nel frattempo si prova a rilanciarne l’azione con una conferenza programmatica e una mobilitazione dei circoli sul territorio. C’è spazio anche per qualche spunto personale e qualche stilettata polemica, per una parola di solidarietà per il sindaco di Milano, Sala, e per un attacco frontale alla Raggi e ai Cinquestelle, ma gran parte del discorso è rivolta a ristabilire un clima di confronto civile all’interno del partito.

L’ex premier fa velocemente il bilancio dei mille giorni passati al governo, rivendica il lavoro compiuto ma non vi si dedica troppo: non è il momento di celebrarsi. L’analisi del voto è severa, senza compiacimenti per quel 41% di sì che non cambia i termini del risultato: per il Pd è stata una sonora sconfitta, soprattutto al Sud e tra i giovani. «Abbiamo straperso», dice Renzi senza giri di parole. Ma è escluso che si torni indietro, e per togliere ogni dubbio mette nella colonna sonora dell’Assemblea l’inno beffardo di Checco Zalone alla prima Repubblica. E però, a fine giornata, le idee forti per ripartire daccapo e rimettersi il partito in asse col Paese latitano un po’.

Le quattro sconfitte.

Renzi non comincia dall’analisi del voto, ma ci arriva presto. E non fa sconti, non usa giri di parole. Ammette che la via del cambiamento istituzionale come risposta alla crisi generale del Paese è ormai preclusa. La sconfitta è maturata non una ma quattro volte: nel Sud, tra i giovani, nelle periferie, sul web.  Non è poco, perché chiama in causa la natura stessa di un partito di sinistra, che proprio in quelle aree e in quelle fasce sociali dovrebbe invece riscuotere più consenso. Fa male a Renzi soprattutto non aver convinto le nuove generazioni, sia per il segno generazionale che aveva impresso alla sua leadership, sia perché le riforme costituzionali dovevano parlare del futuro della nuova Italia, e dunque convincere anzitutto loro. L’unico lenimento alla sconfitta è la consapevolezza che quelli del No non hanno una proposta politica: « C’era nel fronte del No chi diceva che in 15 giorni avrebbe fatto le sue proposte di riforma. Aspettiamo i prossimi cinque mesi».

Le riforme

Un libro racconterà l’esperienza del governo Renzi. In altri tempi, i mille giorni sarebbero forse stati ripercorsi da Renzi con il passo di una campagna napoleonica: l’ex Presidente del Consiglio deve invece limitarsi al progetto editoriale e a un’orgogliosa rivendicazione del lavoro svolto. Quando però dice che le riforme approvate dal suo governo non puzzano, ma resteranno nella storia del Paese, si sente che lo dice con convinzione. È significativo tuttavia che scelga, per riassumere il senso dell’operato del suo governo, la legge contro il caporalato, la legge sulle unioni civili, la legge sullo spreco alimentare. Il bilancio è cosa del passato, e il mio governo è già passato remoto, dice Renzi, ma intanto sceglie di non citare la buona scuola e il jobs act, e di richiamare le misure condivise da tutto lo schieramento democratico. Lo fa anche perché registra dal voto e dal dibattito interno l’esigenza di spostare più a sinistra il baricentro del partito. (Sull’orizzonte del nuovo governo Gentiloni c’è poco o nulla nel suo discorso, e così anche in quello di tutti gli altri relatori dell’Assemblea: giusto, insomma, lo spazio di una parentesi).

Il tempo dei tour è finito.

Il terreno sul quale più ampia si fa la disponibilità del Segretario è quello del partito e della sua interna organizzazione: Renzi annuncia un imminente incontro con tutti i segretari provinciali e regionali, poi una grande mobilitazione dei circoli e, più in là, una conferenza programmatica. L’accento viene portato sul noi, sul senso di appartenenza, sulla comunità dei democratici (in contrapposizione con l’azienda privata Casaleggio & associati, che procede a colpi di contratti e di penali per gli eletti del Movimento Cinquestelle). Accetta le critiche alla personalizzazione della lotta politica e rinuncia a ripartire in tour, col camper: il partito di Renzi, insomma, non si materializza neppure questa volta. Del resto, l’analisi è persino edulcorata rispetto alla realtà del partito in molte zone del Paese, e Renzi ne è chiaramente consapevole. Lo si capisce per esempio dal passaggio in cui dice che nel Mezzogiorno si è sbagliato a puntare sul notabilato locale, invece che cercare forze nuove e vive nella società. La frittura di pesce di De Luca non è stata ancora digerita.

Niente melina.

La proposta del Mattarellum è quella che ha scatenato il momento più vivace della giornata, con Giachetti che insulta il novello Davide, Speranza, sceso in campo contro Golia-Renzi («hai la faccia come il c.!», gli urla Giachetti, e parte la bagarre). Si capisce perché: era la proposta che il Pd di Bersani, con Speranza capogruppo, aveva lasciato cadere, assecondando la scelta del 2013 di votare col Porcellum. Col Mattarellum la legge elettorale mantiene un impianto maggioritario, grazie ai collegi uninominali, il che consente a Renzi di tendere una mano a Pisapia, il quale ha il non facile mandato di federare lo sparso arcipelago alla sinistra del Pd, e di spegnere o almeno attenuare le pulsioni proporzionaliste che serpeggiano in Parlamento, in quasi tutte le forze politiche: nella minoranza Pd, che la considera come una sconfessione della stagione renziana; in Forza Italia, che non avrebbe più il problema di allearsi con Salvini; nei piccoli partiti, che non avrebbero il problema di confluire nei grandi; fra gli stessi Cinquestelle, che di andare da soli fanno una religione. Ma Renzi sa che i collegi uninominali premiano il partito che ha più nomi e classe dirigente da mettere in campo e, checché se ne pensi, questa forza rimane, a tutt’oggi, il partito democratico. Di qui la proposta, e l’energico invito a non fare melina. Col Mattarellum hanno vinto sia la destra che la sinistra: quindi un accordo lo si può trovare, ha detto Renzi. E forse ci crede davvero.

Ideologia, malgrado tutto

C’è qualcosa che Renzi ha lasciato fuori? Ha fatto il bilancio del governo e l’analisi del voto; ha indicato un nuovo fronte di impegno nel partito e formulato una proposta chiara e forte sulla legge elettorale; ha menato fendenti ai grillini e qualche stilettata a Bersani & Company: che altro? Forse di altro il Pd avrebbe bisogno. Perché molti interventi – da Cuperlo a Orlando, da Martina a Del Rio – hanno ragionato di una crisi della sinistra, in Italia e in Europa, che data da molti anni. Si sono sentiti accenti preoccupati sulle diseguaglianze crescenti, sulle nuove povertà, sui populismi alimentati da paure e insicurezze, sulle nuove esigenze di protezione sociale, sulla necessità di ripensare il ruolo dello Stato, ma la distanza tra il Pd e quest’orizzonte di temi e problemi rimane ampia: sul piano  culturale e ideologico prima ancora che su quello programmatico. A quelli che pensano che le ideologie sono defunte basterebbe sussurrare due o tre nomi: Trump, Le Pen, Brexit; e aggiungere parole come: Islam, emigrazione, banche, euro. A torto o a ragione, su tutte queste parole esiste un compatto fronte di idee in cui pesca la destra europea, e i suoi emuli italiani. E la sinistra? Come legge il Pd la globalizzazione, come legge o corregge la modernizzazione del Paese, come ridefinisce il suo profilo mentre il socialismo europeo continua ad andare a rimorchio delle forze moderate e popolari, dalla Merkel, in Germania, a Fillon, in Francia? Renzi è rimasto sulla superficie, e forse non poteva fare altrimenti, per riprendere in mano il partito e guidarlo nella prossima campagna elettorale. Ma che il Pd abbia bisogno di sterrare le radici della propria storia, per ripiantarle meglio e più in profondità, è pensiero di cui, dopo il 4 dicembre, molti ormai si sono fatti persuasi.

(Il Mattino, 19 dicembre 2016)

Due pesi due misure e un avviso

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Si è parlato di ultimatum, ma la situazione in cui si è infilato il Movimento Cinquestelle, a Roma, somiglia invece a un gioco «lose-lose»: comunque ti muovi, perdi. Perdi tu, e perde Virginia Raggi. Riuniti in un conclave che, per l’ennesima volta, non ha più nulla dello streaming delle origini, i capi del Movimento dovevano decidere se ritirare il simbolo che sei mesi fa aveva espugnato il Campidoglio, promettendo una rivoluzione che non è mai iniziata, o commissariare il sindaco, pazienza se questo avrebbe comportato il ridimensionamento della sua figura e una aperta sconfessione del suo operato.

La prima opzione equivaleva ad ammainare la bandiera a Cinquestelle dai colli fatali di Roma. Che se poi l’Amministrazione fosse caduta per l’indisponibilità dei consiglieri a proseguire fuori dall’orbita del Movimento (come invece è accaduto a Parma, con Pizzarotti), sarebbe stato persino meglio. I pentastellati avrebbero potuto dire, in tale ipotesi, che loro sono e rimangono diversi, che loro non accettano compromessi, che loro ci mettono un secondo a cacciare chi viola i principi del Movimento, che loro non guardano in faccia a nessuno. Tutto ben detto, salvo che la via d’uscita sarebbe stata la più clamorosa sconfitta per i Cinquestelle, che sulla Raggi alfiere del rinnovamento avevano puntato tutte le loro fiches. È illusorio, infatti, pensare che Grillo possa fare con la Raggi quello che maldestramente ha tentato di fare la Raggi con Marra: come lei ha detto che in fondo era solo uno dei dodicimila dipendenti del Comune, così Grillo e i suoi avrebbero dovuto provare a dire che in fondo la Raggi non è che uno degli ottomila sindaci d’Italia. La Raggi si è scusata per aver scelto Marra: sarebbe bastato che Grillo si scusasse per aver scelto la Raggi?

La seconda opzione, quella per la quale Grillo si è risolto, al termine di un vertice fiume, punta a debellare il virus che ha infettato il Movimento, – per usare l’espressione impiegata da una personalità di punta dei Cinquestelle romani, Roberta Lombardi –, allontanando, dopo l’arresto del fidatissimo Marra, anche gli altri uomini sui quali Virginia Raggi ha puntato: il vicesindaco Daniele Frongia e Salvatore Romeo, capo della segreteria politica. L’ipotesi è insomma che la via d’uscita sia spegnere il raggio magico, e mettere definitivamente il sindaco sotto stretta tutela. In realtà, avevano già provato a fare una cosa del genere: con il contratto che la candidata aveva dovuto firmare (con tanto di penale in caso di «danno d’immagine» al Movimento), e con la costituzione di un mini-direttorio sulle rive del Tevere, ben presto però sciolto per manifesta inutilità. La Raggi infatti aveva orgogliosamente rivendicato la propria autonomia. La quale però, com’è di tutta evidenza, si fondava proprio sugli uomini finiti nel mirino delle indagini. Dove, d’altra parte, avrebbe dovuto andare a prendere una classe dirigente pentastellata? I grillini non ce l’avevano, e forse aveva ragione un’altra esponente di peso, Paola Taverna, quando disse (per paradosso ma non troppo) che a Roma sarebbe stato molto meglio perdere: sta di fatto che il sindaco ha pescato nel giro delle sue amicizie, dei suoi rapporti personali, professionali, anche per mantenere un minimo di indipendenza. Partita col piede sbagliato, in mezzo a mille incertezze, tra assessori nominati e poi revocati, assessori dimessi e ora anche dirigenti arrestati, la possibilità che la Raggi continuasse a fare di testa sua e che il Movimento la seguisse compattamente era già del tutto tramontata. Ma ora commissariare il sindaco, chiedere e ottenere la testa dei suoi fedelissimi, non farle fare più un passo senza l’approvazione di Grillo (o del suo Staff, o di Casaleggio, o del direttorio nazionale, o dei parlamentari romani, o dei presidenti pentastellati dei municipi cittadini, oppure di tutti costoro messi insieme) significa comunque esporsi al rischio che, alla prossima tegola, se ne venga giù tutto il tetto del Campidoglio, e che il Movimento intero, non solo la Raggi, ci finisca sotto. Perché le procedure con le quali ha proceduto alle nomine sono tuttora sotto la lente dei magistrati: cosa succederà allora se domani arrivasse al primo cittadino un avviso di garanzia per abuso d’ufficio? Nel contratto, il «danno di immagine» è quantificato per la modica somma di 150.000 euro, e a quanto si sa la Raggi, al primo stormir delle fronde, avrebbe chiesto un parere legale circa l’esigibilità di quella cifra. Ma a parte la vile pecunia: il danno politico?

Stretto fra queste due opzioni, Grillo ha deciso: commissariamento. Romeo si dimette, Frongia non fa più il vicesindaco e mantiene solo le deleghe. E pure il fratello di Marra se ne va. Il tutto viene rubricato sotto la voce «segno di cambiamento», come se la giunta Raggi non fosse in piedi da soli sei mesi, e il problema non fosse casomai quello di durare, essendo cambiata la squadra di governo già troppo in così poco tempo. Ma tant’è: anche i grillini scoprono il politichese e la realpolitik.

E se poi la Procura notificasse davvero qualcosa, nei prossimi giorni o nelle prossime settimane? Ecco la risposta di Grillo, che merita di essere letta per intero, e, quasi, di essere lasciata senza commento: «A breve defineremo un codice etico che regola il comportamento degli eletti del MoVimento 5 Stelle in caso di procedimenti giudiziari. Ci stanno combattendo con tutte le armi comprese le denunce facili che comunque comportano atti dovuti come l’iscrizione nel registro degli indagati o gli avvisi di garanzia». Definiranno un codice etico. Tradotto: fino a ieri un avviso di garanzia comportava dimissioni; da oggi, per i nostri, cominceremo a parlare di atti dovuti e ci riscopriremo garantisti. Contro gli altri continuiamo a strillare in piazza «onestà! Onesta!», per i nostri gridiamo invece al complotto e ce la prendiamo con quelli che ci vogliono fermare. Due pesi, due misure, due morali. Se la contraddizione non esplode prima e arrivano presto le elezioni, magari Grillo la sfanga, ma Roma no.

(Il Mattino, 18 dicembre 2016)

 

 

La falsa ingenuità di Virginia e il vero imbarazzo di Grillo

virginiaraggi2x-2Il gelo delle dichiarazioni che accompagnano le avventure e le disavventure della sindaca di Roma Virginia Raggi la dice lunga sul clima che si respira in casa Cinquestelle. Paola Muraro è un problema suo, della sindaca, ha detto seccamente Grillo dopo le dimissioni dell’assessore all’Ambiente, raggiunta da un avviso di garanzia. Volerla difendere è stata una scelta della sindaca, ha detto la senatrice Paola Taverna, che con il primo cittadino della Capitale non ha mai avuto un particolare feeling (eufemismo). E così si esprimono anche gli altri, anche i Di Battista o i Di Maio, o quelli più abbottonati che cercano di non dire una parola, ora che la Guardia di Finanza è entrata in Campidoglio e ne è uscita con gli scatoloni pieni così di carte, e l’idea di passare al setaccio tutte le nomine fatte dalla giunta nei primi mesi della sindacatura a cinque stelle.

L’imbarazzo è grande, e Grillo e i suoi hanno compreso subito che non è il caso di schierare il Movimento come un sol uomo al fianco della sindaca. Si rischia di scottarsi. Così uno tace, quell’altro evita di incontrarla, un altro ancora precisa che non c’è nulla da nascondere e – ci mancherebbe pure! – tutti, ma proprio tutti si dicono tranquilli.

La tranquillità sul versante giudiziario non è però pari alla preoccupazione su quello politico: a un passo dalle elezioni, che potrebbero consegnare ai pentastellati il governo del Paese, l’Amministrazione capitolina non può naufragare ancor prima di aver intrapreso la navigazione. Eppure i mesi passano e Virginia Raggi sembra tornata alla casella di partenza: con l’assessore che si dimette, le deleghe trattenute nelle mani del primo cittadino, le nomine sub iudice e tutt’intorno i malumori palpabili del Movimento.

La sindaca, dal canto suo, pare aver deciso di interpretare fino in fondo il ruolo della persona ingenua e inesperta (guai a chi dice: della bambolina imbambolata!), di quella che agisce sulla base del parere degli uffici, e dunque, se sbaglia, sbaglia in perfetta buona fede. Come se un errore in buona fede non avesse effetti sulla buona o cattiva amministrazione di un municipio e fosse quindi perfettamente scusabile. Ma la politica, lo spiegava Max Weber, è indistricabilmente connessa non con le incrollabili convinzioni di ciascuno, ma con le conseguenze collettive e pubbliche delle proprie azioni (o inazioni). Conta l’etica della responsabilità, non quella delle intenzioni.

Il particolare che non può sfuggire è che Virginia Raggi è entrata in carica ormai da un pezzo. Non è più una semplice cittadina, come la retorica del Movimento continua a ripetere: firma atti, prende decisioni, e per ciascuna firma, per ogni decisione si assume una precisa responsabilità. Politica, non solo amministrativa.

Eppure, in maniera «super-tranquilla» – come dice supertranquillamente Di Battista – i Cinquestelle continuano a mostrare di tenere sopra ogni altra cosa alla trasparenza dei comportamenti, piuttosto che all’efficacia dell’azione di governo dell’ente. Trattandosi di Roma, della capitale d’Italia, non è un particolare da poco. Che peraltro produce risultati paradossali, persino grotteschi.

Basta guardare il videoselfie con il quale, nel cuore della notte, la sindaca ha dato l’annuncio di avere accolto le dimissioni della Muraro. Un’inquadratura degna del più agghiacciante film di Roman Polanski, «Rosemary’s Baby». Vedere per credere: colori lividi e spenti, Virginia Raggi in primo piano, e alle spalle, tutti seduti intorno a un grande tavolo, muti, seri e con le mani conserte, i consiglieri del Movimento. Se la messa in scena voleva trasmettere fiducia, sicurezza, unità, padronanza della situazione, beh: Virginia Raggi è riuscita a fare esattamente il contrario, a dare la più vivida rappresentazione dell’inquietudine quasi lugubre che serpeggia nella stessa maggioranza. È singolare come tutta questa conclamata trasparenza non lasci entrare nelle stanze del Campidoglio nemmeno una ventata di aria fresca e libera: tutti fermi, tutti zitti, tutti chiusi dentro una stanza e costretti dentro la stessa inquadratura.

Ma, si dirà, la semiologia non è la politica, e dunque si può lasciar perdere l’analisi di questa singolarissima maniera di comunicare la decisione della Muraro di mollare.

Resta però la distanza lunare dai problemi della città, l’impalpabilità dell’azione amministrativa, la difficoltà di misurarsi con la quotidianità dei problemi di una metropoli come Roma, e il dubbio che non basti affatto proclamare di avere le mani nette per meritarsi la patente di buon amministratore. La Guardia di Finanza non troverà nulla negli scatoloni: è molto probabile. Ma è altrettanto probabile che non trovino nulla neppure i romani, al tirar delle somme.

(Il Mattino, 16 dicembre 2016)

Debolezza come strategia

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La rapida soluzione della crisi di governo per l’ultimo tratto della legislatura non riserva sorprese: Paolo Gentiloni ha confermato quasi per intero l’Esecutivo uscente, salvo alcuni piccoli spostamenti e qualche nome nuovo che non modifica la caratura politica del Ministero. Non lo si può dire un governo costituito per il solo disbrigo degli affari correnti, come sarebbe stato un governo dimissionario guidato ancora da Matteo Renzi, perché è invece nella pienezza dei suoi poteri e, formalmente almeno, senza limite alcuno di mandato. Ma il limite è stato chiaramente indicato dal partito di maggioranza, che per bocca del suo Presidente, Orfini, ha definito «inconcepibile» l’ipotesi di un prosieguo della legislatura fino alla scadenza naturale: Il Pd ha insomma accettato per mero senso di responsabilità, non essendo percorribili le due strade indicate nelle consultazioni con il Presidente Mattarella: o elezioni subito, oppure un governo con dentro tutti. La prima via è obiettivamente impraticabile, in attesa del pronunciamento della Consulta sulla costituzionalità dell’Italicum, previsto per il 24 gennaio; la seconda invece risulta impercorribile per l’indisponibilità delle forze politiche di opposizione. Che preferiscono, com’è ovvio, lasciare il partito democratico con il cerino del governo in mano, riservandosi il compito di rappresentare il malcontento e il disagio sociale. Dunque, per Gentiloni c’era poco altro da fare. E il nuovo premier ha svolto diligentemente la missione affidatagli: rimettere velocemente in piedi il governo dopo che Renzi e le sue riforme ne sono state sbalzate di sella, e accompagnare il Paese verso elezioni anticipate, non appena saranno definite dalle forze politiche le condizioni dell’accordo per poter votare con una nuova legge elettorale. Facendo nel frattempo fronte agli impegni internazionali, senza contraccolpi sulla stabilità e la governabilità del sistema.

È chiaro che in questo modo il Dicastero Gentiloni nasce strutturalmente debole. La sua debolezza è peraltro segnalata dal fatto politico più rilevante della giornata di ieri: il mancato ingresso dei verdiniani nella compagine governativa. Se il Presidente del Consiglio incaricato avesse dovuto creare le condizioni per una più lunga navigazione nelle aule parlamentari – in particolare al Senato, dove la maggioranza ha numeri risicatissimi – avrebbe lavorato per portare la formazione centrista nel governo. Ma Gentiloni ha un’assicurazione sulla sua permanenza a Palazzo Chigi, che è data dall’assenza della legge elettorale, e però ha anche la data di scadenza già scritta sulla sua confezione, per quando appunto la legge sarà fatta. Dunque: di Verdini e della sua Ala non c’è bisogno. Di più. Avere il suo appoggio avrebbe rappresentato un impaccio per Matteo Renzi: gli avrebbe attirato qualche strale in più da parte della minoranza interna e delle opposizioni. Lui ha altro per la testa: rifare daccapo, e in tempi accelerati, tutto il percorso che lo aveva portato al governo, marcando la sua estraneità rispetto ai vecchi inciuci da prima Repubblica e rivendicando la chiarezza del suo percorso. In due parole: ho perso, me ne vado. Però provo a prendermi la rivincita, e se vinco ritorno. L’extra-time del governo Gentiloni, insomma, non l’ha voluto lui e non gli serve. Gli occorre invece vincere il congresso del Pd, e andare finalmente al confronto nelle urne con Grillo e i suoi. Non è la continuità di governo che gli interessa rimarcare, e non sarà quello il terreno su cui si misurerà nel prossimo confronto elettorale.

Così, gli aggiustamenti resi necessari anzitutto dallo spostamento dello stesso Gentiloni dalla Farnesina a Palazz Chigi sono come quei piccoli segnali luminosi che le navi mandano mentre si avvicinano al porto: nient’altro che un avviso che l’attracco non è lontano. Il fedelissimo Lotti ottiene allora un ministero senza portafoglio; Maria Elena Boschi accetta invece un riposizionamento, essendosi sovraesposta nella campagna referendaria. Ma non esce dal governo, e anzi va a occupare la poltrona che era stata fin qui proprio di Lotti. Come dire: solo scosse di assestamento. Entra Valeria Fedeli (ex CGIL) all’Istruzione, dove paga il prezzo più alto il ministro Giannini. Un’uscita che però non stupisce: vuoi per la debolezza politica del ministro, proveniente da una formazione politica, Scelta Civica di Monti, praticamente scomparsa, vuoi perché la riforma della scuola non ha dato, almeno in termini di consenso, i risultati sperati. Poi ci sono le new entry: un paio di sottosegretari che diventano ministri (Minniti e De Vincenti) e Anna Finocchiaro che prende il posto della Boschi. Nomi più ingombranti, o in grado di imprimere un segno diverso al Ministero – un Fassino, un Cuperlo, un Rossi Doria – sono rimasti fuori, ma c’è tuttavia un tentativo di ampliare un poco il perimetro del governo ad altre sensibilità, con una storia un po’ più connotata a sinistra. Rispetto alle emergenze del Paese, la scelta più incisiva è però il nuovo ruolo assegnato a De Vincenti, che come ministro della Coesione territoriale potrà proseguire il lavoro positivo già avviato per tentare di ricucire il rapporto del Mezzogiorno con il resto del Paese.

C’è infine una promozione, o quasi: quella di Angelino Alfano che passa dall’Interno agli Esteri. Procurando più di ogni altro un certo sapore di prima Repubblica (e di vecchia Democrazia Cristiana, quando i maggiorenti della Balena Bianca si scambiavano di posto da un Dicastero all’altro per assicurare l’equilibrio tra le correnti). Ma questo è quasi un episodio di colore, la dimostrazione che la vera partita politica non si gioca in quei ruoli, e non si gioca nel voto di fiducia al governo. È il voto dei cittadini quello che indicherà il percorso di uscita dalla seconda Repubblica.

(Il Mattino, 13 dicembre 2016)

Quell’Italia che torna alla prima Repubblica

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Due referendum sul jobs act: uno per cancellare lo strumento dei voucher, l’altro per tornare a far valere l’art. 18 per le imprese con più di cinque dipendenti. E poi un terzo referendum sulla materia degli appalti pubblici, e i diritti dei lavoratori delle imprese subappaltatrici. La raccolta, partita per iniziativa della Cgil, è arrivata alla bella cifra di 3,3 milioni di firme. Ora, con la decisione dell’Ufficio centrale, ha il bollino della Cassazione. Firme certificate, quorum raggiunto, richiesta di referendum valida. Se la Corte Costituzionale dovesse considerare i quesiti ammissibili, gli italiani potrebbero tornare al voto già nella prossima primavera, sempre che non ci tornino per la fine anticipata della legislatura. Ma, in un caso o nell’altro, quel popolo di navigatori (santi, eroi) che è il popolo italiano potrà, come Ulisse, vedere finalmente la costa del ritorno in patria. Cioè nei più confortevoli paesaggi della prima Repubblica: con la legge elettorale proporzionale, lo Statuto dei lavoratori, la partitocrazia, Pippo Baudo appena riapparso in TV e tutto quanto il resto.

Come dargli torto? La prima Repubblica ha portato l’Italia dalle macerie della seconda guerra mondiale fin nell’esclusivo club del G7, cioè delle sette maggiori potenze economiche del mondo, mentre la seconda non ha smesso di perderne, di posizioni. È vero, la prima Repubblica cambiava governi più frequentemente del cambio di stagione, mentre la seconda ha provato ad allungarne un po’ le opere e i giorni. Ma nella prima, se è vero che i governi si davano il cambio, i parlamentari però rimanevano dov’erano; nella seconda, il prezzo della stabilità è stato invece pagato ogni volta con la più ampia transumanza parlamentare che la storia ricordi, roba dinanzi alla quale cedono il passo anche gli inventori e primi interpreti del trasformismo, al tempo del fu Regno d’Italia.

Perciò: meglio tornare. La seconda Repubblica apparirà come una rischiosa avventura in terre incognite, per le quali in un momento di sbandamento l’Italia si è inopinatamente spinta: crolla il muro di Berlino, finisce la guerra fredda, franano i partiti, scompare la DC e il PCI cambia nome, ci sta che si perda la bussola per qualche lustro. Del resto, tutto quel gran parlare di fine delle ideologie e di postmodernità, in un Paese che non aveva ancora ben digerito neppure la modernità, non può non aver contribuito a creare un artificiale clima di confusione. All’inizio forse di euforia, ma alla fine sicuramente di smarrimento.

Perciò: meglio tornare. Meglio vedere Heather Parisi e Lorella Cuccarini di nuovo in televisione. Meglio seguire le piste dei Pooh, che vanno in concerto un’ultima volta. Meglio metter su un disco in vinile, che vende di più e la musica si ascolta pure meglio. Meglio Rischiatutto e Bim Bum Bam, con i cartoni animati degli anni Ottanta: Lady Oscar, Mimì e la nazionale di pallavolo, i Puffi e Candy Candy. Se poi anche la moda ci dà una mano, tornando ancora più indietro, agli anni Settanta, con le prossime collezioni a colpi di camicie floreali e jeans ricamati, allora è fatta, allora forse potremo guardarci attorno e pensare che siamo di nuovo a casa. Altro che Telemaco che va per mare alla ricerca del padre: Pinocchio è tornato, Gian Burrasca è tornato. Che se poi in tasca avessimo pure la vecchia lira, e non l’odiato euro, allora veramente potremmo riavere indietro anche il resto, chissà: forse persino un baby-boom in stile anni Sessanta, invece di ritrovarci tra i piedi tutti questi sgradevolissimi immigrati.

Si dice che il dentifricio non lo puoi rimettere nel tubetto una volta uscito. Ma è la seconda Repubblica che ha tentato l’impresa impossibile di rimettercelo: noi rivogliamo direttamente il tubetto. E naturalmente rivogliamo Pippo Baudo. E Berlusconi che torna a far televisione, e da quest’altra parte rivogliamo Enrico Berlinguer.

Ora, non è che l’iniziativa della CGIL non sia una cosa seria. Lo è, e pone anzi a tema non solo il jobs act, ma l’intero complesso della legislazione sul lavoro come è venuta cambiando negli ultimi venti anni, dal pacchetto Treu a venir giù, fino agli ultimi interventi del governo Renzi. Altrettanto serio è il nodo della legge elettorale, per risolvere il quale ci si sta sempre più orientando in direzione di uno schema di carattere proporzionale che pare rinverdire i fasti della prima Repubblica.

Ma per ogni storia c’è forse una storia parallela, proprio come per ogni libro c’è un libro parallelo. Giorgio Manganelli rivelò il trauma intellettuale che l’epilogo di Pinocchio procura al lettore, con quel burattino che alla fine diventa buono e ubbidiente come tutti gli altri. E si inventò un’altra storia. Ecco: non vorremmo che questa idea di ritrovare la strada di casa riservi anche a noi, prima o poi, un qualche indesiderato impatto traumatico, e che l’Italia finisca da tutt’altra parte.

(Il Mattino, 11 dicembre 2016)

I grillini, il palazzo e il profumo della prima volta

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Sono loro, i Cinquestelle, la più vistosa differenza fra quello che c’era ieri e quello che ci sarà domani, in esito a questa crisi. Perché sono cominciate le consultazioni del Quirinale, che prenderanno almeno un paio di giorni e sopratutto vedranno sfilare una ventina di gruppi parlamentari, e non si è sentito ancora nessuno che si scagliasse contro questi consumati riti della vecchia politica, o magari che chiedesse di mandare tutto in streaming, perché i cittadini hanno il diritto di sapere cosa dicono i loro rappresentanti.

C’è una ragione: il Movimento non è mai stato così vicino al Palazzo, alle istituzioni, al governo. Con qualche sussulto interno per via della corsa per la leadership ma vicini, vicinissimi. Intendiamoci. In nessuna delle soluzioni di cui si ragiona, è previsto che i Cinquestelle entrino in una qualche maggioranza. Si tratti di un governo istituzionale, di un governo di scopo, di un governo di responsabilità nazionale, di un governo del Presidente o infine di un Renzi-bis, i Cinquestelle non ne faranno parte. La loro richiesta rimane una: al voto subito. Dopodiché molto dipenderà dalla legge elettorale, naturalmente, ma il voto sarà comunque, con ogni probabilità, anche una risposta alla domanda se Grillo e i suoi siano, per gli italiani, pronti per governare.

Lo sono? Secondo Alessandro Di Battista sì. Nell’intervista data al giornale tedesco «Die Welt», ripresa da «Repubblica», uno dei più autorevoli esponenti del Movimento – secondo il giornale, il più popolare – ha provato a delineare i contorni di una forza che non è più, anzi non è mai stata un semplice movimento di protesta. Che ha le idee chiare sui temi decisivi dell’attuale fase storica, quelli che determinano le linee di faglia lungo le quali si dispongono le principali formazioni politiche in Europa. Anzitutto l’immigrazione e l’euro. Sul primo tema, Di Battista è lapidario: «chi è privo di diritto d’asilo deve essere espulso». Sul secondo un po’ meno, nel senso che non dice esplicitamente che l’Italia deve uscire dalla moneta unica (i grillini vogliono che a decidere sia un referendum), ma attribuisce all’euro la responsabilità di tutti o quasi i mali dell’economia italiana.

Se a queste indicazioni aggiungiamo l’enfasi sulla green economy, l’idea di rilanciare lo sviluppo economico del Paese su enogastronomia, turismo e cultura, la lotta alla corruzione, la ricerca di una base sociale nella piccola e media impresa, la diffidenza verso la finanza che ruota intorno alle grandi banche, bene: otteniamo tutti i colori che Di Battista usa per completare il suo ritratto del Movimento. Che sono però due soltanto: il nero e il verde.

Di rosso, infatti, ce n’è pochino. Ma forse perché di rosso ce n’è sempre meno in tutta Europa: nell’Austria che domenica scorsa si è affidata al candidato verde per battere il candidato nero alla presidenza della Repubblica. E nella Francia che sembra andare sempre di più, alle presidenziali del 2017, a una sfida fra la destra lepenista e quella moderata, per archiviare definitivamente il settennato di Hollande. D’altronde, se si guarda dentro il partito socialista europeo: pure lì, il rosso sbiadisce sempre di più.

Ora però, tornando in Italia, il carattere antisistema o antipolitico del Movimento non dipende forse dal fatto che quei colori non erano compresi nella tavolozza costituzionale della prima Repubblica (e neanche nel progetto originario della comunità europea)? Il solo fatto di impiegarli ha effetti dirompenti. D’altra parte, lo scenario non solo politico, ma culturale e ideologico della prima Repubblica è cambiato, ormai un quarto di secolo fa, e tutti questi anni non sono bastati ad allestirne uno nuovo. La proclamata fine delle ideologie è, in realtà, la fine di alcune ideologie soltanto, perché è difficile non definire ideologiche certe prese di posizione, come quella dell’espulsione per tutti i migranti (fatti salvi, buon dio!, i soli richiedenti asilo) o il referendum sull’Euro (che procurerebbe più sobbalzi all’economia di quanti ne procuri la pura e semplice uscita). Si può dire anzi il contrario: che ad avere maggior fortuna elettorale sono proprio le forze in grado di innalzare la temperatura politica del voto, di investirlo di significati netti, persino drammatici, ben lontani dalla retorica delle necessarie riforme o dal ritornello grigio e burocratico della responsabilità.

Se così non fosse, il passaggio che l’Italia è chiamata ad affrontare non sarebbe così stretto. Perché la tavolozza dei colori è ormai mutata, e la sconfitta di Renzi è anzitutto la sconfitta di una via d’uscita dalla crisi della seconda Repubblica in grado di assorbire e far arretrare i Cinquestelle. Ma loro non sono arretrati; sono, anzi, avanzati.

E anche se una legge elettorale di impianto proporzionale dovesse svolgere la funzione di tenere i grillini lontano dall’area di governo, neanche così sarebbe un mero ritorno al paesaggio della prima Repubblica. Che aveva altri colori, un altro sistema politico e un altro orizzonte ideologico.

(Il Mattino, 9 dicembre 2016)

La sconfitta del partito personalizzato

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E ora cosa succederà, nel Pd? Oggi è giorno di Direzione nazionale, e i riflettori sono tutti puntati sulle scelte di Renzi, e sugli smarcamenti più o meno grandi che si registrano nella maggioranza. Perché è più facile seguire il leader nel trionfo, molto più difficile abbracciarne le sorti nella sconfitta. È un tema che si pone anche a Napoli, e in Campania. Vincenzo De Luca non è abituato a perdere le elezioni: non gli è mai capitato. Questa volta però è accaduto: persino a Salerno, dove il Sì si aspettava di vincere a mani basse.

La spiegazione che il governatore ha fornito è la seguente: la sfida era difficile, bisognava giocarla fino in fondo per lealtà a Renzi, ma le scelte del governo – sul lavoro, sulla scuola, sulla pubblica amministrazione –  ci hanno penalizzato. Il voto non ha dunque un significato locale, ma nazionale.

Ora, è chiaro che una simile analisi lascia quasi per intero a Renzi il peso della sconfitta. E probabilmente c’è del vero, dal momento che il No ha prevalso su tutto il territorio nazionale (anche se un’analisi di grana più fine farebbe rilevare differenze fra le diverse aree del Paese, e collocherebbe il Mezzogiorno più distante dall’area di governo).

Ma il fatto è che De Luca si è comunque speso a fondo, esponendosi mediaticamente per certe intemperanze verbali che, a detta di molti centro il Pd, non hanno affatto aiutato il Sì alla riforma.

Così i fronti aperti sono due: uno è quello fra De Luca e Renzi, lungo il quale corrono sempre più pronunciate certe linee di tensione. Per ora in forma di dinstinguo, di accenti e sottolineature diverse, ma in futuro chissà. Un altro fronte è invece interno al Pd campano, perché un De Luca che è costretto a spiegare le ragioni della sconfitta permette al resto del partito di riprendere voce, e coraggio.

Dici Pd campano ma in realtà dici Napoli, perché è con i democratici napoletani che il feeling non si è ancora stabilito. Il Pd vorrebbe guadagnare un’autonomia e marcare una presenza in giunta regionale che finora non si è vista. Come ai tempi della prima Repubblica, si ricomincia dunque a parlare di rimpasto. Le scelte fatte da De Luca nella composizione della giunta non sono mai state digerite. Il governatore ha puntato su una squadra nuova, dal profilo politico molto contenuto, proprio per non dare spazio e potere a nessuno che potesse fare ombra alla sua leadership. Per non consumarsi in estenuanti mediazioni, ma anche per non dare conti a nessuno delle scelte di governo. Sul territorio, del resto, un partito non c’è: c’è un insieme di cordate, legate ai micronotabilati in cui si è polverizzato oggi il Pd.

Ma qualunque discorso sul partito, in quest’ultimo scorcio d’anno che dà sulla prossima assise congressuale del 2017, in tanto può essere fatto in quanto la presa di De Luca si è allentata. Ed è quello che è successo dopo il referendum di domenica.

Fin qui la descrizione della vicenda interna. Ma ovunque si fermerà il pendolo che in queste ore sta oscillando – più o meno vicino alle ambizioni di De Luca, oppure a quelle di chi prova a frenarne il passo – resta il dato elettorale. Certo: ha perso Renzi, ha perso l’idea che si potesse indicare nella riforma costituzionale il cambiamento che il Paese chiede, ma è certo anche che l’interpretazione che ne viene offerta dal Pd campano, in termini di gestione del potere, di intermediazione politica fondata su un rapporto di tipo notabilare, è molto lontana dal costituire un possibile terreno di risposta. Se la domanda fosse: cosa significa l’appartenenza al partito democratico in questa regione, la risposta ben difficilmente là si potrebbe dare  in termini di proposte, progetti, visioni, storie. C’è un deficit di cultura politica evidente. Del resto, la personalizzazione impressa alla vicenda campana dalla vittoria di De Luca nelle elezioni regionali fa il paio con quella di Renzi a livello nazionale, ma è sempre più dubbio che da sola basti. Che basti cioè essere non democratici, ma deluchiani o anti deluchiani. Eppure, per un verso o per l’altro, le ultime mosse dentro il Pd sembrano correre ancora lungo questa faglia. Che l’esito del referendum rischia non di correggere, ma anzi di approfondire.

E poiché non solo nel presente, in città, ma anche in futuro, a livello regionale, la sfida è rappresentata dalla retorica populista di De Magistris, forse è bene che il partito democratico cominci da subito a rinnovare modi, forme e contenuti della sua azione politica, e a imbastire uno spettacolo diverso da quello che rischia di prendere corpo in queste ore.

(Il Mattino, 7 dicembre 2016)

Grillo e gli altri: la sfida che verrà

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Massimo Adinolfi: Caro Direttore, ieri nel commentare a caldo il risultato del voto, mi sono servito dell’idea contenuta in un gran libro, «Malacqua». Ma in realtà meno per l’immagine di una pioggia ininterrotta che scende e ridiscende senza tregua, presagio di qualche funesta sventura, che per l’evocazione finale del mago della pioggia, Grillo. Non voglio scomodare la categoria del populismo a proposito del voto di ieri, anche se giudico sciocca l’obiezione di chi risponde dicendo che non si può considerare populista il 60% degli italiani. Certo che no: infatti il populismo è una malattia della politica, delle sue classi dirigenti. Non è il popolo ad essere populista, ma se mai i leader di turno. Detto ciò, resto convinto che il No abbia un significato politico più grande del merito della riforma costituzionale, e molto diverso da quello di un soprassalto di virtù civiche, repubblicane e antifasciste (qualunque cosa ne pensi l’Anpi). Questo significato sta nel rigetto delle diverse declinazioni delle politiche europee di uscita dalla crisi, un po’ più liberali o un po’ più socialiste che siano. In mancanza di alternative reali, tangibili, che mordano davvero la realtà di vita delle persone, meglio confidare nel repulisti proposto dal mago o dai maghi a Cinquestelle. Può darsi che Renzi abbia sbagliato a personalizzare o che abbia sbagliato strategia, ma francamente non avrei saputo suggerirgliene un’altra, se non proprio quella di evitare di portare a referendum la riforma costituzionale.

Alessandro Barbano: Caro Professore, evitare il referendum poteva e forse doveva essere la scelta di un leader legittimato dalle elezioni, ma non è questo il caso di Renzi. La genesi del suo governo spiega perciò in parte l’errore strategico della consultazione, assieme al clima dei tempi, che vuole che tutto si decida in una pubblica piazza. Ma di errori tattici Renzi ne ha invece commessi due, e la sua assunzione di responsabilità in diretta TV dopo il risultato del referendum rappresenta un’indiretta ammissione. Il primo, come molti hanno notato, riguarda l’aver personalizzato la battaglia referendaria, non solo e non tanto perché questa scelta ha definito i tratti di una sfida di uno contro tutti – che comunque era l’obiettivo dei suoi rivali – ma perché gli ha impedito di spaccare i fronti avversari andando a pescare alleanze trasversali capaci di portare consensi accessori alla sua causa. Il secondo errore riguarda l’unificazione delle modifiche costituzionali in un unico quesito, che ha trasformato una contesa sui contenuti in una contesa sui simboli. In un Paese la cui cultura politica è storicamente costruita sui simboli e refrattaria ai contenuti, la scelta è stata un involontario assist agli avversari, intenzionati a trasformare il voto sulla costituzione in un referendum sul premier. Ma gli errori di cui parliamo sono anche il riflesso della forte pressione mediatica che la politica subisce nel Paese, e che suggerisce, a chiunque voglia proporsi e confermarsi leader, di personalizzare la sua opzione. Diciamo che il premier ha risposto a una necessità del nostro sistema ma fatto male i calcoli. Personalizzando la battaglia referendaria, ha riacceso la passione civile dei cittadini italiani nel momento meno indicato: in primo luogo quando la sua immagine iniziava a subire un certo appannamento, pagando il prezzo inevitabile di riforme necessarie ma scomode e non prive di difetti, come quella della scuola, in un Paese geloso del suo immobilismo; in secondo luogo quando spirava un vento antielitario che non era, come qualcuno credeva, una tramontana di tre giorni, ma piuttosto un monsone destinato a segnare un’intera stagione di instabilità in Europa e in Occidente.

A tal proposito la mappa del risultato elettorale ci consegna una divisione netta dell’Italia del sì e del no attorno ad alcune coordinate: la geografia, il censo e, in minor misura, il livello di istruzione. Il No sfonda a Sud e nei vari Sud del Paese, tra i ceti meno abbienti e meno istruiti, cioè in un’area di esclusione sociale che la crisi del ceto medio ha acuito, e a cui si accompagnano ampissimi spezzoni della burocrazia pubblica, come la scuola, l’università e parte del pubblico impiego, affetti da una cronica frustrazione. Il Sì raccoglie proseliti nella parte alta della piramide sociale, tra gli imprenditori e i liberi professionisti, perdendo smalto man mano che si scende verso la base. È impressionante la proporzione diretta che esiste nelle metropoli tra il risultato del Sì e il reddito pro-capite: a Napoli, nei quartieri di Chiaia e Posillipo i favorevoli alla riforma superano il 46%, come nella città metropolitana di Milano. Al Vomero e all’Arenella scendono poco sopra il 30%, e nei quartieri periferici e più deboli di Scampia e Secondigliano non arrivano al 25. Questa geografia racconta una classe dirigente assediata in un centro genericamente metropolitano che non ha più contatti con il resto della società, e, attorno, le guarnigioni della rabbia e della protesta sociale con i loro condottieri, che si contendono le spoglie della democrazia rappresentativa. È un’iperbole drammatica, ma non molto lontana dalla realtà.

Poi ci sono i giovani. La loro adesione al No è plebiscitaria, ma non deve stupire: se hanno inibito fino ad annientare la loro naturale spinta trasformativa è perché hanno maturato coscienza piena del tradimento generazionale. Sono quelli che di più soffrono lo scarto apertosi nelle società globali, e in Italia in misura maggiore, tra aspettative e realizzazioni concrete. E qui entra in gioco la modesta performance di quelle che lei definisce le ricette liberali e socialiste rispetto alla crisi. Mi piace raccontarla in altro modo: è cioè l’incapacità della democrazia in Europa di governare l’innovazione e i suoi effetti bifronti sulle società postmoderne.

Ma torniamo al referendum. Quello che lei chiama mago della pioggia, e cioè Grillo, ha saputo far convogliare questa enorme massa di disagio in due canali: nel primo ha utilizzato il radicalismo morale per dare forma alla protesta e alla rabbia sociale; nel secondo ha sviluppato una dialettica partecipativa dal basso attraverso la rete, che ha riempito il vuoto lasciato dalla caduta dei corpi intermedi della politica tradizionale. Alla morte delle sezioni e dei circoli, allo scolorire dei comizi e di tutte le infrastrutture immateriali del vecchio pensiero politico, Grillo ha sostituito le piazze virtuali dove la passione civile si propone e si percepisce come autodeterminazione. È un’illusione, utopia di una democrazia diretta attraverso il web, ma non ancora smentita alla prova dei fatti, perché le esperienze di governo dei Cinquestelle, per quanto modeste o fallimentari, ancora non fondano quella che si direbbe una prova politica. Tant’é vero che la fretta che i grillini hanno ora di andare al voto è pari tanto alla convinzione di trovarsi con l’onda dei consensi in poppa, quanto alla preoccupazione di non subire un danno reputazionale dal protrarsi dell’avventura di Virginia Raggi alla guida del Campidoglio.

M.A.: Caro Direttore, quanto agli errori tattici seguiti sono d’accordo soprattutto su un punto: era il momento meno indicato. Sono meno d’accordo invece sulla personalizzazione, e meno ancora sull’opportunità dello spacchettamento. Sulla personalizzazione, in fondo lo dice lei stesso: è nelle cose, prima ancora che nelle scelte di leadership. Difficile del resto capire con quali altre armi Renzi avrebbe potuto motivare il suo elettorato. Più che su un limite di Renzi, mi sembra che ragioniamo su un limite ormai cronico del sistema politico italiano.

Lo spacchettamento, invece, proprio no: non credo che sia possibile fare una buona riforma per via referendaria, ritagliando con le forbici il lavoro fatto dal Parlamento. È chiaro che la suddivisione in più quesiti avrebbe magari consentito di vincere su alcuni punti minori, come l’abolizione del Cnel o quella delle Province. Forse Renzi avrebbe in tal caso limitato i danni, ma la sostanza del giudizio politico sarebbe rimasta immutata.

Del resto, la sua analisi è di gran lunga più convincente quando affronta i dati reali: la crisi e lo scollamento del ceto medio, il disagio fin quasi all’estraneità delle classi meno abbienti, il disincanto delle giovani generazioni. Gli errori tattici credo non abbiano inciso quasi per nulla: se è fondata la sua analisi, e credo lo sia, anche a non volerli commettere sarebbe cambiato molto poco.

Al tirar delle somme, resta il fatto che Matteo Renzi ha pensato di proporre al Paese come volano del cambiamento una riforma dell’ordinamento della Repubblica, a mio giudizio incisiva, che rispondeva a delle obiettive necessità di sistema, ma che non riguardava da vicino le condizioni reali di vita delle persone. E il Paese ha risposto di no, che non crede affatto che la ripresa economica e sociale dipenda da una migliore organizzazione dei poteri pubblici.

Questo è il nodo della questione. Sono francamente ridicoli quelli che si inebriano al pensiero che gli italiani hanno scelto – magari previa consultazione di un buon manuale di diritto costituzionale – fra Calamandrei e Boschi, fra Togliatti e Renzi, fra vecchi e nuovi costituenti. Gli italiani hanno detto chiaro e tondo, invece, che non è questo il punto: i giovani hanno detto che temono per il loro futuro, le piccole imprese hanno detto che pagano ancora troppe tasse, il personale scolastico che sono scivolati indietro nella considerazione della società e via di questo passo. So bene, e mi duole, che c’è in questo ragionamento un pericolo classista: i temi costituzionali non sarebbero per la generalità delle persone. Allora correggo il tiro e torno alla preoccupazione machiavelliana per l’occasione: questa non era l’occasione. Il momento non era opportuno, per tutti i motivi che lei ha spiegato. Che assumano però a uno: la crisi non è affatto alle nostre spalle.

Anche Renzi ha provato a correggere il tiro, in verità, cercando di imprimere alla riforma il significato di una legge contro la casta: non c’è riuscito, e non poteva riuscirvi. Perché quel fronte è ormai presidiato dai Cinquestelle, perché non si fanno le riforme costituzionali per tagliare i costi della politica, e perché dopo quasi tre anni di governo quello che dovevi fare su questo fronte dovevi averlo già fatto. Se pensi che le elezioni si vincono ancora su quel versante, coi tagli agli indennizzi e alle poltrone, hai perso prima ancora di cominciare.

Ora però resta da capire che fare. Con buona pace di tutti gli altri – la sinistra del Pd e le altre frange di contorno, i vari pezzi del centrodestra – si avvicina sempre più il momento in cui agli italiani le elezioni chiederanno una cosa soltanto, se vogliono o no un governo pentastellato (un monocolore?). Io mi auguro solo che le altre forze politiche si attrezzino sul serio per misurarsi con questa domanda, la sola che conti, perché dalla Brexit a Trump si è visto ormai che l’elettorato non teme più il salto nel buio, l’avventura o l’inesperienza. Anzi: magari è proprio quello che vogliono! La parola stabilità piace ai mercati e alle persone responsabili, ma non vuol dire nulla per chi ha le tasche vuote.

A.B.: Caro Professore, c’è un segnale nelle reazioni pentastellate al referendum che spiega il tentativo del movimento di compiere un salto di qualità e proporsi come forza di governo. «Non chiamateci più populisti», diceva l’altra sera in TV Alessandro Di Battista, rivendicando con la vittoriosa difesa della Costituzione un’acquisita maturità. Che evidentemente non c’è, e non può esserci, per debolezza e ambiguità di un pensiero politico in cui coesistono, a fianco ad alcune intuizioni felici, troppe contraddizioni. E non può esserci, ancora, fino a quando la selezione della classe dirigente pentastellata oscillerà tra il settarismo di una comunità arbonara e ll’anomia di un plebiscito internettiano.

Ma, come lei dice, la mancanza di maturità non esclude la vittoria, soprattutto se i partiti tradizionali, e in primo luogo il Pd, continuano a suicidarsi cronicizzando uno scontro all’ultimo sangue dietro il quale i cittadini non vedono che una lotta di potere fra fazioni. Non v’è dubbio che il Movimento sia la forza politica, anche attraverso la Rete, è riucita a sintonizzarsi meglio con gli umori del Paese, e in parte a determinarli. Lo ha capito Matteo Renzi, che dimettendosi anticipatamente in pubblico davanti alla TV e non, come vorrebbero le forme ufficiali della demmocrazia, sul Cole davanti al capo dello Stato, ha ritrovato il lessico del «cuore» smarrito nel Palazzo, suscitando emozione e rispetto tra i suoi sostenitori, ma anche tra gli avversari. Un congedo in stile populista, il suo, se dovessimo definirlo secondo i canoni della tradizione. Ma, che piaccia o no, la politica in Italia è rmai questo. E se per salvare la sostanza della democrazia rappresentativa bisogna giocare sulla mozione degli affetti, allora sì, forse ha ragione lei: la personalizzazione è il linguaggio obbligatorio del leaderismo contemporaneo. A tempo scaduto il premier è sembrato ribadirlo. A tempo scaduto, ma lui sa bene che stanno per iniziare i supplementari e che la partita è ancora alla sua portata.

(Il Mattino, 6 dicembre 2016)

L’eccezione di Matteo cancellata

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Tanto tuonò che piovve. Bisognerà, al solito, aspettare i dati definitivi, ma la pioggia è arrivata. E forse continuerà, come nel piccolo, prezioso capolavoro di Nicola Pugliese, Malacqua, la pioggia continuerà fin quando non si sarà «reso palese l’accadimento». Perché ancor prima della sconfitta di Renzi c’è nelle urne di ieri (se i risultati confermeranno le previsioni) un vincitore indiscutibile: i Cinquestelle, insomma Beppe Grillo e i suoi. Difficile pensare che siano altri a potersi intestare la vittoria. E l’accadimento è quello preconizzato fin dall’inizio: la liquidazione di un’intera classe politica inetta e corrotta, su cui il Movimento ha costruito le sue fortune elettorali. E che continua, come la pioggia di Malacqua: che scende e ridiscende interminabilmente.

Il referendum costituzionale aveva infatti un oggetto di merito – la fine del bicameralismo paritario, la ridefinizione dei rapporti tra Stato e Regioni, e insomma un certo numero di articoli sui procedimenti legislativi, il CNEL, gli istituti della democrazia diretta, le Province e qualcos’altro ancora – ma l’eccezionale percentuali di affluenza, ben al di sopra di quelle delle ultime consultazioni referendarie, dimostra che al voto si è andati ben dentro uno schema politico, il cui significato è ancora una volta lo stesso (ripetiamolo: con i dati di cui attualmente disponiamo): il ceto dirigente, la «casta» va spazzata via. Va buttata giù. L’eccezione che Matteo Renzi aveva rappresentato, con il voto alle Europee del 2014, stando così le cose sarebbe cancellata.

Non è facile prevedere come se ne verrà fuori, nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Ma resta un punto di fondo, al quale la seconda Repubblica rimane evidentemente inchiodata: il rapporto di fiducia tra le classi dirigenti e il resto del Paese non si è ancora riannodato. La crisi economica e sociale è sempre più – anche in altri Paesi, non solo in Italia – una crisi democratica, che si esprime in una reazione di rigetto nei confronti dell’establishment, o di ciò che viene così descritto. Mondi come quello del lavoro dipendente, della piccola impresa, della scuola, appaiono sempre più lontani dalla rappresentanza politica e sindacale, sia dal punto di vista dell’espressione di voto che, più in profondità, dell’affidamento simbolico e culturale a ciò che la mediazione politica dovrebbe significare, nella ricerca di un interesse generale intorno al quale costruire una prospettiva di crescita complessiva del Paese.

Quella prospettiva non c’è, non viene afferrata o non viene rappresentata. Gli elementi di socialità che temperavano le leggi di mercato grazie al compromesso del Welfare State, si sono sempre più ridotti. C’è di volta in volta una logica economica, un quadro di compatibilità, un insieme di impegni istituzionali, un sistema di valori, un corredo di politiche o anche semplicemente un principio di realtà che viene respinto. Perché restringe sempre di più lo spazio di chi ne apprezza i benefici, mentre amplia la platea di chi invece se ne sente escluso. I governi – tutti i governi, non solo quello italiano – si presentano come cementati in un unico blocco: saldato in uno con l’assetto finanziario che sorregge l’euro, in uno con l’edificio della globalizzazione, in uno con l’architettura istituzionale nazionale e sovranazionale.

Questo blocco ispira sempre meno fiducia. Soddisfa sempre meno i bisogni delle persone, mentre per altro verso continua ad alimentarne i desideri. Più si allarga questa forbice – fra ciò che sarebbe possibile, e ciò che è invece tristemente reale – più prevale il risentimento nei confronti di quelli che del blocco fanno parte. Dall’altra parte sta Grillo, stanno (di nuovo: non solo in Italia) le formazioni populiste, capaci di innescare meccanismi di identificazione molto più forti, molto più immediati.

A questo dato che una volta si sarebbe detto strutturale, si aggiunge un elemento di carattere sovrastrutturale, che di nuovo premia forze politiche come quella dei Cinquestelle. Nell’età della disintermediazione, la capacità di politica che i partiti sono in grado di sviluppare si è quasi azzerata. Il consenso non si costruisce più dentro i corpi intermedi; il professionismo della politica è respinto; l’idea stessa della rappresentanza è guardata con sospetto, e la sfera pubblica è sempre più segmentata in nicchie personalizzate, che sempre meno sfociano in uno spazio comune, condiviso, universale.

Il referendum, nel suo oggetto, c’entra forse poco con tutto questo. Ma è caduto dentro un’onda più lunga, che si è sollevata molto più in alto di quanto Renzi immaginasse. Sarà stato un errore dare al cambiamento le vesti di un passaggio sulla riforma dell’ordinamento della Repubblica, o sarà che l’acqua continua a cadere incessantemente: in ogni caso è sempre più da credere che sarà Grillo, più di ogni altro, a provare a vestire ora, innanzi agli italiani, i panni del vero mago della pioggia.

(Il Mattino, 5 dicembre 2016)

In gioco non c’è solo la riforma

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In una sola giornata accade questo: che a Napoli venga Matteo Renzi, alla Mostra d’Oltremare, a promuovere le ragioni del sì al referendum del 4 dicembre; che al teatro Sannazzaro si riuniscano invece insieme, per le ragioni opposte, la sinistra del Pd, con Roberto Speranza, e il Sindaco di Napoli, Luigi  De Magistris; che nel complesso monumentale di Santa Chiara ci siano i Cinquestelle con Luigi Di Maio, Roberto Fico e tutti gli altri del Movimento; che all’Hotel Ramada faccia tappa il tour “No, grazie” di Giorgia Meloni; che, per finire, Gaetano Quagliariello e Guglielmo Vaccaro partano da Agropoli, città divenuta secondo i due parlamentari simbolo del voto clientelare a base di frittura di pesce, per arrivare a piedi (dicono) addirittura fino a Napoli.

Ce n’è per tutti i gusti. In realtà, fritture a parte, i gusti sono due, perché due sono le possibilità che il voto offre domenica: che la riforma passi o che invece venga bocciata dagli elettori. Poi, certo, saranno da valutare le percentuali dell’affluenza, le distanze fra i due schieramenti, e anche, con analisi di grana più sottile, la distribuzione del voto per fasce d’età, per grado di istruzione, per classi sociali e per distribuzione geografica. Ma nell’immediato il solo risultato che conti è il sì, oppure il no. E su questo risultato pesa in particolare l’elettorato meridionale, vista l’attenzione che i leader politici nazionali prestano a Napoli e alla Campania.

La quale attenzione è peraltro già segno di qualcos’altro, visto che il Sì manifesta tutto insieme in un solo luogo, ad ascoltare il premier; mentre le ragioni del No bisogna raccoglierle un po’ di qua e un po’ di là, perché su uno stesso palco tutti insieme non possono stare: Quagliariello e Di Maio, De Magistris e la Meloni.

È stato in effetti uno dei temi della campagna elettorale, che soprattutto in queste battute finali ha accentuato ancora di più il suo valore politico. Il Sì significa indubbiamente continuità del progetto incarnato anzitutto da Matteo Renzi, anche se è da vedere se questa continuità riguarderà comunque il suo governo e la legislatura: in caso di vittoria, Renzi potrebbe infatti essere tentato dall’andare subito alle elezioni politiche generali, per tradurre in una più omogenea maggioranza parlamentare un evidente successo personale. Il No significa invece brusca interruzione di questo progetto, e però poco altro, perché è tutt’altro che chiaro che cosa potrebbe accadere dal giorno dopo, persino nell’ipotesi alquanto improbabile che Renzi, volente o nolente, rimanesse al governo anche solo per fare una nuova legge elettorale.

Se però si allarga l’orizzonte oltre le ventiquattrore successive, oltre il breve periodo, si possono vedere però con chiarezza, proprio grazie alla lente d’ingrandimento di una giornata come quella di ieri, alcune conseguenze di più vasto momento. Scavallato il 4 dicembre, le forze politiche non rimarranno le stesse. La minoranza del Pd si affanna a ripetere che nessuna scissione è all’orizzonte, però intanto sale sullo stesso palco con il Sindaco arancione, e ripete anche, con toni allarmati, che il Sì significa lo snaturamento dell’idea originaria del partito democratico, il tradimento della sua carta dei valori, e insomma la nascita del partito della nazione. Nel centrodestra, l’imbuto del voto ha già fatto precipitare a terra la stella di Parisi, riportato sulla scena Berlusconi e risvegliato persino Umberto Bossi: sono tutti segnali di uno scenario in forte movimento, di un profilo politico ancora ricercato e da trovare, scegliendo presumibilmente fra un abito di taglio europeo, moderato e riformistico, e quello più stazzonato, più nazionalista, populista e con venature antisistema. È probabile che tanto per il centrodestra quanto per il centrosinistra il solo appuntamento di domenica prossima non basti, per sciogliere tutti questi nodi.

Ma c’è un altro nodo ancora, che è, se possibile, ancor più aggrovigliato. Cosa ha prodotto una campagna elettorale lunga come quella che solo oggi volge al termine? Una ripoliticizzazione del Paese, chiamato a scelte fondamentali? È lecito dubitarne. Basta trascorrere, come mi è capitato ieri, una mattinata in fila allo sportello di una ASL. Dopo mesi in cui mi è sembrato non si parlasse d’altro, ho potuto constatare che in realtà si parla quasi soltanto d’altro. È per certi versi salutare che sia così, perché la vita scorre anche altrove (per fortuna), ma è anche, al contempo, preoccupante. Certo non bisogna trarne la conclusione, dal sapore vagamente elitista (o francamente classista, come si sarebbe detto una volta), che temi come l’assetto istituzionale della Repubblica non possono interessare e non debbono riguardare il cittadino comune. Ma proprio questo è il timore: che certe discussioni scorrano ormai dentro nicchie comunicative ben circoscritte, e che dunque i termini del confronto pubblico non si siano negli anni ampliati senza essersi anche segmentati, frazionati, di modo che è sempre più difficile la costruzione di un ‘luogo comune’ in cui gli abitanti delle diverse nicchie si trovino finalmente insieme. Per cui c’è l’Hotel Ramada, c’è Santa Chiara e c’è la Mostra d’Oltremare, certo: ma più grande di tutti questi luoghi, e sempre più difficile da raggiungere e da rappresentare, c’è la città. Non solo il ventre di Napoli, ma proprio la città nella sua interezza, in tutti i suoi flussi, le sue reti, i suoi spazi.

È un tema ovviamente molto più vasto di quello istituzionale, di cui parla la riforma. Che può perciò essere una risposta, ma meglio si direbbe: solo l’inizio di una risposta. Oltre al funzionamento della democrazia, in gioco c’è infatti, dopo il 4 dicembre, qualcosa di più: il suo futuro e il suo senso.

(Il Mattino, 2 dicembre 2016)