Archivi del giorno: dicembre 11, 2016

L’eccezione di Matteo cancellata

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Tanto tuonò che piovve. Bisognerà, al solito, aspettare i dati definitivi, ma la pioggia è arrivata. E forse continuerà, come nel piccolo, prezioso capolavoro di Nicola Pugliese, Malacqua, la pioggia continuerà fin quando non si sarà «reso palese l’accadimento». Perché ancor prima della sconfitta di Renzi c’è nelle urne di ieri (se i risultati confermeranno le previsioni) un vincitore indiscutibile: i Cinquestelle, insomma Beppe Grillo e i suoi. Difficile pensare che siano altri a potersi intestare la vittoria. E l’accadimento è quello preconizzato fin dall’inizio: la liquidazione di un’intera classe politica inetta e corrotta, su cui il Movimento ha costruito le sue fortune elettorali. E che continua, come la pioggia di Malacqua: che scende e ridiscende interminabilmente.

Il referendum costituzionale aveva infatti un oggetto di merito – la fine del bicameralismo paritario, la ridefinizione dei rapporti tra Stato e Regioni, e insomma un certo numero di articoli sui procedimenti legislativi, il CNEL, gli istituti della democrazia diretta, le Province e qualcos’altro ancora – ma l’eccezionale percentuali di affluenza, ben al di sopra di quelle delle ultime consultazioni referendarie, dimostra che al voto si è andati ben dentro uno schema politico, il cui significato è ancora una volta lo stesso (ripetiamolo: con i dati di cui attualmente disponiamo): il ceto dirigente, la «casta» va spazzata via. Va buttata giù. L’eccezione che Matteo Renzi aveva rappresentato, con il voto alle Europee del 2014, stando così le cose sarebbe cancellata.

Non è facile prevedere come se ne verrà fuori, nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Ma resta un punto di fondo, al quale la seconda Repubblica rimane evidentemente inchiodata: il rapporto di fiducia tra le classi dirigenti e il resto del Paese non si è ancora riannodato. La crisi economica e sociale è sempre più – anche in altri Paesi, non solo in Italia – una crisi democratica, che si esprime in una reazione di rigetto nei confronti dell’establishment, o di ciò che viene così descritto. Mondi come quello del lavoro dipendente, della piccola impresa, della scuola, appaiono sempre più lontani dalla rappresentanza politica e sindacale, sia dal punto di vista dell’espressione di voto che, più in profondità, dell’affidamento simbolico e culturale a ciò che la mediazione politica dovrebbe significare, nella ricerca di un interesse generale intorno al quale costruire una prospettiva di crescita complessiva del Paese.

Quella prospettiva non c’è, non viene afferrata o non viene rappresentata. Gli elementi di socialità che temperavano le leggi di mercato grazie al compromesso del Welfare State, si sono sempre più ridotti. C’è di volta in volta una logica economica, un quadro di compatibilità, un insieme di impegni istituzionali, un sistema di valori, un corredo di politiche o anche semplicemente un principio di realtà che viene respinto. Perché restringe sempre di più lo spazio di chi ne apprezza i benefici, mentre amplia la platea di chi invece se ne sente escluso. I governi – tutti i governi, non solo quello italiano – si presentano come cementati in un unico blocco: saldato in uno con l’assetto finanziario che sorregge l’euro, in uno con l’edificio della globalizzazione, in uno con l’architettura istituzionale nazionale e sovranazionale.

Questo blocco ispira sempre meno fiducia. Soddisfa sempre meno i bisogni delle persone, mentre per altro verso continua ad alimentarne i desideri. Più si allarga questa forbice – fra ciò che sarebbe possibile, e ciò che è invece tristemente reale – più prevale il risentimento nei confronti di quelli che del blocco fanno parte. Dall’altra parte sta Grillo, stanno (di nuovo: non solo in Italia) le formazioni populiste, capaci di innescare meccanismi di identificazione molto più forti, molto più immediati.

A questo dato che una volta si sarebbe detto strutturale, si aggiunge un elemento di carattere sovrastrutturale, che di nuovo premia forze politiche come quella dei Cinquestelle. Nell’età della disintermediazione, la capacità di politica che i partiti sono in grado di sviluppare si è quasi azzerata. Il consenso non si costruisce più dentro i corpi intermedi; il professionismo della politica è respinto; l’idea stessa della rappresentanza è guardata con sospetto, e la sfera pubblica è sempre più segmentata in nicchie personalizzate, che sempre meno sfociano in uno spazio comune, condiviso, universale.

Il referendum, nel suo oggetto, c’entra forse poco con tutto questo. Ma è caduto dentro un’onda più lunga, che si è sollevata molto più in alto di quanto Renzi immaginasse. Sarà stato un errore dare al cambiamento le vesti di un passaggio sulla riforma dell’ordinamento della Repubblica, o sarà che l’acqua continua a cadere incessantemente: in ogni caso è sempre più da credere che sarà Grillo, più di ogni altro, a provare a vestire ora, innanzi agli italiani, i panni del vero mago della pioggia.

(Il Mattino, 5 dicembre 2016)

In gioco non c’è solo la riforma

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In una sola giornata accade questo: che a Napoli venga Matteo Renzi, alla Mostra d’Oltremare, a promuovere le ragioni del sì al referendum del 4 dicembre; che al teatro Sannazzaro si riuniscano invece insieme, per le ragioni opposte, la sinistra del Pd, con Roberto Speranza, e il Sindaco di Napoli, Luigi  De Magistris; che nel complesso monumentale di Santa Chiara ci siano i Cinquestelle con Luigi Di Maio, Roberto Fico e tutti gli altri del Movimento; che all’Hotel Ramada faccia tappa il tour “No, grazie” di Giorgia Meloni; che, per finire, Gaetano Quagliariello e Guglielmo Vaccaro partano da Agropoli, città divenuta secondo i due parlamentari simbolo del voto clientelare a base di frittura di pesce, per arrivare a piedi (dicono) addirittura fino a Napoli.

Ce n’è per tutti i gusti. In realtà, fritture a parte, i gusti sono due, perché due sono le possibilità che il voto offre domenica: che la riforma passi o che invece venga bocciata dagli elettori. Poi, certo, saranno da valutare le percentuali dell’affluenza, le distanze fra i due schieramenti, e anche, con analisi di grana più sottile, la distribuzione del voto per fasce d’età, per grado di istruzione, per classi sociali e per distribuzione geografica. Ma nell’immediato il solo risultato che conti è il sì, oppure il no. E su questo risultato pesa in particolare l’elettorato meridionale, vista l’attenzione che i leader politici nazionali prestano a Napoli e alla Campania.

La quale attenzione è peraltro già segno di qualcos’altro, visto che il Sì manifesta tutto insieme in un solo luogo, ad ascoltare il premier; mentre le ragioni del No bisogna raccoglierle un po’ di qua e un po’ di là, perché su uno stesso palco tutti insieme non possono stare: Quagliariello e Di Maio, De Magistris e la Meloni.

È stato in effetti uno dei temi della campagna elettorale, che soprattutto in queste battute finali ha accentuato ancora di più il suo valore politico. Il Sì significa indubbiamente continuità del progetto incarnato anzitutto da Matteo Renzi, anche se è da vedere se questa continuità riguarderà comunque il suo governo e la legislatura: in caso di vittoria, Renzi potrebbe infatti essere tentato dall’andare subito alle elezioni politiche generali, per tradurre in una più omogenea maggioranza parlamentare un evidente successo personale. Il No significa invece brusca interruzione di questo progetto, e però poco altro, perché è tutt’altro che chiaro che cosa potrebbe accadere dal giorno dopo, persino nell’ipotesi alquanto improbabile che Renzi, volente o nolente, rimanesse al governo anche solo per fare una nuova legge elettorale.

Se però si allarga l’orizzonte oltre le ventiquattrore successive, oltre il breve periodo, si possono vedere però con chiarezza, proprio grazie alla lente d’ingrandimento di una giornata come quella di ieri, alcune conseguenze di più vasto momento. Scavallato il 4 dicembre, le forze politiche non rimarranno le stesse. La minoranza del Pd si affanna a ripetere che nessuna scissione è all’orizzonte, però intanto sale sullo stesso palco con il Sindaco arancione, e ripete anche, con toni allarmati, che il Sì significa lo snaturamento dell’idea originaria del partito democratico, il tradimento della sua carta dei valori, e insomma la nascita del partito della nazione. Nel centrodestra, l’imbuto del voto ha già fatto precipitare a terra la stella di Parisi, riportato sulla scena Berlusconi e risvegliato persino Umberto Bossi: sono tutti segnali di uno scenario in forte movimento, di un profilo politico ancora ricercato e da trovare, scegliendo presumibilmente fra un abito di taglio europeo, moderato e riformistico, e quello più stazzonato, più nazionalista, populista e con venature antisistema. È probabile che tanto per il centrodestra quanto per il centrosinistra il solo appuntamento di domenica prossima non basti, per sciogliere tutti questi nodi.

Ma c’è un altro nodo ancora, che è, se possibile, ancor più aggrovigliato. Cosa ha prodotto una campagna elettorale lunga come quella che solo oggi volge al termine? Una ripoliticizzazione del Paese, chiamato a scelte fondamentali? È lecito dubitarne. Basta trascorrere, come mi è capitato ieri, una mattinata in fila allo sportello di una ASL. Dopo mesi in cui mi è sembrato non si parlasse d’altro, ho potuto constatare che in realtà si parla quasi soltanto d’altro. È per certi versi salutare che sia così, perché la vita scorre anche altrove (per fortuna), ma è anche, al contempo, preoccupante. Certo non bisogna trarne la conclusione, dal sapore vagamente elitista (o francamente classista, come si sarebbe detto una volta), che temi come l’assetto istituzionale della Repubblica non possono interessare e non debbono riguardare il cittadino comune. Ma proprio questo è il timore: che certe discussioni scorrano ormai dentro nicchie comunicative ben circoscritte, e che dunque i termini del confronto pubblico non si siano negli anni ampliati senza essersi anche segmentati, frazionati, di modo che è sempre più difficile la costruzione di un ‘luogo comune’ in cui gli abitanti delle diverse nicchie si trovino finalmente insieme. Per cui c’è l’Hotel Ramada, c’è Santa Chiara e c’è la Mostra d’Oltremare, certo: ma più grande di tutti questi luoghi, e sempre più difficile da raggiungere e da rappresentare, c’è la città. Non solo il ventre di Napoli, ma proprio la città nella sua interezza, in tutti i suoi flussi, le sue reti, i suoi spazi.

È un tema ovviamente molto più vasto di quello istituzionale, di cui parla la riforma. Che può perciò essere una risposta, ma meglio si direbbe: solo l’inizio di una risposta. Oltre al funzionamento della democrazia, in gioco c’è infatti, dopo il 4 dicembre, qualcosa di più: il suo futuro e il suo senso.

(Il Mattino, 2 dicembre 2016)