L’eccezione di Matteo cancellata

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Tanto tuonò che piovve. Bisognerà, al solito, aspettare i dati definitivi, ma la pioggia è arrivata. E forse continuerà, come nel piccolo, prezioso capolavoro di Nicola Pugliese, Malacqua, la pioggia continuerà fin quando non si sarà «reso palese l’accadimento». Perché ancor prima della sconfitta di Renzi c’è nelle urne di ieri (se i risultati confermeranno le previsioni) un vincitore indiscutibile: i Cinquestelle, insomma Beppe Grillo e i suoi. Difficile pensare che siano altri a potersi intestare la vittoria. E l’accadimento è quello preconizzato fin dall’inizio: la liquidazione di un’intera classe politica inetta e corrotta, su cui il Movimento ha costruito le sue fortune elettorali. E che continua, come la pioggia di Malacqua: che scende e ridiscende interminabilmente.

Il referendum costituzionale aveva infatti un oggetto di merito – la fine del bicameralismo paritario, la ridefinizione dei rapporti tra Stato e Regioni, e insomma un certo numero di articoli sui procedimenti legislativi, il CNEL, gli istituti della democrazia diretta, le Province e qualcos’altro ancora – ma l’eccezionale percentuali di affluenza, ben al di sopra di quelle delle ultime consultazioni referendarie, dimostra che al voto si è andati ben dentro uno schema politico, il cui significato è ancora una volta lo stesso (ripetiamolo: con i dati di cui attualmente disponiamo): il ceto dirigente, la «casta» va spazzata via. Va buttata giù. L’eccezione che Matteo Renzi aveva rappresentato, con il voto alle Europee del 2014, stando così le cose sarebbe cancellata.

Non è facile prevedere come se ne verrà fuori, nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Ma resta un punto di fondo, al quale la seconda Repubblica rimane evidentemente inchiodata: il rapporto di fiducia tra le classi dirigenti e il resto del Paese non si è ancora riannodato. La crisi economica e sociale è sempre più – anche in altri Paesi, non solo in Italia – una crisi democratica, che si esprime in una reazione di rigetto nei confronti dell’establishment, o di ciò che viene così descritto. Mondi come quello del lavoro dipendente, della piccola impresa, della scuola, appaiono sempre più lontani dalla rappresentanza politica e sindacale, sia dal punto di vista dell’espressione di voto che, più in profondità, dell’affidamento simbolico e culturale a ciò che la mediazione politica dovrebbe significare, nella ricerca di un interesse generale intorno al quale costruire una prospettiva di crescita complessiva del Paese.

Quella prospettiva non c’è, non viene afferrata o non viene rappresentata. Gli elementi di socialità che temperavano le leggi di mercato grazie al compromesso del Welfare State, si sono sempre più ridotti. C’è di volta in volta una logica economica, un quadro di compatibilità, un insieme di impegni istituzionali, un sistema di valori, un corredo di politiche o anche semplicemente un principio di realtà che viene respinto. Perché restringe sempre di più lo spazio di chi ne apprezza i benefici, mentre amplia la platea di chi invece se ne sente escluso. I governi – tutti i governi, non solo quello italiano – si presentano come cementati in un unico blocco: saldato in uno con l’assetto finanziario che sorregge l’euro, in uno con l’edificio della globalizzazione, in uno con l’architettura istituzionale nazionale e sovranazionale.

Questo blocco ispira sempre meno fiducia. Soddisfa sempre meno i bisogni delle persone, mentre per altro verso continua ad alimentarne i desideri. Più si allarga questa forbice – fra ciò che sarebbe possibile, e ciò che è invece tristemente reale – più prevale il risentimento nei confronti di quelli che del blocco fanno parte. Dall’altra parte sta Grillo, stanno (di nuovo: non solo in Italia) le formazioni populiste, capaci di innescare meccanismi di identificazione molto più forti, molto più immediati.

A questo dato che una volta si sarebbe detto strutturale, si aggiunge un elemento di carattere sovrastrutturale, che di nuovo premia forze politiche come quella dei Cinquestelle. Nell’età della disintermediazione, la capacità di politica che i partiti sono in grado di sviluppare si è quasi azzerata. Il consenso non si costruisce più dentro i corpi intermedi; il professionismo della politica è respinto; l’idea stessa della rappresentanza è guardata con sospetto, e la sfera pubblica è sempre più segmentata in nicchie personalizzate, che sempre meno sfociano in uno spazio comune, condiviso, universale.

Il referendum, nel suo oggetto, c’entra forse poco con tutto questo. Ma è caduto dentro un’onda più lunga, che si è sollevata molto più in alto di quanto Renzi immaginasse. Sarà stato un errore dare al cambiamento le vesti di un passaggio sulla riforma dell’ordinamento della Repubblica, o sarà che l’acqua continua a cadere incessantemente: in ogni caso è sempre più da credere che sarà Grillo, più di ogni altro, a provare a vestire ora, innanzi agli italiani, i panni del vero mago della pioggia.

(Il Mattino, 5 dicembre 2016)

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