Archivi del giorno: dicembre 13, 2016

Debolezza come strategia

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La rapida soluzione della crisi di governo per l’ultimo tratto della legislatura non riserva sorprese: Paolo Gentiloni ha confermato quasi per intero l’Esecutivo uscente, salvo alcuni piccoli spostamenti e qualche nome nuovo che non modifica la caratura politica del Ministero. Non lo si può dire un governo costituito per il solo disbrigo degli affari correnti, come sarebbe stato un governo dimissionario guidato ancora da Matteo Renzi, perché è invece nella pienezza dei suoi poteri e, formalmente almeno, senza limite alcuno di mandato. Ma il limite è stato chiaramente indicato dal partito di maggioranza, che per bocca del suo Presidente, Orfini, ha definito «inconcepibile» l’ipotesi di un prosieguo della legislatura fino alla scadenza naturale: Il Pd ha insomma accettato per mero senso di responsabilità, non essendo percorribili le due strade indicate nelle consultazioni con il Presidente Mattarella: o elezioni subito, oppure un governo con dentro tutti. La prima via è obiettivamente impraticabile, in attesa del pronunciamento della Consulta sulla costituzionalità dell’Italicum, previsto per il 24 gennaio; la seconda invece risulta impercorribile per l’indisponibilità delle forze politiche di opposizione. Che preferiscono, com’è ovvio, lasciare il partito democratico con il cerino del governo in mano, riservandosi il compito di rappresentare il malcontento e il disagio sociale. Dunque, per Gentiloni c’era poco altro da fare. E il nuovo premier ha svolto diligentemente la missione affidatagli: rimettere velocemente in piedi il governo dopo che Renzi e le sue riforme ne sono state sbalzate di sella, e accompagnare il Paese verso elezioni anticipate, non appena saranno definite dalle forze politiche le condizioni dell’accordo per poter votare con una nuova legge elettorale. Facendo nel frattempo fronte agli impegni internazionali, senza contraccolpi sulla stabilità e la governabilità del sistema.

È chiaro che in questo modo il Dicastero Gentiloni nasce strutturalmente debole. La sua debolezza è peraltro segnalata dal fatto politico più rilevante della giornata di ieri: il mancato ingresso dei verdiniani nella compagine governativa. Se il Presidente del Consiglio incaricato avesse dovuto creare le condizioni per una più lunga navigazione nelle aule parlamentari – in particolare al Senato, dove la maggioranza ha numeri risicatissimi – avrebbe lavorato per portare la formazione centrista nel governo. Ma Gentiloni ha un’assicurazione sulla sua permanenza a Palazzo Chigi, che è data dall’assenza della legge elettorale, e però ha anche la data di scadenza già scritta sulla sua confezione, per quando appunto la legge sarà fatta. Dunque: di Verdini e della sua Ala non c’è bisogno. Di più. Avere il suo appoggio avrebbe rappresentato un impaccio per Matteo Renzi: gli avrebbe attirato qualche strale in più da parte della minoranza interna e delle opposizioni. Lui ha altro per la testa: rifare daccapo, e in tempi accelerati, tutto il percorso che lo aveva portato al governo, marcando la sua estraneità rispetto ai vecchi inciuci da prima Repubblica e rivendicando la chiarezza del suo percorso. In due parole: ho perso, me ne vado. Però provo a prendermi la rivincita, e se vinco ritorno. L’extra-time del governo Gentiloni, insomma, non l’ha voluto lui e non gli serve. Gli occorre invece vincere il congresso del Pd, e andare finalmente al confronto nelle urne con Grillo e i suoi. Non è la continuità di governo che gli interessa rimarcare, e non sarà quello il terreno su cui si misurerà nel prossimo confronto elettorale.

Così, gli aggiustamenti resi necessari anzitutto dallo spostamento dello stesso Gentiloni dalla Farnesina a Palazz Chigi sono come quei piccoli segnali luminosi che le navi mandano mentre si avvicinano al porto: nient’altro che un avviso che l’attracco non è lontano. Il fedelissimo Lotti ottiene allora un ministero senza portafoglio; Maria Elena Boschi accetta invece un riposizionamento, essendosi sovraesposta nella campagna referendaria. Ma non esce dal governo, e anzi va a occupare la poltrona che era stata fin qui proprio di Lotti. Come dire: solo scosse di assestamento. Entra Valeria Fedeli (ex CGIL) all’Istruzione, dove paga il prezzo più alto il ministro Giannini. Un’uscita che però non stupisce: vuoi per la debolezza politica del ministro, proveniente da una formazione politica, Scelta Civica di Monti, praticamente scomparsa, vuoi perché la riforma della scuola non ha dato, almeno in termini di consenso, i risultati sperati. Poi ci sono le new entry: un paio di sottosegretari che diventano ministri (Minniti e De Vincenti) e Anna Finocchiaro che prende il posto della Boschi. Nomi più ingombranti, o in grado di imprimere un segno diverso al Ministero – un Fassino, un Cuperlo, un Rossi Doria – sono rimasti fuori, ma c’è tuttavia un tentativo di ampliare un poco il perimetro del governo ad altre sensibilità, con una storia un po’ più connotata a sinistra. Rispetto alle emergenze del Paese, la scelta più incisiva è però il nuovo ruolo assegnato a De Vincenti, che come ministro della Coesione territoriale potrà proseguire il lavoro positivo già avviato per tentare di ricucire il rapporto del Mezzogiorno con il resto del Paese.

C’è infine una promozione, o quasi: quella di Angelino Alfano che passa dall’Interno agli Esteri. Procurando più di ogni altro un certo sapore di prima Repubblica (e di vecchia Democrazia Cristiana, quando i maggiorenti della Balena Bianca si scambiavano di posto da un Dicastero all’altro per assicurare l’equilibrio tra le correnti). Ma questo è quasi un episodio di colore, la dimostrazione che la vera partita politica non si gioca in quei ruoli, e non si gioca nel voto di fiducia al governo. È il voto dei cittadini quello che indicherà il percorso di uscita dalla seconda Repubblica.

(Il Mattino, 13 dicembre 2016)

Quell’Italia che torna alla prima Repubblica

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Due referendum sul jobs act: uno per cancellare lo strumento dei voucher, l’altro per tornare a far valere l’art. 18 per le imprese con più di cinque dipendenti. E poi un terzo referendum sulla materia degli appalti pubblici, e i diritti dei lavoratori delle imprese subappaltatrici. La raccolta, partita per iniziativa della Cgil, è arrivata alla bella cifra di 3,3 milioni di firme. Ora, con la decisione dell’Ufficio centrale, ha il bollino della Cassazione. Firme certificate, quorum raggiunto, richiesta di referendum valida. Se la Corte Costituzionale dovesse considerare i quesiti ammissibili, gli italiani potrebbero tornare al voto già nella prossima primavera, sempre che non ci tornino per la fine anticipata della legislatura. Ma, in un caso o nell’altro, quel popolo di navigatori (santi, eroi) che è il popolo italiano potrà, come Ulisse, vedere finalmente la costa del ritorno in patria. Cioè nei più confortevoli paesaggi della prima Repubblica: con la legge elettorale proporzionale, lo Statuto dei lavoratori, la partitocrazia, Pippo Baudo appena riapparso in TV e tutto quanto il resto.

Come dargli torto? La prima Repubblica ha portato l’Italia dalle macerie della seconda guerra mondiale fin nell’esclusivo club del G7, cioè delle sette maggiori potenze economiche del mondo, mentre la seconda non ha smesso di perderne, di posizioni. È vero, la prima Repubblica cambiava governi più frequentemente del cambio di stagione, mentre la seconda ha provato ad allungarne un po’ le opere e i giorni. Ma nella prima, se è vero che i governi si davano il cambio, i parlamentari però rimanevano dov’erano; nella seconda, il prezzo della stabilità è stato invece pagato ogni volta con la più ampia transumanza parlamentare che la storia ricordi, roba dinanzi alla quale cedono il passo anche gli inventori e primi interpreti del trasformismo, al tempo del fu Regno d’Italia.

Perciò: meglio tornare. La seconda Repubblica apparirà come una rischiosa avventura in terre incognite, per le quali in un momento di sbandamento l’Italia si è inopinatamente spinta: crolla il muro di Berlino, finisce la guerra fredda, franano i partiti, scompare la DC e il PCI cambia nome, ci sta che si perda la bussola per qualche lustro. Del resto, tutto quel gran parlare di fine delle ideologie e di postmodernità, in un Paese che non aveva ancora ben digerito neppure la modernità, non può non aver contribuito a creare un artificiale clima di confusione. All’inizio forse di euforia, ma alla fine sicuramente di smarrimento.

Perciò: meglio tornare. Meglio vedere Heather Parisi e Lorella Cuccarini di nuovo in televisione. Meglio seguire le piste dei Pooh, che vanno in concerto un’ultima volta. Meglio metter su un disco in vinile, che vende di più e la musica si ascolta pure meglio. Meglio Rischiatutto e Bim Bum Bam, con i cartoni animati degli anni Ottanta: Lady Oscar, Mimì e la nazionale di pallavolo, i Puffi e Candy Candy. Se poi anche la moda ci dà una mano, tornando ancora più indietro, agli anni Settanta, con le prossime collezioni a colpi di camicie floreali e jeans ricamati, allora è fatta, allora forse potremo guardarci attorno e pensare che siamo di nuovo a casa. Altro che Telemaco che va per mare alla ricerca del padre: Pinocchio è tornato, Gian Burrasca è tornato. Che se poi in tasca avessimo pure la vecchia lira, e non l’odiato euro, allora veramente potremmo riavere indietro anche il resto, chissà: forse persino un baby-boom in stile anni Sessanta, invece di ritrovarci tra i piedi tutti questi sgradevolissimi immigrati.

Si dice che il dentifricio non lo puoi rimettere nel tubetto una volta uscito. Ma è la seconda Repubblica che ha tentato l’impresa impossibile di rimettercelo: noi rivogliamo direttamente il tubetto. E naturalmente rivogliamo Pippo Baudo. E Berlusconi che torna a far televisione, e da quest’altra parte rivogliamo Enrico Berlinguer.

Ora, non è che l’iniziativa della CGIL non sia una cosa seria. Lo è, e pone anzi a tema non solo il jobs act, ma l’intero complesso della legislazione sul lavoro come è venuta cambiando negli ultimi venti anni, dal pacchetto Treu a venir giù, fino agli ultimi interventi del governo Renzi. Altrettanto serio è il nodo della legge elettorale, per risolvere il quale ci si sta sempre più orientando in direzione di uno schema di carattere proporzionale che pare rinverdire i fasti della prima Repubblica.

Ma per ogni storia c’è forse una storia parallela, proprio come per ogni libro c’è un libro parallelo. Giorgio Manganelli rivelò il trauma intellettuale che l’epilogo di Pinocchio procura al lettore, con quel burattino che alla fine diventa buono e ubbidiente come tutti gli altri. E si inventò un’altra storia. Ecco: non vorremmo che questa idea di ritrovare la strada di casa riservi anche a noi, prima o poi, un qualche indesiderato impatto traumatico, e che l’Italia finisca da tutt’altra parte.

(Il Mattino, 11 dicembre 2016)

I grillini, il palazzo e il profumo della prima volta

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Sono loro, i Cinquestelle, la più vistosa differenza fra quello che c’era ieri e quello che ci sarà domani, in esito a questa crisi. Perché sono cominciate le consultazioni del Quirinale, che prenderanno almeno un paio di giorni e sopratutto vedranno sfilare una ventina di gruppi parlamentari, e non si è sentito ancora nessuno che si scagliasse contro questi consumati riti della vecchia politica, o magari che chiedesse di mandare tutto in streaming, perché i cittadini hanno il diritto di sapere cosa dicono i loro rappresentanti.

C’è una ragione: il Movimento non è mai stato così vicino al Palazzo, alle istituzioni, al governo. Con qualche sussulto interno per via della corsa per la leadership ma vicini, vicinissimi. Intendiamoci. In nessuna delle soluzioni di cui si ragiona, è previsto che i Cinquestelle entrino in una qualche maggioranza. Si tratti di un governo istituzionale, di un governo di scopo, di un governo di responsabilità nazionale, di un governo del Presidente o infine di un Renzi-bis, i Cinquestelle non ne faranno parte. La loro richiesta rimane una: al voto subito. Dopodiché molto dipenderà dalla legge elettorale, naturalmente, ma il voto sarà comunque, con ogni probabilità, anche una risposta alla domanda se Grillo e i suoi siano, per gli italiani, pronti per governare.

Lo sono? Secondo Alessandro Di Battista sì. Nell’intervista data al giornale tedesco «Die Welt», ripresa da «Repubblica», uno dei più autorevoli esponenti del Movimento – secondo il giornale, il più popolare – ha provato a delineare i contorni di una forza che non è più, anzi non è mai stata un semplice movimento di protesta. Che ha le idee chiare sui temi decisivi dell’attuale fase storica, quelli che determinano le linee di faglia lungo le quali si dispongono le principali formazioni politiche in Europa. Anzitutto l’immigrazione e l’euro. Sul primo tema, Di Battista è lapidario: «chi è privo di diritto d’asilo deve essere espulso». Sul secondo un po’ meno, nel senso che non dice esplicitamente che l’Italia deve uscire dalla moneta unica (i grillini vogliono che a decidere sia un referendum), ma attribuisce all’euro la responsabilità di tutti o quasi i mali dell’economia italiana.

Se a queste indicazioni aggiungiamo l’enfasi sulla green economy, l’idea di rilanciare lo sviluppo economico del Paese su enogastronomia, turismo e cultura, la lotta alla corruzione, la ricerca di una base sociale nella piccola e media impresa, la diffidenza verso la finanza che ruota intorno alle grandi banche, bene: otteniamo tutti i colori che Di Battista usa per completare il suo ritratto del Movimento. Che sono però due soltanto: il nero e il verde.

Di rosso, infatti, ce n’è pochino. Ma forse perché di rosso ce n’è sempre meno in tutta Europa: nell’Austria che domenica scorsa si è affidata al candidato verde per battere il candidato nero alla presidenza della Repubblica. E nella Francia che sembra andare sempre di più, alle presidenziali del 2017, a una sfida fra la destra lepenista e quella moderata, per archiviare definitivamente il settennato di Hollande. D’altronde, se si guarda dentro il partito socialista europeo: pure lì, il rosso sbiadisce sempre di più.

Ora però, tornando in Italia, il carattere antisistema o antipolitico del Movimento non dipende forse dal fatto che quei colori non erano compresi nella tavolozza costituzionale della prima Repubblica (e neanche nel progetto originario della comunità europea)? Il solo fatto di impiegarli ha effetti dirompenti. D’altra parte, lo scenario non solo politico, ma culturale e ideologico della prima Repubblica è cambiato, ormai un quarto di secolo fa, e tutti questi anni non sono bastati ad allestirne uno nuovo. La proclamata fine delle ideologie è, in realtà, la fine di alcune ideologie soltanto, perché è difficile non definire ideologiche certe prese di posizione, come quella dell’espulsione per tutti i migranti (fatti salvi, buon dio!, i soli richiedenti asilo) o il referendum sull’Euro (che procurerebbe più sobbalzi all’economia di quanti ne procuri la pura e semplice uscita). Si può dire anzi il contrario: che ad avere maggior fortuna elettorale sono proprio le forze in grado di innalzare la temperatura politica del voto, di investirlo di significati netti, persino drammatici, ben lontani dalla retorica delle necessarie riforme o dal ritornello grigio e burocratico della responsabilità.

Se così non fosse, il passaggio che l’Italia è chiamata ad affrontare non sarebbe così stretto. Perché la tavolozza dei colori è ormai mutata, e la sconfitta di Renzi è anzitutto la sconfitta di una via d’uscita dalla crisi della seconda Repubblica in grado di assorbire e far arretrare i Cinquestelle. Ma loro non sono arretrati; sono, anzi, avanzati.

E anche se una legge elettorale di impianto proporzionale dovesse svolgere la funzione di tenere i grillini lontano dall’area di governo, neanche così sarebbe un mero ritorno al paesaggio della prima Repubblica. Che aveva altri colori, un altro sistema politico e un altro orizzonte ideologico.

(Il Mattino, 9 dicembre 2016)

La sconfitta del partito personalizzato

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E ora cosa succederà, nel Pd? Oggi è giorno di Direzione nazionale, e i riflettori sono tutti puntati sulle scelte di Renzi, e sugli smarcamenti più o meno grandi che si registrano nella maggioranza. Perché è più facile seguire il leader nel trionfo, molto più difficile abbracciarne le sorti nella sconfitta. È un tema che si pone anche a Napoli, e in Campania. Vincenzo De Luca non è abituato a perdere le elezioni: non gli è mai capitato. Questa volta però è accaduto: persino a Salerno, dove il Sì si aspettava di vincere a mani basse.

La spiegazione che il governatore ha fornito è la seguente: la sfida era difficile, bisognava giocarla fino in fondo per lealtà a Renzi, ma le scelte del governo – sul lavoro, sulla scuola, sulla pubblica amministrazione –  ci hanno penalizzato. Il voto non ha dunque un significato locale, ma nazionale.

Ora, è chiaro che una simile analisi lascia quasi per intero a Renzi il peso della sconfitta. E probabilmente c’è del vero, dal momento che il No ha prevalso su tutto il territorio nazionale (anche se un’analisi di grana più fine farebbe rilevare differenze fra le diverse aree del Paese, e collocherebbe il Mezzogiorno più distante dall’area di governo).

Ma il fatto è che De Luca si è comunque speso a fondo, esponendosi mediaticamente per certe intemperanze verbali che, a detta di molti centro il Pd, non hanno affatto aiutato il Sì alla riforma.

Così i fronti aperti sono due: uno è quello fra De Luca e Renzi, lungo il quale corrono sempre più pronunciate certe linee di tensione. Per ora in forma di dinstinguo, di accenti e sottolineature diverse, ma in futuro chissà. Un altro fronte è invece interno al Pd campano, perché un De Luca che è costretto a spiegare le ragioni della sconfitta permette al resto del partito di riprendere voce, e coraggio.

Dici Pd campano ma in realtà dici Napoli, perché è con i democratici napoletani che il feeling non si è ancora stabilito. Il Pd vorrebbe guadagnare un’autonomia e marcare una presenza in giunta regionale che finora non si è vista. Come ai tempi della prima Repubblica, si ricomincia dunque a parlare di rimpasto. Le scelte fatte da De Luca nella composizione della giunta non sono mai state digerite. Il governatore ha puntato su una squadra nuova, dal profilo politico molto contenuto, proprio per non dare spazio e potere a nessuno che potesse fare ombra alla sua leadership. Per non consumarsi in estenuanti mediazioni, ma anche per non dare conti a nessuno delle scelte di governo. Sul territorio, del resto, un partito non c’è: c’è un insieme di cordate, legate ai micronotabilati in cui si è polverizzato oggi il Pd.

Ma qualunque discorso sul partito, in quest’ultimo scorcio d’anno che dà sulla prossima assise congressuale del 2017, in tanto può essere fatto in quanto la presa di De Luca si è allentata. Ed è quello che è successo dopo il referendum di domenica.

Fin qui la descrizione della vicenda interna. Ma ovunque si fermerà il pendolo che in queste ore sta oscillando – più o meno vicino alle ambizioni di De Luca, oppure a quelle di chi prova a frenarne il passo – resta il dato elettorale. Certo: ha perso Renzi, ha perso l’idea che si potesse indicare nella riforma costituzionale il cambiamento che il Paese chiede, ma è certo anche che l’interpretazione che ne viene offerta dal Pd campano, in termini di gestione del potere, di intermediazione politica fondata su un rapporto di tipo notabilare, è molto lontana dal costituire un possibile terreno di risposta. Se la domanda fosse: cosa significa l’appartenenza al partito democratico in questa regione, la risposta ben difficilmente là si potrebbe dare  in termini di proposte, progetti, visioni, storie. C’è un deficit di cultura politica evidente. Del resto, la personalizzazione impressa alla vicenda campana dalla vittoria di De Luca nelle elezioni regionali fa il paio con quella di Renzi a livello nazionale, ma è sempre più dubbio che da sola basti. Che basti cioè essere non democratici, ma deluchiani o anti deluchiani. Eppure, per un verso o per l’altro, le ultime mosse dentro il Pd sembrano correre ancora lungo questa faglia. Che l’esito del referendum rischia non di correggere, ma anzi di approfondire.

E poiché non solo nel presente, in città, ma anche in futuro, a livello regionale, la sfida è rappresentata dalla retorica populista di De Magistris, forse è bene che il partito democratico cominci da subito a rinnovare modi, forme e contenuti della sua azione politica, e a imbastire uno spettacolo diverso da quello che rischia di prendere corpo in queste ore.

(Il Mattino, 7 dicembre 2016)