Il gelo delle dichiarazioni che accompagnano le avventure e le disavventure della sindaca di Roma Virginia Raggi la dice lunga sul clima che si respira in casa Cinquestelle. Paola Muraro è un problema suo, della sindaca, ha detto seccamente Grillo dopo le dimissioni dell’assessore all’Ambiente, raggiunta da un avviso di garanzia. Volerla difendere è stata una scelta della sindaca, ha detto la senatrice Paola Taverna, che con il primo cittadino della Capitale non ha mai avuto un particolare feeling (eufemismo). E così si esprimono anche gli altri, anche i Di Battista o i Di Maio, o quelli più abbottonati che cercano di non dire una parola, ora che la Guardia di Finanza è entrata in Campidoglio e ne è uscita con gli scatoloni pieni così di carte, e l’idea di passare al setaccio tutte le nomine fatte dalla giunta nei primi mesi della sindacatura a cinque stelle.
L’imbarazzo è grande, e Grillo e i suoi hanno compreso subito che non è il caso di schierare il Movimento come un sol uomo al fianco della sindaca. Si rischia di scottarsi. Così uno tace, quell’altro evita di incontrarla, un altro ancora precisa che non c’è nulla da nascondere e – ci mancherebbe pure! – tutti, ma proprio tutti si dicono tranquilli.
La tranquillità sul versante giudiziario non è però pari alla preoccupazione su quello politico: a un passo dalle elezioni, che potrebbero consegnare ai pentastellati il governo del Paese, l’Amministrazione capitolina non può naufragare ancor prima di aver intrapreso la navigazione. Eppure i mesi passano e Virginia Raggi sembra tornata alla casella di partenza: con l’assessore che si dimette, le deleghe trattenute nelle mani del primo cittadino, le nomine sub iudice e tutt’intorno i malumori palpabili del Movimento.
La sindaca, dal canto suo, pare aver deciso di interpretare fino in fondo il ruolo della persona ingenua e inesperta (guai a chi dice: della bambolina imbambolata!), di quella che agisce sulla base del parere degli uffici, e dunque, se sbaglia, sbaglia in perfetta buona fede. Come se un errore in buona fede non avesse effetti sulla buona o cattiva amministrazione di un municipio e fosse quindi perfettamente scusabile. Ma la politica, lo spiegava Max Weber, è indistricabilmente connessa non con le incrollabili convinzioni di ciascuno, ma con le conseguenze collettive e pubbliche delle proprie azioni (o inazioni). Conta l’etica della responsabilità, non quella delle intenzioni.
Il particolare che non può sfuggire è che Virginia Raggi è entrata in carica ormai da un pezzo. Non è più una semplice cittadina, come la retorica del Movimento continua a ripetere: firma atti, prende decisioni, e per ciascuna firma, per ogni decisione si assume una precisa responsabilità. Politica, non solo amministrativa.
Eppure, in maniera «super-tranquilla» – come dice supertranquillamente Di Battista – i Cinquestelle continuano a mostrare di tenere sopra ogni altra cosa alla trasparenza dei comportamenti, piuttosto che all’efficacia dell’azione di governo dell’ente. Trattandosi di Roma, della capitale d’Italia, non è un particolare da poco. Che peraltro produce risultati paradossali, persino grotteschi.
Basta guardare il videoselfie con il quale, nel cuore della notte, la sindaca ha dato l’annuncio di avere accolto le dimissioni della Muraro. Un’inquadratura degna del più agghiacciante film di Roman Polanski, «Rosemary’s Baby». Vedere per credere: colori lividi e spenti, Virginia Raggi in primo piano, e alle spalle, tutti seduti intorno a un grande tavolo, muti, seri e con le mani conserte, i consiglieri del Movimento. Se la messa in scena voleva trasmettere fiducia, sicurezza, unità, padronanza della situazione, beh: Virginia Raggi è riuscita a fare esattamente il contrario, a dare la più vivida rappresentazione dell’inquietudine quasi lugubre che serpeggia nella stessa maggioranza. È singolare come tutta questa conclamata trasparenza non lasci entrare nelle stanze del Campidoglio nemmeno una ventata di aria fresca e libera: tutti fermi, tutti zitti, tutti chiusi dentro una stanza e costretti dentro la stessa inquadratura.
Ma, si dirà, la semiologia non è la politica, e dunque si può lasciar perdere l’analisi di questa singolarissima maniera di comunicare la decisione della Muraro di mollare.
Resta però la distanza lunare dai problemi della città, l’impalpabilità dell’azione amministrativa, la difficoltà di misurarsi con la quotidianità dei problemi di una metropoli come Roma, e il dubbio che non basti affatto proclamare di avere le mani nette per meritarsi la patente di buon amministratore. La Guardia di Finanza non troverà nulla negli scatoloni: è molto probabile. Ma è altrettanto probabile che non trovino nulla neppure i romani, al tirar delle somme.
(Il Mattino, 16 dicembre 2016)