Archivi del giorno: dicembre 24, 2016

Legge elettorale, le regole del Colle

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Un indizio è soltanto un indizio, due indizi fanno una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova. La scrittura della nuova legge elettorale non è un romanzo di Agatha Christie, ma ieri di indizi ne sono venuti proprio tre, come voleva la regina del giallo. Il primo lo ha fornito Silvio Berlusconi, che salito al Quirinale per il messaggio di auguri del Capo dello Stato, ha detto che di legge elettorale si tornerà a parlare dopo la Consulta, essendo necessario, su una materia così «seria», confrontarsi attorno a un tavolo per giungere a un testo condiviso.

Campa cavallo? L’unica indicazione che il Cavaliere ha fornito nel merito non va, peraltro, in direzione del Mattarellum proposto domenica, nell’Assemblea nazionale del Pd, da Matteo Renzi. Serve una legge – ha detto – che «faccia corrispondere maggioranza parlamentare e maggioranza politica». Ora l’idea stessa di una corrispondenza confligge con i meccanismi disproporzionali di qualunque legge capace di generare effetti maggioritari, come i collegi uninominali del Mattarellum. Quindi, quello del Cavaliere a tutto somiglia meno che a un via libera.

Del resto, Forza Italia non ha mai amato la legge che porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica: proprio per via dei collegi, che obbligano le forze politiche a raggiungere un accordo a livello locale, collegio per collegio, su un solo nome. Cioè costringono Berlusconi a subire il forte radicamento territoriale della Lega in certe aree del Paese.

Il secondo indizio – e siamo alla coincidenza – è venuto dai lavori parlamentari, con la scelta di non procedere all’esame della materia elettorale prima della sentenza della Consulta. La Lega ha alzato la voce, denunciando l’inedita alleanza, in commissione affari costituzionali, fra Pd, Forza Italia, M5S, e accusando i parlamentari di puntare al vitalizio, tirando per le lunghe la legislatura almeno fino al prossimo autunno. Ma non occorrono motivazioni così basse: si può fornire una spiegazione più politica per la decisione assunta, che sta meno nella volontà di allungare i tempi e più nelle perplessità che la proposta di Renzi solleva. In Forza Italia s’è detto. Quanto ai Cinquestelle, confidando di vincere le elezioni, essi sperano ancora in un Italicum magari riveduto e corretto dalla Corte, ma che mantenga comunque un premio per il primo partito. Se poi così non fosse, la seconda scelta non sarebbe certo il Mattarellum, che dà qualcosa in più, col meccanismo uninominale, alle formazioni in grado di esprimere una classe dirigente ampia e riconosciuta (che ad oggi il Movimento non ha), bensì un sistema proporzionale, che dà a ciascuno il suo senza risolvere la questione del governo. Con i chiari, anzi i raggi di luna dei cieli romani, mancare l’appuntamento del governo nazionale ma ingrossare le proprie file in Parlamento non sarebbe forse una cattiva soluzione, per Grillo & Casaleggio.

Infine il Pd: il voto di domenica lo ha ricompattato intorno alla proposta del segretario, però è noto che molti, dentro il partito, pensano che per Renzi le cose si complicherebbero non poco in uno scenario di tipo proporzionale. Nel gioco parlamentare che la prima Repubblica allestiva per giungere alla formazione dei governi (per farli, certo, e per disfarli), la regola non scritta era infatti che il Presidente del Consiglio non fosse il segretario del partito. Ci sono voluti Spadolini prima e soprattutto Craxi poi per cambiare le consuetudini dei capi democristiani. Era un altro mondo, naturalmente, ma a parte nostalgie e rimpianti – almeno in parte giustificate dalle prestazioni non eccelse dell’assetto istituzionale della seconda Repubblica – di sicuro c’é, nel Pd, chi si chiede perché dare ancora a Renzi, col Mattarellum, una dote maggioritaria che potrebbe portarlo di nuovo alla guida del governo.

Queste, ammettiamolo, sono solo ipotesi, congetture, ragionamenti astratti. Ma poi c’è il terzo, decisivo indizio: ci sono le parole del Presidente della Repubblica. A sentir le quali, di nuovo: la legge elettorale si allontana. Per Mattarella il sistema va senz’altro  «riallineato rispetto agli orientamenti del corpo elettorale», ma solo nel momento in cui «l’andamento della vita parlamentare ne determinerà le condizioni». Non c’è posizione più corretta dal punto di vista costituzionale, ma è comunque una non piccola sottolineatura. Qualcosa di più di una precisazione in dottrina. Tanto più che il richiamo, detto che non si può andare al voto con due leggi opposte fra Camera e Senato – una «fortemente maggioritaria», l’altra «assolutamente  proporzionale» – è stato accompagnato dall’invito a trovare una soluzione «più ampia della maggioranza di governo».

Di nuovo: è assolutamente corretto ed anzi auspicabile, e però una soluzione del genere da un lato prende tempo, dall’altro è molto difficile che si trovi intorno al Mattarellum, voluto allo stato solo dal partito democratico (renziano) e dalla Lega. Ora si può immaginare che la legge elettorale la facciano il Pd e la Lega? Forse no. E forse, se tre indizi fanno una prova, la battaglia politica che Renzi deve ingaggiare per spuntare una legge che gli restituisca lo scettro della leadership è molto più dura del previsto.

(Il Mattino, 21 dicembre 2016)

Renzi tra autocritica e rilancio

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Un voto quasi unanime dell’Assemblea nazionale segna la ripartenza del partito democratico. La minoranza non partecipa al voto, ma dà il via libera alla proposta di Renzi di ricominciare dal Mattarellum, «l’unica proposta che può essere realizzata in tempi brevi». E che può tastare la voglia di elezione degli altri partiti. Il congresso viene riportato alle scadenze statutarie, quindi dopo le politiche, anche per evitare di farne solo una conta, e nel frattempo si prova a rilanciarne l’azione con una conferenza programmatica e una mobilitazione dei circoli sul territorio. C’è spazio anche per qualche spunto personale e qualche stilettata polemica, per una parola di solidarietà per il sindaco di Milano, Sala, e per un attacco frontale alla Raggi e ai Cinquestelle, ma gran parte del discorso è rivolta a ristabilire un clima di confronto civile all’interno del partito.

L’ex premier fa velocemente il bilancio dei mille giorni passati al governo, rivendica il lavoro compiuto ma non vi si dedica troppo: non è il momento di celebrarsi. L’analisi del voto è severa, senza compiacimenti per quel 41% di sì che non cambia i termini del risultato: per il Pd è stata una sonora sconfitta, soprattutto al Sud e tra i giovani. «Abbiamo straperso», dice Renzi senza giri di parole. Ma è escluso che si torni indietro, e per togliere ogni dubbio mette nella colonna sonora dell’Assemblea l’inno beffardo di Checco Zalone alla prima Repubblica. E però, a fine giornata, le idee forti per ripartire daccapo e rimettersi il partito in asse col Paese latitano un po’.

Le quattro sconfitte.

Renzi non comincia dall’analisi del voto, ma ci arriva presto. E non fa sconti, non usa giri di parole. Ammette che la via del cambiamento istituzionale come risposta alla crisi generale del Paese è ormai preclusa. La sconfitta è maturata non una ma quattro volte: nel Sud, tra i giovani, nelle periferie, sul web.  Non è poco, perché chiama in causa la natura stessa di un partito di sinistra, che proprio in quelle aree e in quelle fasce sociali dovrebbe invece riscuotere più consenso. Fa male a Renzi soprattutto non aver convinto le nuove generazioni, sia per il segno generazionale che aveva impresso alla sua leadership, sia perché le riforme costituzionali dovevano parlare del futuro della nuova Italia, e dunque convincere anzitutto loro. L’unico lenimento alla sconfitta è la consapevolezza che quelli del No non hanno una proposta politica: « C’era nel fronte del No chi diceva che in 15 giorni avrebbe fatto le sue proposte di riforma. Aspettiamo i prossimi cinque mesi».

Le riforme

Un libro racconterà l’esperienza del governo Renzi. In altri tempi, i mille giorni sarebbero forse stati ripercorsi da Renzi con il passo di una campagna napoleonica: l’ex Presidente del Consiglio deve invece limitarsi al progetto editoriale e a un’orgogliosa rivendicazione del lavoro svolto. Quando però dice che le riforme approvate dal suo governo non puzzano, ma resteranno nella storia del Paese, si sente che lo dice con convinzione. È significativo tuttavia che scelga, per riassumere il senso dell’operato del suo governo, la legge contro il caporalato, la legge sulle unioni civili, la legge sullo spreco alimentare. Il bilancio è cosa del passato, e il mio governo è già passato remoto, dice Renzi, ma intanto sceglie di non citare la buona scuola e il jobs act, e di richiamare le misure condivise da tutto lo schieramento democratico. Lo fa anche perché registra dal voto e dal dibattito interno l’esigenza di spostare più a sinistra il baricentro del partito. (Sull’orizzonte del nuovo governo Gentiloni c’è poco o nulla nel suo discorso, e così anche in quello di tutti gli altri relatori dell’Assemblea: giusto, insomma, lo spazio di una parentesi).

Il tempo dei tour è finito.

Il terreno sul quale più ampia si fa la disponibilità del Segretario è quello del partito e della sua interna organizzazione: Renzi annuncia un imminente incontro con tutti i segretari provinciali e regionali, poi una grande mobilitazione dei circoli e, più in là, una conferenza programmatica. L’accento viene portato sul noi, sul senso di appartenenza, sulla comunità dei democratici (in contrapposizione con l’azienda privata Casaleggio & associati, che procede a colpi di contratti e di penali per gli eletti del Movimento Cinquestelle). Accetta le critiche alla personalizzazione della lotta politica e rinuncia a ripartire in tour, col camper: il partito di Renzi, insomma, non si materializza neppure questa volta. Del resto, l’analisi è persino edulcorata rispetto alla realtà del partito in molte zone del Paese, e Renzi ne è chiaramente consapevole. Lo si capisce per esempio dal passaggio in cui dice che nel Mezzogiorno si è sbagliato a puntare sul notabilato locale, invece che cercare forze nuove e vive nella società. La frittura di pesce di De Luca non è stata ancora digerita.

Niente melina.

La proposta del Mattarellum è quella che ha scatenato il momento più vivace della giornata, con Giachetti che insulta il novello Davide, Speranza, sceso in campo contro Golia-Renzi («hai la faccia come il c.!», gli urla Giachetti, e parte la bagarre). Si capisce perché: era la proposta che il Pd di Bersani, con Speranza capogruppo, aveva lasciato cadere, assecondando la scelta del 2013 di votare col Porcellum. Col Mattarellum la legge elettorale mantiene un impianto maggioritario, grazie ai collegi uninominali, il che consente a Renzi di tendere una mano a Pisapia, il quale ha il non facile mandato di federare lo sparso arcipelago alla sinistra del Pd, e di spegnere o almeno attenuare le pulsioni proporzionaliste che serpeggiano in Parlamento, in quasi tutte le forze politiche: nella minoranza Pd, che la considera come una sconfessione della stagione renziana; in Forza Italia, che non avrebbe più il problema di allearsi con Salvini; nei piccoli partiti, che non avrebbero il problema di confluire nei grandi; fra gli stessi Cinquestelle, che di andare da soli fanno una religione. Ma Renzi sa che i collegi uninominali premiano il partito che ha più nomi e classe dirigente da mettere in campo e, checché se ne pensi, questa forza rimane, a tutt’oggi, il partito democratico. Di qui la proposta, e l’energico invito a non fare melina. Col Mattarellum hanno vinto sia la destra che la sinistra: quindi un accordo lo si può trovare, ha detto Renzi. E forse ci crede davvero.

Ideologia, malgrado tutto

C’è qualcosa che Renzi ha lasciato fuori? Ha fatto il bilancio del governo e l’analisi del voto; ha indicato un nuovo fronte di impegno nel partito e formulato una proposta chiara e forte sulla legge elettorale; ha menato fendenti ai grillini e qualche stilettata a Bersani & Company: che altro? Forse di altro il Pd avrebbe bisogno. Perché molti interventi – da Cuperlo a Orlando, da Martina a Del Rio – hanno ragionato di una crisi della sinistra, in Italia e in Europa, che data da molti anni. Si sono sentiti accenti preoccupati sulle diseguaglianze crescenti, sulle nuove povertà, sui populismi alimentati da paure e insicurezze, sulle nuove esigenze di protezione sociale, sulla necessità di ripensare il ruolo dello Stato, ma la distanza tra il Pd e quest’orizzonte di temi e problemi rimane ampia: sul piano  culturale e ideologico prima ancora che su quello programmatico. A quelli che pensano che le ideologie sono defunte basterebbe sussurrare due o tre nomi: Trump, Le Pen, Brexit; e aggiungere parole come: Islam, emigrazione, banche, euro. A torto o a ragione, su tutte queste parole esiste un compatto fronte di idee in cui pesca la destra europea, e i suoi emuli italiani. E la sinistra? Come legge il Pd la globalizzazione, come legge o corregge la modernizzazione del Paese, come ridefinisce il suo profilo mentre il socialismo europeo continua ad andare a rimorchio delle forze moderate e popolari, dalla Merkel, in Germania, a Fillon, in Francia? Renzi è rimasto sulla superficie, e forse non poteva fare altrimenti, per riprendere in mano il partito e guidarlo nella prossima campagna elettorale. Ma che il Pd abbia bisogno di sterrare le radici della propria storia, per ripiantarle meglio e più in profondità, è pensiero di cui, dopo il 4 dicembre, molti ormai si sono fatti persuasi.

(Il Mattino, 19 dicembre 2016)