Archivi del mese: gennaio 2017

L’insostenibile trincea dei diversamente avversari

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C’è dell’ironia involontaria nella scelta del nome che i comitati riuniti a Roma da Massimo D’Alema si sono dati. Nome nuovo e simbolo nuovo: conSenso. L’ironia non sta tanto nel doppio significato della parola, scritta con la maiuscola in mezzo, quanto nell’ambizione: di quale consenso si parla? Del consenso di una formazione che, alla sinistra del partito democratico, dovrebbe raccogliere tutto il malcontento manifestatosi già a dicembre, con il No al referendum costituzionale. Raccoglierlo tutto non è un’impresa facile, perché alla sinistra del Pd si fa fatica a contare il numero di formazioni, forze e partiti che a vario titolo hanno la medesima aspirazione. L’elettore medio non lo sa, ma esiste ancora, da quelle parti, l’eredità comunista di Rifondazione; forse ne ha perso la memoria, ma ci sono ancora formazioni e associazioni verdi e ambientaliste. C’è Possibile, il movimento di Pippo Civati. C’è Sinistra italiana, anche se rischia di dividersi irreparabilmente nel corso del suo primo congresso. C’è Pisapia, che vuol fare una cosa tutta nuova. E sicuramente ci sono altre sigle, di cui non è facile serbare il ricordo. Poi, nel Pd, ci sono Cuperlo, Rossi, Emiliano, Speranza, Bersani: tutti avversari di Renzi ma, manco a dirlo, diversamente avversari.

Nulla di nuovo, in verità: il minoritarismo è una vecchia malattia della sinistra italiana. Proprio perciò, si potrebbe dire, questa volta l’ex Presidente del Consiglio sta facendo la cosa giusta, proponendo un’ipotesi di ricomposizione di un’area che, dopo la scoppola rimediata da Renzi al referendum, avrebbe davanti a sé una prospettiva politica chiara e larga.

In realtà, è vero esattamente il contrario. Quel che non si capisce è infatti perché la sinistra-sinistra dovrebbe trovare in Massimo D’Alema il suo campione. Dopo averlo per anni rappresentato come l’uomo dell’inciucio con Berlusconi, della Bicamerale, del patto della crostata, della Lega costola della sinistra e di Mediaset risorsa del Paese – per non dire della guerra nell’ex Jugoslavia, o della riforma del mercato del lavoro (che non comincia con il Jobs act, ma con i governi dell’Ulivo) – tutti quelli che sono usciti da sinistra prima dal Pds, poi dai Ds, poi dal Pd, trovando D’Alema ogni volta alla propria destra, ora dovrebbero invece affidare a lui le chance di rinascita della sinistra quella vera, quella tradita dal Pd di Renzi.

C’è dell’ironia involontaria, perché il consenso di cui si tratta non è quello che D’Alema e i suoi vogliono riconquistare, ma solo quello che vogliono erodere al Pd. D’Alema non vuole aggiungere, vuole sottrarre. Lo scenario neo-proporzionalista disegnato dalla decisione della Consulta glielo consente. Si può discutere se vi sia uno spazio politico per la formazione che D’Alema si prepara a far nascere; è indiscutibile che, con la nuova legge, vi sia uno spazio parlamentare. Piccolo, ma in uno scenario frammentato non insignificante. Perciò non c’è bisogno di particolari doti divinatorie: se, come è probabile, non si troverà un accordo sul Mattarellum proposto dal Pd e si rimarrà dentro coordinate di tipo proporzionale, si può star certi che conSenso nascerà.

Si dice: la storia della sinistra italiana è punteggiata di divisioni, da Livorno a Palazzo Barberini fino alle lacerazioni post-comuniste della seconda Repubblica. È vero, ma fratture e scissioni hanno avuto un senso diverso, a seconda della prospettiva politica in cui si inscrivevano: in un primo senso, si è trattato dell’integrazione nelle strutture dello Stato democratico e, quindi, dell’ingresso nell’area di governo; in un secondo senso, si è trattato di una chiave del tutto opposta, di rifiuto di qualunque compromesso con le regole della democrazia borghese. In un ultimo senso, si è trattato invece di un mero riflesso identitario, di una chiusura idiosincratica e difensiva rispetto a cambiamenti mal digeriti è mai accettati. In quest’ultimo senso Renzi è stato vissuto da D’Alema fin dal primo giorno in cui il sindaco di Firenze ha lanciato la sua opa sul Pd. Un estraneo, un usurpatore, un pericolo per la ragione sociale della ditta.

ConSenso nasce infatti non tra coloro che hanno votato No, non tra coloro che vogliono abbattere il capitalismo, non tra quelli che vogliono ritornare all’articolo 18 e neppure tra quelli che vogliono la democrazia diretta è nuove forme di partecipazione: nasce tra quelli che non vogliono Renzi. In conciliaboli privati , D’Alema del resto non lo nasconde: non è una questione programmatica, non può esserlo per chi ha discusso con Berlusconi di semipresidenzialismo, per chi vantava, quando era al governo, rigore nei conti e avanzi primari come neanche la Destra storica di Quintino Sella, di chi, infine, ha litigato aspramente con la Cgil di Cofferati. Non è una questione programmatica, è una questione politica in senso esistenziale, è una frattura incomponibile fra amici e nemici. In una fase storica profondamente segnata dal risentimento, che nasca un piccolo soggetto politico da una spinta di questo genere non può sorprendere. Che a farlo nascere sia l’ultimo erede del partito comunista di Togliatti e Berlinguer sorprende un po’ di più. Che infine non si veda, o si faccia finta di non vedere che torti e ragioni contano assai poco, perché il partito del risentimento non potrà mai essere conSenso, ma solo i Cinquestelle, ecco: questa è cosa che sorprende molto, molto di più.

(Il Mattino, 29 gennaio 2017)

Un salvagente che non basta a galleggiare

immagineLa calma che precede la tempesta è finita. Ora tutto lo scenario politico si rimette in movimento. Con la decisione di ieri, la Corte costituzionale pone nelle mani delle forze politiche la responsabilità di decidere se proseguire o meno il cammino della legislatura. La Consulta confeziona infatti una legge elettorale «di immediata applicazione», non però una legge uguale a quella del Senato. Cade il ballottaggio, ma rimane il premio di maggioranza per la lista che supera il 40%. Rimangono le candidature in più collegi, ma cade la possibilità per l’eletto di decidere per quale collegio optare (si dovrebbe fare col sorteggio). Rimangono le soglie di sbarramento, ma diversamente profilate rispetto al Senato, e rimane pure un’altra cospicua differenza: che la legge alla Camera non prevede le coalizioni, previste invece al Senato.

Ha prevalso, nel pronunciamento della Corte, un approccio strettamente ortodosso alla questione. La materia elettorale è costituzionalmente necessaria: senza una legge elettorale le istituzioni della democrazia non possono funzionare. Quindi occorreva – questo il ragionamento – cancellare i profili di incostituzionalità dell’Italicum, ma al tempo stesso salvaguardare la funzionalità del sistema. Il risultato non è la legge più bella del mondo, ma è –per dir così – semplicemente una legge “risultante”. Di più, probabilmente, non si poteva fare. Interpretare creativamente il ruolo della Corte, surrogare politica e Parlamento, dettare in maniera prescrittiva le modifiche da approvare per avere una nuova legge: tutte queste diverse linee di condotta, già controvertibili in punta di diritto, sarebbero state anche politicamente assai più discutibili.

Ora, comunque, sono aperte entrambe le strade: quella più lunga lungo la quale provare ad accordare i sistemi elettorali delle due Camere, e quella più breve, che porta il Paese direttamente, o quasi, alle urne.

In realtà, l’esigenza di «armonizzare» le due leggi, fatta presente dal Presidente della Repubblica durante i giorni della crisi di governo, a dicembre, può essere soddisfatta anche per le vie brevi. Come dice per esempio Luigi Di Maio, per il quale basterebbe estendere quel che è rimasto dell’Italicum anche al Senato, per andare a votare con due sistemi omogenei. Ma, in primo luogo,non è affatto ovvio che si raggiunga un ampio accordo parlamentare su una modifica del genere; in secondo luogo, non è per nulla scontato che si consegni in questo modo al Paese un sistema che assicuri la governabilità.

Questo elemento, ancor più che le difformità fra le due leggi, deve far riflettere. Il sondaggio ieri pubblicato da questo giornale mostrava che, se si votasse oggi con quel che resta dell’Italicum, non solo nessun partito conseguirebbe il premio (alla Camera) raggiungendo la soglia del 40%, ma sarebbe difficile anche la formazione di una maggioranza in Parlamento, perché né un’ipotesi di coalizione di larghe intese, fra Pd e Forza Italia, né un’ipotesi di accordo fra Lega e Cinquestelle risulterebbe vincente. Il rischio di una paralisi è, insomma, un rischio assai concreto. Ed è difficile comunque scongiurarlo, dati gli attuali rapporti di forza tra i principali partiti politici.

Bisogna peraltro convenire che questo rischio è il prezzo che il Paese paga alla scelta del 4 dicembre (così come, se avesse vinto il Sì al referendum costituzionale, per i sostenitori del No avremmo corso un altro rischio, di brusca riduzione degli spazi di democrazia).

Comunque però si veda la cosa, non poteva certo essere la Corte costituzionale a togliere tutte le castagne dal fuoco. C’è, anzi, dell’ironia involontaria in quella eventualità di un sorteggio in caso di plurima elezione: sembra quasi una citazione. Alle origini della democrazia rappresentativa c’è stata infatti questa tentazione, di riprendere l’istituto del sorteggio, in uso presso gli antichi greci, in luogo delle cariche elettive. Sembrava la soluzione più democratica del mondo (siamo tutti uguali, tanto vale sorteggiare), mentre è lo svilimento più grande e anzi la rinuncia all’idea stessa della rappresentanza.

E in un certo senso, è questa la vera questione democratica: come dare nuovo senso alla rappresentanza parlamentare, sempre più lontana dall’essere il cuore del sistema.

Rimane ora da vedere se gli equilibri politici inclineranno verso un rapido ritorno alle urne, oppure verso una più complessa fase di decantazione: in cerca, forse, di una nuova formula politica ancor più che di un nuovo marchingegno elettorale.

Perché ora la legge c’è, bella o brutta che sia. Ma ci sono gli interpreti?

(Il Mattino, 26 gennaio 2017)

Le tre ragioni che ci portano al proporzionale

Acquisizione a schermo intero 24012017 104400.bmp.jpgIl passo successivo alla vittoria del No al referendum del 4 dicembre scorso, alle dimissioni di Matteo Renzi e alla formazione del governo Gentiloni si compie oggi, con la decisione della Corte Costituzionale sull’Italicum, la legge varata dalla maggioranza lo scorso anno per l’elezione della sola Camera dei Deputati: il testo della riforma costituzionale non prevedeva infatti l’elezione diretta del Senato. Ma la riforma è stata bocciata, il Senato resta lì tal quale e si pone ora il problema di dare al paese un sistema elettorale coerente, che consenta sperabilmente la formazione di maggioranze omogenee tra le due Camere. Non è un’impresa semplice, dal momento che il sistema politico non si è mosso in una direzione bipolare: c’è un polo di centrosinistra che può aggregarsi attorno al Pd, e un polo di centrodestra che può costituirsi ancora intorno a Forza Italia. Ma c’è anche un polo rappresentato dal Movimento Cinquestelle, e ci sono altre formazioni da una parte e dall’altra dello spettro politico: Lega e Fratelli d’Italia sul versante destro,Sinistra italiana su quello opposto.

L’Italicum prevede il doppio turno, con un ballottaggio, al secondo turno, tra le prime due formazioni. In questo modo, con un sacrificio della rappresentanza, la legge può assicurare la governabilità del sistema. Proprio questo meccanismo è però sospettato di incostituzionalità, dal momento che, senza ulteriori condizioni di contorno, consentirebbe una sovrarappresentazione della forza che uscisse vincente dal ballottaggio.

Ora, cosa comporta il giudizio di oggi se, come molti osservatori danno per certo, la Corte reputasse la legge incostituzionale? Difficile fare previsioni. Di certo, Renzi e il Pd subirebbero un nuovo smacco (piccolo o grande dipende da quanto profondo sarà l’intervento della Corte). Passato con il voto di fiducia, l’Italicum doveva essere la legge che, insieme al cambiamento della Carta fondamentale, avrebbe completato il percorso delle riforme di sistema. La sua bocciatura avrebbe oggi il significato di un’ulteriore sconfessione della strada allora intrapresa.

Anche per questo, è molto cresciuto in queste settimane il partito proporzionalista. L’Italicum aveva infatti un impianto di tipo maggioritario (molto rozzamente: chi ha anche solo un voto in più vince e governa), che funziona egregiamente quando in lizza vi sono solo due forze, ma che invece comprime tutte le altre quando, appunto, di forze ve ne sono ben più di due: come è sempre accaduto nella storia d’Italia, e come è vero anche oggi.Sconfitto al referendum, sconfitto innanzi alla suprema Corte, il partito maggioritario avrebbe difficoltà a resistere alla rivincita del proporzionalismo. Che risponde, per dirla altrettanto rozzamente, al principio per cui ciascuno conta per i voti che ha, pochi o molti che siano, siraggiunga o meno una maggioranza.

Ufficialmente il Pd rimane per una soluzione di tipo maggioritario, ma le probabilità che si trovi un accordo in Parlamento sulla proposta fatta da Renzi di tornare al Mattarellum, cioè alla legge per tre quarti maggioritaria con cui si è votato nei primi  anni della seconda Repubblica, sono molto basse.

In realtà, sia dentro il Pd che fra i suoi alleati cresce la voglia di proporzionale. Per tre ragioni. Primo, perché il disorientamento seguito al referendum suggerisce alle forze politiche di rimandare il problema del governo a dopo il voto, non essendo quasi nessun partito pronto a presentarsi credibilmente in coalizione con altre formazioni. Secondo, perché col proporzionale molti pensano che sia più difficile ai Cinquestelle ottenere la maggioranza, anche qualora dovesse trovare un accordo con la Lega su una piattaforma giustizialista, nazionalista, antieuropeista. Terzo, perché una legge proporzionale allontana i segretari di partito dalla Presidenza del Consiglio. Cioè, per dirla più chiaramente, perché per Renzi sarebbe più difficile far valere la sua candidatura a Palazzo Chigi.Uno scenario possibile sarebbe infatti il seguente: Cinquestelle primo partito, ma senza una maggioranza parlamentare. L’onere di governare spetterebbe allora a una coalizione da formarsi tra le altre forze, ma che certo non potrebbe essere guidata dal segretario del Pd che non avesse vinto le elezioni.

L’ultimo fattore da considerare è il fattore tempo. È difficile che la Consulta consegni al Paese una legge elettorale bell’e fatta, già armonizzata con il sistema di voto del Senato(che è a sua volta figlio di una illegittimità costituzionale, quella del cosiddetto Porcellum). D’altra parte non si scappa: le leggi deve farle il Parlamento, a meno che la politica non voglia rinunciare completamente al suo ruolo. Ma vent’anni di affanni della seconda Repubblica dimostrano se non altro una cosa: che fare una buona legge elettorale è, per un sistema che ha difficoltà ad autoriformarsi, la cosa più difficile del mondo. E prende un sacco di tempo. Più probabile è che dunque al voto non si andrà in primavera, e forse neppure a giugno.

A meno che Renzi non riesca a far saltare il tavolo e non trovi subito il terreno sul quale sfidare Grillo e i Cinquestelle. Nel Pd è ancora lui la carta più credibile da spendere nel confronto elettorale. Al confronto, Rossi o Emiliano, Speranza o Bersani paiono tutte proposte di pura interdizione. Ma non è detto che basti. Così come non è detto che il Pd al governo con Gentiloni vedrà logorare i consensi, o non piuttosto, poco a poco, riguadagnarli. E quello sì che potrebbe diventare il perno di un’altra stagione politica.

(Il Mattino, 24 gennaio 2017)

A Rigopiano il bello e il brutto del paese

snow-texture-146745«Per rispetto alla bontà e all’amore l’uomo ha l’obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri». Però c’era neve, neve dappertutto, e un silenzio fatale. Un’impresa anche solo raggiungere l’hotel Rigopiano; poi, una volta arrivati con gli sci ai piedi, perché gli spazzaneve non riescono a salire e il mezzo turbina non è disponibile, scavare, scavare incessantemente, scavare senza sosta tra le macerie dell’albergo sepolto dalla slavina, rinunciando ai cambi di turno, dormendo nelle tende igloo, prestando ascolto ai deboli segnali di vita che giungono da sotto la neve. E fare presto, fare il prima possibile, fare anche l’impossibile per trarre in salvo i pochi sopravvissuti.

Non concedere mai partita vinta alla morte: proprio così pensa Hans Castorp, il protagonista del capolavoro di Thomas Mann, «La montagna dell’incanto», nel capitolo che s’intitola semplicemente: neve. Neve, e lo spettrale silenzio della montagna, neve e una quiete mai prima avvertita, e l’abbuiarsi del cielo, e l’enorme massa nevosa in cui non c’è più niente e nessuno da vedere da nessuna parte. Al protagonista del romanzo quel bianco nulla che cancellava ogni via e ogni sicurezza rivelano però tutto sul conto dell’uomo: sulla sua ora più grave e sul modo in cui è da uomini affrontarla.

Così anche la tragedia consumatasi in pochi minuti, sotto la muta imponenza del Gran Sasso, nel cuore dell’Abruzzo, nel cuore dell’Italia, dice tutto, o quasi, sul conto del nostro Paese.

Leggere oggi la mail che il direttore dell’hotel invia nelle ore immediatamente precedenti la catastrofe, per avvertire che lassù sono tagliati fuori dal mondo, che le strade sono bloccate, che i telefoni non funzionano, che il gasolio sta finendo, che gli ospiti della struttura sono spaventati da morire per le scosse sismiche dei giorni passati, ebbene: fa agghiacciare il sangue. E raggela pure immaginare la disperazione dell’uomo che lancia per primo l’allarme, che ha la moglie e i figli sepolti sotto la neve e non può far nulla, e il suo allarme sulle prime non viene giudicato attendibile, e i soccorsi ritardano, e poi non riescono a farsi strada, e poi devono procedere lentamente, non c’è altro modo, non si possono usare mezzi pesanti, e bisogna aspettare, e alcuni, forse solo alcuni saranno ritrovati vivi mentre altri, i più sfortunati, non ce l’avranno fatta.

C’è, in questo racconto, un senso di impotenza delle cose e degli uomini, e insieme una sensazione di insufficienza, o il timore di manchevolezze forse rimediabili, che spesso accompagna le cronache dei grandi disastri ambientali che colpiscono un territorio fragile come quello italiano. Un’alluvione, il crollo di una diga, la valanga, il terremoto: un rosario che sgraniamo ogni volta, dopo ogni nuova sciagura. Ma c’è anche, intrecciato a questo, lo slancio generoso, il vigore e il coraggio dei soccorritori, le parole mai rassegnate e quasi i miracoli che sembrano riscattare un Paese intero.

Ci sono le tante contraddizioni del nostro Paese. L’hotel Rigopiano: una struttura incantevole, in uno scenario naturale quasi magico, ma in una zona a rischio valanga. Con le autorizzazioni in regola, ma accompagnato in queste ore dal dubbio che tra autorizzazioni e gestione del rischio qualcosa non sia in ordine. Con la turbina spazzaneve rotta, e quella funzionante lì vicino ma che non viene resa disponibile. Con i mezzi ordinari in difficoltà, ma con i soccorritori pronti a fare gli straordinari. L’accertamento di eventuali responsabilità, affidato alle indagini della magistratura, è doveroso, in presenza di una simile catastrofe: lo è meno la corsa a individuarle ancor prima che le indagini siano partite. Ma soprattutto vi è una difficoltà quasi congenita a fare buon uso del concetto: dove comincia e dove finisce la responsabilità del proprietario dell’albergo? Dove comincia e dove finisce quella delle autorità competenti sui permessi autorizzativi? Dove quella della protezione civile, e quella degli esperti? Dove, infine, quella della politica? Siamo sempre tentati dall’attribuire responsabilità presuntamente oggettive a questi a quegli, ma pure a liberarcene in maniera semplicemente burocratica, quando, a volte, non truffaldina. Però siamo anche pronti a sopportare i pesi più grandi, quando si tratta di dimostrare non responsabilità ma solidarietà, non giudizio ma comprensione.

«Che cos’era successo? Che mondo era quello? Era già il mattino? Era davvero rimasto tutta la notte nella neve senza assiderarsi, come avrebbe dovuto secondo tutte le esperienze?». Come Hans Castorp, pure noi, pure gli italiani a volte devono, incerti tra il sogno e l’incubo, pestare i piedi, scrollarsi e dibattere per capire dove sono, a che punto sono, e quale direzione prendere. La valanga li ha tramortiti, ma non li ha lasciati indifferenti.

(Il Mattino, 23 gennaio 2017)

Adesso facce pulite e nuove competenze

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Il Pd deve riflettere, aveva detto ieri Renzi a «Repubblica». E non è una riflessione semplice: non solo per lui, a livello nazionale, ma anche per il partito, a livello locale. Non solo non è semplice la riflessione, ma non è neppure facile farla uscire fuori. E farla diventare un nuovo punto di coagulo per una formazione politica che, dopo la tremenda botta del referendum, continua a sembrare incerta sulle sue ragioni di fondo. La Direzione provinciale del Pd napoletano ha provato ieri a indicare un percorso: coordinamento cittadino e congresso straordinario in primavera. Eventuali elezioni politiche a giugno potrebbero rendere difficile rispettare questo calendario, ma la più grande difficoltà sta nel portare questi appuntamenti all’attenzione della città, sta nel coinvolgere le energie più vitali, sta nell’immettere forze e facce nuove, sta nel superare le logiche correntizie, sta nel ricostruire un vero senso di appartenenza e la condivisione di un destino comune. È abbastanza singolare, infatti, quel che sta capitando: alle primarie per Napoli Bassolino si avvicinò per una strada tutta sua, accettando di stare ben dentro il perimetro indicato dalle regole del partito ma decidendo di fare comunque a modo proprio, con un accentuato senso personale della sua candidatura e della sua possibile leadership. Ieri, invece, è tornato a frequentare un organismo collegiale, la Direzione provinciale, e si è detto pronto a dare una mano «purché le correnti non pensino di dividersi le spoglie del Pd». Dall’altro lato, l’uomo forte a cui il partito democratico aveva affidato la sua rivincita alle regionali dello scorso anno, Vincenzo De Luca, ieri invece non c’era, e intervenendo ad Afragola spiegava il senso di un’altra cosa, che col Pd c’entra assai poco: «Campania libera», il «movimento di volontariato politico e civile» pronto ad accogliere persone anche di altri schieramenti, in una chiave di rafforzamento tutta personale del governatore, anzitutto nel consiglio regionale e poi chissà, nelle urne.

Ora, che cosa indicano questi movimenti pendolari, queste oscillazioni sempre più ampie un po’ dentro un po’ fuori i confini del partito, se non una debolezza profonda, e una scarsa attrattività del Pd anzitutto sulle personalità che pure appartengono da decenni alla sua storia, come De Luca e Bassolino?

Naturalmente, in questi moti alternati hanno un peso sostanziale i risultati elettorali non proprio incoraggianti conseguiti dai democratici, a Napoli e nel referendum. La vittoria di De Magistris ha permesso a Bassolino di tornare nel partito mostrando una nuova magnanimità, di fronte a un gruppo dirigente indebolito di cui non ha avuto bisogno di chiedere la testa; la sconfitta del referendum costituzionale, in cui il presidente della Campania si era parecchio esposto, costringe invece De Luca a costruirsi altri spazi fuori del partito, dove i suoi avversari hanno subito rialzato la testa.

In fondo è sempre stato così: le vittorie hanno molti padri, le sconfitte nessuno. Se il sì avesse vinto, lo scorso 4 dicembre, questa volta di padri ne avremmo avuto, in realtà, uno solo, Matteo Renzi. Ma così non è andata, e la condizione di orfanezza – lo spiegava l’altra sera Paolo Sorrentino in tv – «predispone ad abbracciare tutti i vizi». Certo, Renzi è ancora il segretario del Pd, ma siccome ha esercitato la sua presa da Palazzo Chigi, trascurando palesemente le stanze del Nazareno (forse non credendo fino in fondo neppure lui allo strumento del partito), ora che è meno presente, o forse meno temuto, i vizi del partito democratico rischiano di ripresentarsi tutti. Come se la rottamazione fosse già finita; o come se, in Campania, non fosse mai arrivata.

C’era evidentemente molta semplificazione nell’idea originaria, che bastasse disfarsi del vecchio per far nascere il nuovo. Ma che vi sia un problema di rinnovamento della classe dirigente rimane drammaticamente vero, come Renzi ha ampiamente riconosciuto. Oggi il Pd appare, nelle realtà locali, quasi un corpo estraneo alla società: non riesce a appassionare le migliori intelligenze, non riesce a servirsi di nuove competenze, non riesce a coinvolgere figure autorevoli e specchiate, non riesce a raggiungere le giovani generazioni. Questo limite mette in pericolo l’idea stessa della rappresentanza: non a caso i grillini vorrebbero farne semplicemente a meno. Perché la rappresentanza comporta l’affidamento delle proprie ragioni e della propria volontà a qualcuno in grado di interpretarle al meglio.

Ma questo “meglio” è oggi molto difficile trovarlo nelle cerchie di partito, e a volte è anche peggio: sembra che non lo si voglia cercare neppure. Forse il lanciafiamme promesso da Renzi all’indomani dei ballottaggi dello scorso anno non era lo strumento migliore per fare spazio, ma pure bisognerà che qualcuno, dalle parti del Pd campano, getti un fascio di luce nuova.

(Il Mattino, 17 gennaio 2017)

Se la politica si perde tra i congiuntivi

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Tre congiuntivi in un colpo solo non sono uno scherzo. Sono, forse, un record. Perché uno può capitare, due è già più difficile, ma sbagliare tre volte lo stesso verbo, nella stessa frase, per esprimere lo stesso concetto: ci vuole dell’arte. E sicuramente non è colpa dei poteri forti. Fosse stato Grillo, avrebbe comunque trovato il modo di dire: questa volta abbiamo fatto tremare l’Accademia della Crusca, l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e la Società Dante Alighieri tutti in una volta. Ma è una versione che non troverebbe corso neanche tra i più fedeli seguaci del vicepresidente della Camera dei Deputati.

Il quale, forse, di simili obbrobri non è materialmente responsabile. Magari è stato qualche suo collaboratore. Ma vige in questi casi la responsabilità oggettiva: come nello sport. Cosa vi è infatti di più oggettivo della lingua, nel senso, almeno, in cui quel cane morto di Hegel parlava di spirito oggettivo? Se però quello se ne frega dei congiuntivi, quell’altro manda a ramengo le subordinate, e quell’altro ancora non si raccapezza più con la «consecutio», tutta codesta oggettività delle istituzioni culturali, massime della lingua, va a farsi benedire.

Prima di Hegel, però: ricordate quel simpatico personaggio di Lewis Carroll, Humpty Dumpty, l’uovo parlante, che avvia una singolare conversazione con Alice? I due non è che si intendano molto, perché l’uovo ha l’improntitudine di far significare alle parole esattamente quello che vuole lui, e lui soltanto. Certo, Humpty sa che alcune parole hanno un brutto carattere: «I verbi, in particolare, sono i più orgogliosi: con gli aggettivi si può fare qualunque cosa, ma con i verbi; però – prosegue – io riesco a dominare tutto il gruppo».

Manca poco che non aggiunga: dal momento che uno vale uno, come dicono i miei amici pentastellati, non ci può essere nessuna autorità linguistica al di sopra di me ad impormi questo o quel significato, quel tempo o quel modo verbale. Perciò faccio quello che voglio, e se voglio che due soggetti, anziché spiare le massime autorità dello Stato, le spiassero le avessero spiate o le spiano, come dice il mio amico Di Maio, amen e così sia! Con buona pace di Alice e di tutti gli elettori votanti.

Sembra il paradiso della lingua – o della democrazia: fate voi – in realtà ne è la pura e semplice cancellazione, perché non è possibile alcuna lingua dove ciascuno assegna alle parole significati a piacimento, o capovolge e sconvolge la grammatica del linguaggio. Come insegnava quell’altro filosofo: un linguaggio privato non può esistere, è una contraddizione in termini. Il linguaggio o è pubblico o non è; o si fonda su regole condivise, accettate, o non è linguaggio. (E quel che è vero del linguaggio vale anche per un mucchio di altre cose: grosso modo, per tutte quelle che Hegel considerava facenti parte dello spirito oggettivo).

Ora si dirà: ma non è un po’ troppo scomodare tutta questa dottrina e tutte queste citazioni per qualche innocente capitombolo linguistico? Forse sì (anche se a pensarci: se Carroll ha potuta infarcire di pensieri un testo per ragazzi come «Alice attraverso lo specchio», si potrà pure infilare qualche riflessione quasi filosofica in un articolo dedicato alle disavventure di Luigi Di Maio con la lingua italiana, o no?). Ci sono, in realtà, tanti modi per scusare Di Maio (o il suo collaboratore): innanzitutto, dove sta scritto che per fare il vice presidente della Camera dei Deputati bisogna sciacquare i panni in Arno e parlare «la meglio lingua»? In secondo luogo, non è forse vero che l’italiano parlato è molto cambiato, e il congiuntivo è ormai una rarità? E tu che scrivi e che ti ergi a pontefice della lingua, sicuro che non hai qualche scheletro nell’armadio, qualche verbo sghembo e slogato nascosto in qualche articolo, o almeno qualche correzione dell’ultimora fatta grazie a un occhiuto correttore di bozze? Ancora: non sai che il purismo linguistico è roba da reazionari delle lettere, che i «grammar nazi» che girano in rete, pronti a lapidarti per l’uso improprio della punteggiatura, combattono una battaglia di retroguardia, già mille volte persa? Come si può pensare che l’italiano si mantenga uguale a se stesso nei secoli dei secoli, passando dalla meditata compilazione di una pagina alla concitata scrittura di un tweet? Se muore il congiuntivo, bisogna farsene una ragione. Muoiono ogni giorno parole e forme linguistiche, cambia ogni giorno la grammatica, che sarà mai la perdita di una coniugazione completa?  (Infine, immancabile: pensi forse che Di Maio perderà voti o non piuttosto li guadagnerà, grazie alla sua straordinaria naÏveté linguistica?).

Mi permetto di alzare la posta: tutto vero, tutto giusto. Ma se è così, che fine fa Ulrich? Ulrich è un altro personaggio letterario. Sta ne «L’uomo senza qualità» di Robert Musil, uno dei più grandi capolavori del Novecento. Ulrich possiede – e tiene in maggior conto del senso della realtà – il senso della possibilità: «chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talatra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe anche esser diversa». Ma per articolare tutte queste riflessioni c’è bisogno di congiuntivi come dell’aria. Per non soccombere alla dittatura del presente, per non essere schiacciati dalla realtà, per non accontentarsi solo di ciò che è sotto mano, più vicino e più pratico, per dare senso e determinazione a nuove possibilità, e in definitiva: per pensare e per fare pensieri lunghi, di congiuntivi c’è assoluta, vitale, inderogabile necessità. Perché c’è il reale e c’è il possibile; c’è l’indicativo e c’è il congiuntivo; c’è l’affermazione e c’è la negazione. Ma se vi tenete solo l’uno, e rinunciate all’altro, certo non sbatterete mai contro una porta chiusa, però non avrete mai la più pallida idea di cosa potrebbe esserci di là, se invece fosse aperta.

(Il Mattino, 15 gennaio 2017)

La “nuova” politica e le multe dell’infedeltà

dont-throw-the-baby-out-with-the-bath-waterIl passo falso dei Cinquestelle in Europa ha avuto conseguenze anche sul gruppo parlamentare. Due eurodeputati, Marco Zanni e Marco Affronte, hanno lasciato il Movimento per approdare l’uno nel gruppo Salvini-Le Pen, l’altro tra i Verdi. Il che contribuisce a fare chiarezza su un punto: quando si dice che non esistono più la destra e la sinistra s’intende semplicemente che un deputato grillino va dappertutto, ma di sicuro non transita verso i popolari o i socialisti, le due principali famiglie politiche del continente (e non proverebbe ad andare neppure coi liberali europeisti, se non per commettere il più clamoroso degli errori).

Ma la risposta pentastellata non s’è fatta attendere: c’è un contratto, che i parlamentari europei del Movimento sono tenuti a rispettare. Se lasciano il gruppo, tocca loro di pagare una penale di 250.000 euro. Mica bruscolini. Nel Paese che ha eletto il trasformismo a categoria centrale di interpretazione dei fenomeni politici, e che usa rivolgere l’epiteto di voltagabbana a chiunque osi cambiare idea e collocazione politica, il vincolo contrattuale sembra rappresentare il necessario antidoto per frenare gli opportunismi degli eletti. Dei quali evidentemente ci si fida tanto poco, dal ritenere che solo minacciandoli di colpirli nel portafoglio li si può tenere al guinzaglio.

I due ovviamente recalcitrano: la penale non la vogliono pagare. Sostengono che il contratto non ha valore giuridico. Decideranno i giudici, ma la questione non è di poco conto. E non certo per l’entità dell’esborso richiesto, bensì per la natura stessa del mandato parlamentare, che il contratto grillino calpesta e stravolge. Gli onorevoli del Parlamento europeo, come i deputati e i senatori del Parlamento italiano, non hanno infatti alcun vincolo di mandato. Non sono delegati, non sono emissari, non sono tenuti a rispettare clausole contrattuali.  La Costituzione italiana recita (art. 67): «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazioneed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». C’è un perché? Ovviamente sì. La Costituzione, in questo erede di una tradizione politico-giuridica che risale alla rivoluzione francese, e che dunque attraversa tutta la modernità, assegna al parlamentare una funzione politica generale, di rappresentanza dell’interesse collettivo, non già di portatore di interessi e categorie particolari. Lo fa per assicurare una dignità particolare non solo al singolo deputato ma all’intero organo, organo che proprio in virtù della libertà dei suoi membri non si riduce a un ruolo passivo, di mero ricettacolo esecutivo della volontà degli elettori.

Questa è l’idea che della democrazia parlamentare avevano i padri fondatori. Non a caso, il mandato imperativo è stato abbondantemente sperimentato dai paesi del socialismo reale – Unione Sovietica e paesi fratelli – che democratici proprio non erano. Le eccezioni del Portogallo, dell’India o del Bangladesh non mutano il quadro: se vuoi la democrazia – o almeno: se vuoi l’unica forma sperimentata con successo da quando c’è il suffragio universale – allora vuoi l’assenza di vincoli di mandato.

Ma Grillo promette ora di dare non meno, ma più democrazia, grazie alla magia della democrazia diretta, che toglie sì libertà al rappresentante, per darla però al rappresentato, al popolo.

Così dice il Capo. Ma è così che va? È così che è andata, con la votazione sulla collocazione politica del gruppo pentastellato nel Parlamento europeo? Di sicuro, i«portavoce» (li chiamano così) del Movimento a Strasburgo non hanno deciso nulla: la decisione del voto è stata rimessa online, agli iscritti. Fino al giorno prima, loro manco lo sapevano, che si sarebbe votato. Dopodiché sono da notare almeno due cose. La prima: gli eletti non stanno in Parlamento grazie al solo voto degli iscritti, ma a quello ben più ampio degli elettori. Eppure, sono gli iscritti a dettare loro la legge del Movimento. La seconda: a decidere il come, il cosa e il quando della votazione non sono stati nemmeno gli iscritti, ma Grillo (e/o Casaleggio). A disporre della cassaforte dei dati relativi alle votazioni sulla piattaforma del Movimento (chiamata a Rousseau in puro stile orwelliano) sono, di nuovo, soltanto loro due: Grillo e Casaleggio. Lo stesso, infine, va detto della trattativa portata avanti con il gruppo liberale: non risulta che sia avvenuta tramite consultazione, riunioni in streaming, scambio di vedute con chicchessia. La decisione politica è stata insomma tolta al gruppo, e affidata al Capo politico del Movimento, che può deliberare in solitudine, salvo, di quando in quando, sottoporre agli iscritti il deliberato, per ratifica, nei modi che ritiene più opportuni e secondo le forme di comunicazione che decide a piacer suo. Quel voto è insomma un esercizio di convalida, non una manifestazione di volontà. Comporta, anzi, la riduzione a zero della volontà degli eletti. I quali, a meno che non siano nella ristretta testa di comando del Movimento, cioè nel cerchio magico grillino, possono ritrovare una volontà politica solo uscendo dal gruppo.

Chiamatela come volete: dittatura dei soviet, giacobinismo elettronico, democrazia commissariale, ma non la chiamate democrazia parlamentare. Perché non ne ha più il senso né l’articolazione, una volta che trasforma il parlamentare in un mero esecutore della volontà altrui. Poi, certo, gli affanni degli istituti della rappresentanza e la più generale crisi sociale è tale, che si comprendono il discredito e la sfiducia. Manca una legge sui partiti, mancano regolamenti che scoraggino i cambi di casacca, spesso mancano anche costumi politici all’altezza della dignità parlamentare. Ma mancherebbe un Parlamento democratico, con il mandato imperativo. Quella, insomma, è l’acqua sporca, e questo è il bambino: non conviene mai buttare tutto insieme.

(Il Mattino, 13 gennaio 2017)

I cittadini e il corpo del leader

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Un lieve malore, la coronografia, l’intervento di angioplastica, il decorso post-operatorio al Gemelli di Roma: fra qualche giorno il premier Paolo Gentiloni lascerà l’ospedale e potrà tornare al lavoro, forse già da lunedì prossimo. Non si è trattato, per fortuna, di un problema serio e non c’è motivo di drammatizzare. Il Presidente del Consiglio può fin d’ora ricevere visite, parlare al telefono, studiare dossier. Gli auguri che ha ricevuto da tutto il mondo politico dimostrano la simpatia con la quale è stata seguita questa disavventura, capitata all’inizio di un’esperienza di governo che si presenta politicamente fragile, e di cui dunque le condizioni di salute di Gentiloni hanno, per qualche momento, rischiato di fornirne una sfortunata metafora.

Ma il legame fra il corpo del Capo e la scena pubblica non ha un carattere soltanto accidentale. Un celeberrimo studio di Erwin Kantorovicz sui «due corpi» del Re ha indagato il modo in cui il pensiero politico-giuridico occidentale ha costruito, in prima età moderna, l’idea (e la simbologia) di una doppia persona del Re, dotato di un corpo naturale – che si ammala, invecchia, muore o viene ucciso – e di un corpo politico – incorruttibile, angelico, immortale – capace di assicurare la continuità della funzione sovrana. Il modello offriva insieme distinzione e unità: la distinzione metteva al riparo l’unità politica dalle vicissitudini della vita individuale e storica; l’unità circondava la persona del Re di un’aura quasi sacrale.

La persistenza della figura monarchica nell’immaginario politico occidentale è legata proprio a questa capacità di rendere visibile, concentrato in un punto, il grande mistero dell’unità della società (che noi continuiamo peraltro a pensare come un «corpo» sociale, per l’appunto: in continuità, quindi, con questa tradizione).

Nel frattempo però c’è stato l’illuminismo, la grande razionalizzazione del mondo occidentale e il suo progressivo disincantamento: come dicono i sociologi. Cosa resta allora di quel modello?

A giudicare da come reagiamo alle notizie che riguardano la salute dei leader politici qualcosa resta. E anzi, con l’accentuazione dei tratti personali dell’esercizio del potere politico, così caratteristica dell’attuale fase storica, non solo qualcosa resta, ma qualcosa torna nuovamente a imporsi. La crescente spettacolarizzazione della politica ha riportato in primo piano il tema del corpo del Capo: che si tratti della straordinaria fotogenia di Barack Obama o della rappresentazione machista che di sé offre Vladimir Putin, non vi è dubbio che la cura dell’immagine sia un aspetto essenziale delle dinamiche del potere contemporaneo.

Il leader, dunque, ha di nuovo un corpo. Siccome però non sono più disponibili investiture dall’alto, sacre unzioni e altre forme di legittimazione di tipo tradizionale, gli è indispensabile costruire in altro modo la sua seconda natura, un corpo quasi «mistico» che copra e rivesta le funzioni ordinarie legate alla natura meramente fisica del corpo. Siccome non ci sono più scettro mantello e corona a rappresentare la regalità, ci vogliono allora un make up a regola d’arte, vigoria fisica e, magari, un tocco di glamour. Con le dovute eccezioni, si capisce. Ma se proprio non si dispone di bella presenza comunque non è possibile mostrare al proprio elettorato fragilità e debolezza. La centralità del valore della salute nell’immaginario collettivo fa il resto.

La malattia manda in frantumi questa costruzione. Perché il corpo mistico del Re – cioè del Capo – non è venuto meno, ma non sta più su un piano mitico-sacrale, bensì su uno squisitamente estetico. Dunque la malattia lo minaccia. E a meno di non riuscirla a trasfigurare in senso spirituale (come Giovanni Paolo II) la strategia ordinaria del politico – o dei suoi seguaci – consiste nel negarla, nel nasconderla, nel minimizzarla.

Proprio in questi giorni di gennaio, ventisette anni fa, la malattia fece irruzione sulla scena politica italiana. Non che il tema del corpo non avesse profondamente segnato la nostra storia politica – dal corpo virilizzato del Duce, oggetto di fanatismi e oltraggi, a quello straziato di Aldo Moro, assurto a simbolo di una tragedia collettiva – ma con l’improvvisa malattia di Bettino Craxi, ricoverato per una decina di giorni a Milano in una ridda di voci, indiscrezioni, interpretazioni le più diverse e confuse, accadeva forse qualcosa di diverso: era infatti la prima volta, in Italia, che la malattia minacciava un carisma politico. Lo dimostravano proprio le difficoltà dell’opinione pubblica di tenersi a un resoconto distaccato e obiettivo, le incertezze sull’entità e la natura stessa della malattia, le strategie di rassicurazione messe in atto da amici e compagni. L’aria di segretezza non poteva però essere semplicemente dissipata: non solo o non tanto perché bisognava ridurre la malattia a poca cosa, ma perché, soprattutto, non si poteva offrire una piatta stenografia del decorso ospedaliero nei suoi termini prosaici, meramente medico-sanitari. Oggetto della narrazione non sarebbe stato più, infatti, il corpo magnetico, quasi soraumano, del Capo.

Craxi uscì dall’ospedale il 13 gennaio 1990. Forse anche Gentiloni uscirà il 13, o magari due o tre giorni dopo. Di sicuro, però, questa volta la laicizzazione ha funzionato: si è trattato di scongiurare l’ostruzione di vasi sanguigni, e di nient’altro.

(Il Mattino, 13 gennaio 2017)

I pentiti degli effetti del «No»

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Nell’editoriale di ieri sul Mattino il professor Giovanni Verde ha tratto il bilancio di questo mese trascorso dal referendum del 4 dicembre. Le sue parole hanno il pregio della franchezza. «Quando mi sono speso per il No non era questo ciò che volevo», ha scritto. Non voleva il professor Verde le dimissioni di Matteo Renzi, e il lento scivolamento del Paese all’indietro, verso un quadro politico che sembra indirizzato a cancellare tutti i motivi di rottura introdotti dal governo guidato dall’«arrogante» segretario del Pd.

Quel che però colpisce, nel leggere l’articolo, è la relativa sorpresa che accusa solo oggi, quando era ben chiaro, già prima del voto, che il successo del No avrebbe comportato esattamente questo. La mia valutazione del merito della riforma era opposta, perché non ravvisavo nessun attentato alla democrazia, nessuna involuzione autoritaria, nessuno pericoloso squilibrio fra i poteri costituzionali nel disegno di legge Boschi. Però non è sui contenuti della riforma che vale la pena oggi discutere, bensì sulla situazione politica che la vittoria del No ha determinato. Se vi era un fronte riformatore che sosteneva il nuovo disegno costituzionale, era evidente che la sua sconfitta lo avrebbe indebolito complessivamente: non solo non si sarebbero fatte subito (in pochi mesi! In pochi settimane! In pochi giorni!) la riforma del bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari, per rendere più snello il nostro sistema istituzionale, ma la corrente di risacca avrebbe trascinato il Paese con sé, nella direzione opposta a quella perseguita dall’esecutivo. È quello che sta accadendo. Sono sicuro che alcune misure prese – sul lavoro, sulla scuola, sul sistema bancario, sulla pubblica amministrazione, sul fisco, sulle politiche europee – potevano essere discutibili, ma quel che ora si fa avanti non è tanto la necessità di correggere questo o quel provvedimento, quanto piuttosto la volontà di marcare con un segno negativo quelle politiche, come se l’idea stessa di procedere in una direzione riformatrice andasse riveduta e corretta. D’improvviso, appare arrischiata l’idea stessa di sfidare le mille corporazioni che frenano l’Italia. Basti vedere come Michele Salvati (che pure ha votato Sì) sente lo spirare del vento e la triplice lezione che viene dal referendum: rassegnarsi alle grandi coalizioni, salvare il salvabile di questi anni di governo, rinunciare al vaglio popolare per i cambiamenti costituzionali. Di fatto, è – sempre con le migliori intenzioni – la rinuncia a pensare che il consenso popolare possa arridere a politiche di stampo riformatore. Che era ed è il senso della sfida di Renzi.

Verde (non solo lui) sembra ritenere che il segretario del Pd ha compiuto un errore colossale, legando la sua sorte a quella delle riforme costituzionali. Visto l’esito, è difficile dargli torto, se si guarda al personale destino di Renzi, oggi più incerto che mai. Ma se invece si guarda al progetto complessivo, è difficile negare che non ci si poteva voltare dall’altra parte, o nascondersi dietro una presunta neutralità delle riforme, come se non bisognasse assumersene la piena responsabilità politica. Non è che Renzi abbia perso la pazienza e abbia deciso all’improvviso di intestarsi le riforme: è andato al governo portando avanti quelle idee, enunciandole nel suo programma. I tempi sono stati sbagliati (non voglio dire sfortunati), perché la mancata crescita del Paese ha reso poco attraente una prospettiva di cambiamento affidata al solo veicolo della riforma costituzionale, ma non si è trattata di un’improvvisa alzata di ingegno, ed è singolare che il giorno dopo quel voto molte anime belle si dolgano e si battano il petto. Sono quelli che volevano bocciare le riforme, senza dare una botta a Renzi, e quelli che volevano dare una botta a Renzi, pazienza se di mezzo ci sarebbero andate le riforme. Il risultato è diverso da quello che si aspettavano, ma non occorre scomodare l’astuzia della ragione di hegeliana memoria per scoprire che la storia ha una sua oggettività, contro cui poco possono i pii desideri dei professori di diritto. Fa sorridere vedere ora Vladimiro Zagrebelsky e Nadia Urbinati avere dubbi sulla possibilità che la loro sapienza politica e costituzionale possa accasarsi fra i grillini. Per dirne una soltanto: l’idea, tecnicamente eversiva, del mandato parlamentare imperativo non è un’invenzione ad uso dei giornali, come quella strampalata delle giurie popolari che stabiliscono la verità delle notizie. Questa, che spinge Zagrebelsky a prendere oggi allarmato la penna, è solo l’ultima trovata mediatica; quella, che meriterebbe ben altro allarme, è invece un pezzo del programma pentastellato, e sta lì da ben prima del 4 dicembre.

La verità è che aveva ragione Umberto Saba, il poeta: siamo un Paese di fratricidi, roso da rivalità e campanilismi fra simili. Faceva, Saba, l’esempio di Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani «Gli italiani sono l’unico popolo – diceva – che abbiano, alla base della loro storia, o della loro leggenda, un fratricidio. Ma è solo col parricidio, con l’uccisione del vecchio, che si inizia una rivoluzione». Non è forse andata così, anche questa volta? Altro che rottamazione dei padri: non abbiamo assistito piuttosto a un fratricidio? Renzi viene ancora dipinto come un bullo, come un ducetto, come un apprendista stregone: ma non dai suoi avversari politici, dai suoi compagni di partito!

Siccome però, come diceva Keynes, l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre, è meglio non fare previsioni su quel che succederà di qui in avanti: se la lenta ma costante spinta restauratrice prevarrà, o se invece assisteremo a un nuovo cambio di palcoscenico. Sarà bene però attrezzarsi, per non fare ancora una volta sfoggio soltanto del senno di poi.

(Il Mattino, 7 gennaio 2017)

La Rai irriformabile specchio del Paese

 

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Per dove passa l’innovazione, in Rai? Per il momento, da nessuna parte. Le dimissioni di Carlo Verdelli, dopo la bocciatura del suo piano editoriale, ripropongono tuttavia la domanda che, puntuale, si affaccia ad ogni cambio di stagione. In realtà, le cose non erano andate sin qui tutte lisce. Verdelli avrebbe dovuto presentare il piano già questa estate. Francesco Merlo, chiamato come consulente, si era dimesso, senza essere mai riuscito a trovare lo specifico televisivo di cui, a suo dire, si favoleggia soltanto. La bozza di Verdelli era stata criticata, fra l’altro, per mancanza di previsioni dal lato dei costi. E soprattutto il modo in cui il direttore editoriale delle news si era mosso – in un’autonomia che poco a poco era divenuta isolamento – non aveva certo creato un’aspettativa favorevole, dentro il corpaccione della Rai. Le avvisaglie, insomma, c’erano tutte. La materia dell’informazione pubblica rimane d’altronde una materia assai sensibile, anche senza le alzate di ingegno di Beppe Grillo sui media, i telegiornali, le verità e le post-verità.
Comunque, c’entri o no il clima politico determinatosi nel Paese dopo il referendum costituzionale, e a seguito delle dimissioni di Renzi; c’entri o no la più grande debolezza del direttore generale Campo Dall’Orto, quello che aveva chiamato Verdelli nel novembre del 2015, il piano non ha avuto luce verde e Verdelli ne ha tratto bruscamente le conseguenze, senza accogliere l’invito dei consiglieri d’amministrazione di considerare il documento solo un punto di partenza. I retroscenisti cercano ora di capire chi ha sferrato le pugnalate e perché, ma le ricostruzioni più o meno attendibili che si sono lette in queste ore – i consiglieri che storcono il naso, la presidente Maggioni che non muove un dito, il sindacato dei giornalisti che si frega le mani, tutti che, a delitto avvenuto, si voltano dall’altra parte – non toccano la sostanza del problema, cioè come cambiare l’informazione in Rai. Perché sul fatto che è da cambiare non ci piove. Ma i cambiamenti, soprattutto dal lato organizzativo, non sono facili, e si vede.
Verdelli aveva messo nero su bianco alcune cose. Innanzitutto, l’esigenza di superare la divisione delle reti Rai per aree politiche d’appartenenza, ricercando più strettamente la sinergia fra Reti e testate giornalistiche, al fine di individuare specifici e distinti target di pubblico per ciascun tg, sia in relazione al canale che alla fascia oraria di trasmissione. In secondo luogo, la necessità di redistribuire gli organici giornalistici, formati nel tempo sulla base di equilibri politici e aziendali, piuttosto che in virtù delle funzioni produttive assolte. La Rai ha 21 redazioni regionali, in cui siedono circa 800 giornalisti (su un totale di oltre 1700 giornalisti in forza all’azienda, con un’età media superiore ai cinquant’anni). Il piano prevedeva il trasferimento del Tg2 a Milano, una riorganizzazione su base macroregionale in cinque aree, l’integrazione  tra il canale “all news” e i tg regionali, la nascita di un “Tg Sud” affidato al centro di produzione della Rai di Napoli. Una rivoluzione, insomma.
Non mancavano poi, a quel che se n’è letto, osservazioni sul ritmo dei telegiornali, sugli stili di conduzione, sul linguaggio, sui materiali e sui servizi, sulle interazioni con il pubblico, sull’uso dei trend topics della Rete, persino sulle sigle: su tutto insomma quello che c’è o ci sarebbe da fare per svecchiare l’informazione Rai.
Ora, dopo le dimissioni, la Rai deve inventarsi rapidamente qualcosa, per non restare un’altra volta al palo. Questo piano naufraga, infatti, dopo che già il precedente, a cui aveva lavorato Luigi Gubitosi, era finito nel cassetto. Il dubbio che la Rai proprio non ce la faccia a fare la rivoluzione nell’informazione finora solo annunciata è forte. Quella di Verdelli era di certo una cura drastica, forse persino troppo drastica e per alcuni semplicemente irrealizzabile. Ma partiva da un’ambizione legittima: quella di dare un’anima all’informazione Rai, di legarla alla necessità di imbastire un racconto nuovo dell’Italia, di recuperare da Milano un timbro laico e moderno, di rifare da Napoli la narrazione meridionale e meridionalista del nostro Paese. E di rifarla, scuotendo il mondo sonnacchioso delle testate regionali, dando un senso al canale “all news”, recuperando condizioni di operatività in linea con le funzioni complessive dell’azienda.
Era tutto troppo astratto, campato in aria? Era sbagliato l’approccio? Erano saltate le necessarie mediazioni? Può darsi. Di sicuro, qualcuno ha pensato che dopo aver «deportato» i docenti nelle scuole italiane non si potevano «deportare» pure i giornalisti. Forse si è trattato dell’ennnesimo caso di un riformismo calato dall’alto, non capito o forse non spiegato, e perciò andato incontro all’inevitabile insuccesso. Ma il rischio che anche questa bocciatura prenda il sapore di una restaurazione esiste. L’Italia sembra essere andata a sbattere contro un iceberg: a bordo c’è chi si impegna in manovre di correzioni e complicate variazioni di rotta, ma il rischio che invece si finisca tutti a picco purtroppo esiste.

(Il Mattino, 5 gennaio 2017)

Il movimento con il patto di soggezione

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Il codice di comportamento del Movimento 5 Stelle in caso di coinvolgimento in indagini giudiziarie, che oggi sarà ratificato col voto online degli iscritti, rimette nelle mani del «Garante del MoVimento 5 Stelle», del «Collegio dei Probiviri» o del «Comitato d’Appello» la sorta dell’eletto (denominato «portavoce») che dovesse incappare in procedimenti giudiziari. Da oggi, il ricevimento di un avviso di garanzia non equivale a un’espulsione o a una sospensione dal Movimento. Una valutazione in ordine alla gravità delle contestazioni viene affidata agli organi statutari (cioè a Grillo o chi da lui proposto), e può allinearsi come non allinearsi alle decisioni della magistratura.

È una notizia. Il Movimento che per anni ha fustigato tutti gli altri partiti al primo stormire di carte giudiziarie, e che aveva elevato a grido rivoluzionario la parola «onestà!», scandendola fra le lacrime, come un grido identitario, finanche al funerale del leader carismatico, Gianroberto Casaleggio, è ora in grado di considerare onesti anche quei politici che, pur colpiti da un provvedimento della magistratura, non fossero stati ancora raggiunti da una condanna. Almeno quelli fra le proprie file cui dovesse toccare una sorte del genere, perché non è detto che questa improvvisa equanimità di giudizio venga riservata anche agli avversari politici. In passato, infatti il blog di Grillo additava al pubblico ludibrio chiunque risultasse implicato in indagini di qualche tipo, senza andar troppo per il sottile con le valutazioni circa la presunta gravità.

È un passo avanti o uno indietro? Messi di fronte alle difficoltà della vita politica e amministrativa, i Cinque Stelle stanno diventando come tutti gli altri, pronti a chiudere un occhio sulle malefatte della politica, o più banalmente prendono atto con qualche realismo che un avviso di garanzia – per esempio per abuso d’ufficio – non può equivalere immediatamente a una sentenza di condanna? Che non tutte le fattispecie di reato paventate destano la medesima preoccupazione? Che certe reputazioni sono compromesse indipendentemente dall’azione dei pubblici ministeri, e magari certe altre non lo sono nonostante quell’azione?

È evidente che essersi scottati a Parma, a Livorno, a Quarto, infine a Roma doveva avere prima o poi delle conseguenze. A Roma, soprattutto. È già stato chiaro, nelle difficili settimane passate, che bisognava imbastire una difesa della sindaca Raggi a prova di avviso di garanzia. Nomine sbagliate, indagini e arresti mettono un eventuale avviso per il primo cittadino della Capitale nel novero delle cose possibili. Il costo politico delle dimissioni, o anche del ritiro del simbolo, potrebbe essere troppo elevato, soprattutto se non giustificato da fatti di modesta entità. In ogni caso, Grillo vuole riservarsi la possibilità di decidere. Ed è normale che sia così, se si vuole mantenere il controllo politico degli eventi, anche se – va detto – non è la normalità delle dichiarazioni alle quali ci avevano finora abituati gli esponenti del Movimento.

Prendete Di Maio. Un paio di anni fa, di questi tempi dichiarava: «Per me, ai politici non va applicata la presunzione di innocenza. È facendo i garantisti con i politici che abbiamo rovinato lo Stato Italiano». Per difendere queste parole, aveva pure aggiunto, sulla sua pagina Facebook: «Per me, se c’è un dubbio non c’è alcun dubbio. È così che [i politici] vanno trattati». Ora, a meno di non volersela prendere con i magistrati, come si fa a dire che un avviso di garanzia un dubbio non lo fa venire? Ma con l’approvazione del Regolamento, anche Di Maio dovrà tenersi i dubbi per sé, e avere meno certezze sulla flagrante colpevolezza dei politici.

Di certezze dovrà invece continuare ancora a nutrirne di saldissime nei confronti del «capo politico», di Grillo, visto che la qualità democratica del Movimento non è affatto assicurata dalla partecipazione online degli iscritti ai voti di ratifica indetti ogni tanto dal titolare del blog. Basta domandarsi infatti: cosa succederebbe se un avviso di garanzia dovesse arrivare proprio a Beppe Grillo? È evidente che gli estensori del regolamento non si sono posti minimamente il problema. La circostanza che il «capo politico» debba valutare il proprio stesso caso non è disciplinata. Come se fosse esclusa a priori. Grillo è cioè la perfetta incarnazione del sovrano legibus solutus, sciolto dalle leggi che proclama. È l’ultimo discendente di una vecchia idea di Thomas Hobbes, che all’origine del contratto politico moderno metteva non uno, ma due patti: un patto di unione con cui tutti si impegnano reciprocamente a osservare gli stessi doveri, ricevendone gli stessi diritti, e un patto di soggezione, con cui tutti accettano di essere subordinati a (e giudicati da) uno solo, che del primo patto è il supremo garante. Il primo patto prevede una simmetria, che il secondo invece non prevede. Dentro il primo stanno tutti gli iscritti; dietro il secondo sta il solo Beppe Grillo. Ma in un Movimento che per principio «rifiuta la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi» non c’è molto altro: i direttori, infatti, prima o poi si squagliano. Per ora dunque hanno riveduto il solo regolamento, rivendicando autonomia rispetto alle decisioni delle procure; chissà che in futuro, apprezzata questa nuova libertà, non debbano rivedere anche il resto.

(Il Mattino, 3 gennaio 2017)

La politica dei passi felpati

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Si chiama antanaclasi. Parola difficile, concetto semplice. È la figura retorica alla quale ieri, nella tradizionale conferenza stampa di fine anno, il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha fatto abbondantemente uso. L’antanaclasi è un’apparente tautologia, che tuttavia nasconde un significato sottinteso. Se diciamo che gli affari sono affari, non vogliamo affatto pronunciare una banalità, ma sottolineare un elemento, che fa premio su altri. Così, tutto il tono della conferenza del premier era del tipo: il governo deve governare. E si capisce: che altro dovrebbe fare un governo? Per esempio la legge elettorale, visto che l’Italicum nasceva da un’iniziativa governativa. E invece no: nessuna intromissione nel lavoro del Parlamento né pressioni sul Quirinale. Il governo sta al suo posto. Palla lunga e pedalare. Dire però che il governo governerà, e non farà nient’altro che governare, non è né inutile né ovvio, né appartiene solamente al rituale dell’incontro con la stampa. Dirlo ha il significato che può avere la dignitosa serietà di chi intende fare il suo dovere pur in mezzo a scetticismi, dubbi e risatine. Il resto si vedrà. Così tutti si chiedono se con questo atteggiamento gommoso e privo di spigoli – che nel vocabolario della politica di una volta si potrebbe definire: forlaniano – il governo andrà alla fine naturale o alla fine anticipata della legislatura. Gentiloni ha fatto mostra di non curarsene, piazzando un paio di antanaclasi qua e là – la sconcertante «banalità» di un governo che «resta in carica fino a che ha la fiducia del Parlamento», lo «svolgimento di una funzione di servizio», lo «scusate se dico cose ovvie» –  e rinviando con un «si vedrà» le questioni più spinose.

Il tema dei temi resta tuttavia la legge elettorale. Detto che non ci sarà una proposta del governo in materia, Gentiloni ha scelto tre verbi per indicare il modo in cui il suo governo seguirà la partita: facilitare, accompagnare, sollecitare. Ha provato anche a coniugarli insieme, con un «accompagnare sollecitando», che ovviamente vale quanto un «sollecitare facilitando» o un «facilitare accompagnando». Ma non è ironia: è nel modo distaccato in cui Gentiloni accompagnava anzitutto le sue parole – lente, misurate, equilibrate –il senso di un compito che non vuole essere a termine, ma che non può proiettarsi in una prospettiva di lungo periodo. O forse meglio: che non sarebbe aiutato nel suo lavoro se si proiettasse in una dimensione diversa. Gentiloni sa insomma di non dover fare ombra a Renzi. Quando la sua ombra si materializza, quasi per caso, Gentiloni formula en passant l’augurio che l’ex premier si stia riposando senza ascoltare la sua conferenza stampa. Lo dice per understatement, ma per non essere frainteso aggiunge subito che il riposo duri «solo qualche giorno». Altra sottolineatura riserva al ruolo di Renzi come segretario del suo partito, che è di nuovo una maniera di dire: non vi aspettate che sia io a piantare un cuneo tra Renzi e le elezioni.

Il problema se mai è nella maggioranza. Non per via dell’esclusione dei verdiniani dai posti di governo (ma Gentiloni è riuscito a smussare pure il senso di questa decisione, che non va rubricata secondo lui sotto il titolo di una rottura con Ala), bensì per la difficoltà di individuare fin d’ora una proposta condivisa sulla materia elettorale. Non è cosa di cui gioire, e Gentiloni non gioisce, perché ne va del funzionamento delle istituzioni. Ma è chiaro che non sarà lui a risolvere il problema.

Per il resto, Gentiloni guida l’esecutivo da troppi pochi giorni, per poter dare più sostanza alle sue dichiarazioni. Lavoro, Sud e giovani sono le parole chiave, dice il Presidente del Consiglio. Ma colpisce che a un certo punto il premier se ne esca con un disarmante «non mi chiedete di sciorinare così, all’impronta, programmi di governo».

I punti che Gentiloni ha toccato sono comunque tutti in linea di continuità con l’azione del precedente governo, né poteva essere altrimenti. E la continuità è stata da Gentiloni accettata come una critica ma anche rivendicata come un dato oggettivo. Gentiloni ha fatto un bilancio positivo dell’azione non del suo governo – di cui ha potuto citare, per ovvie ragioni di tempo, solo la tempestività del decreto salva-risparmio su Montepaschi – ma del governo a guida Renzi, in termini di politiche della sicurezza, gestione dei flussi migratori, crescita dell’economia e riforma del mercato del lavoro, lotta all’evasione fiscale, gestione dei flussi migratori. Ma sempre con toni pacatissimi, senza nessun acuto particolare. Dopo di che ha detto a un certo punto: «se poi volete la mia personale accentuazione», ed effettivamente la personale accentuazione non era facile trovarla. Se non per differenza rispetto al suo predecessore e al suo stile decisamente più pirotecnico. Per esempio, alla domanda sui propositi del governo in materia fiscale, ha risposto in maniera quasi sedativa: «sinceramente non sono in grado di fare un discorso serio sulla riduzione dell’Irpef».

Sui temi di sua più stretta competenza, per via della sua esperienza alla Farnesina, Gentiloni ha mostrato molta più solidità: sull’europeismo e l’atlantismo dell’Italia, sulla necessità di rivedere i rapporti con Putin, senza assecondare tentazioni da guerra fredda, sulla necessità di una politica internazionale per il Mediterraneo, che non può divenire «mar nullius», sulla critica del «puntiglio regolatorio» di Bruxelles che non aiuta la crescita né l’immagine delle istituzioni europee presso la pubblica opinione.

Ma l’espressione che sintetizza la condizione in cui si trova il governo Gentiloni l’ha pescata dalla lingua francese: «il faut faire avec». Bisogna fare con quello che c’è. È un’antanaclasi pure questa: si può mai fare qualcosa con quello che non c’è? Certo, forse Renzi avrebbe provato a dire che sì, si può fare pure quello. Ma Gentiloni non ha concesso voli pindarici, annunci mirabolanti o risultati strabilianti. Né per oggi né per domani. Gli italiani devono sapere che lo Stato c’è, che le istituzioni continuano a funzionare, in attesa che nuovi scenari politici si disegnino. A lui tocca solo «ricucire». Gentiloni non voleva dire «sopire», ma c’è andato vicino.

(Il Mattino, 30 dicembre 2016)

Un sindaco a Santa Lucia. La solitudine di De Luca

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Era chiaro, fin dalla tarda sera del 4 dicembre, che lo scenario politico del Paese si sarebbe parecchio complicato, e non solo a livello nazionale, per effetto della vittoria del No al referendum costituzionale. Renzi è (temporaneamente) uscito di scena, ma non solo lui: tutti gli uomini che si sono più o meno identificati con la sua battaglia per la riforma della costituzione hanno riportato ammaccature più o meno grandi. Così anche Vincenzo De Luca. Il governatore della Campania, che si è molto speso in quella sfida, si è anzi trovato al centro di una bufera mediatica (la frittura di pesce e l’elogio del voto clientelare) che, abbia avuto o no conseguenze sull’esito del referendum, ne ha sicuramente danneggiato l’immagine, aumentando la distanza con i vertici nazionali del partito (e una certa voga alla caricatura). La coda giudiziaria di quella vicenda è francamente risibile, e sembra rientrare soltanto nel bruttissimo vezzo italico di criminalizzazione della politica (che dura da quel dì). Ma anche quella è la spia di un momento non felice.

De Luca pensa ora di superare i nodi politici aggrovigliatisi dopo il 4 dicembre proponendosi non come un presidente della Regione, eletto direttamente dai cittadini ma legato a un rapporto di fiducia con il consiglio regionale e le forze politiche che nel consiglio lo sostengono, ma come sindaco della Campania, uomo solo al comando In grado di rivendicare per sé la massima autonomia decisionale possibile. È la risposta giusta? Si vedrà. Di sicuro è la risposta che ha sempre fatto parte del suo stile di governo, legato a un esercizio vigorosissimo della carica di primo cittadino (a Salerno, per circa un ventennio), un esercizio che ha ristretto ai minimi termini la dialettica politica.

Il banco di prova è adesso la sanità, sicuramente la parte più corposa del bilancio di una Regione (e del lavoro di un governatore). De Luca ha chiesto di poter entrare nel ruolo di commissario, per rimediare allo sfacelo in cui, dopo quasi un decennio di commissari di nomina governativa, la sanità campana è precipitata, finendo di gran lunga ultima nella graduatoria che ogni anno stila il Ministero della Salute. Ieri questo giornale ha presentato i dati da brivido sui livelli di assistenza sanitaria in Campania: che vi sia assoluta necessità di cambiare modalità di gestione della sanità regionale è, dunque, fuor di dubbio. Ma la nomina, che il giorno prima del referendum sembrava assolutamente scontata, ora non lo è più: esitazioni vi sono sia a Roma – dove il ministro Lorenzin sembra molto riluttante a firmare il relativo decreto –, che a Napoli, in seno alla maggioranza e dentro il partito democratico, dove si registrano non pochi malumori e perplessità dinanzi alla prospettiva di mettere tutto il comparto sanitario nelle mani di un solo uomo, abituato peraltro a lasciare soltanto le briciole agli altri.

De Luca naturalmente si propone come uomo determinato, deciso, che bada al sodo e punta al risultato, insofferente non solo della «palude burocratica» che continua a indicare come il nemico numero uno da battere e in cui teme invece di rimanere invischiato, ma pure delle liturgie politiche, dei faticosi confronti in consiglio e nel partito. Resta il fatto però che la via di chiudere il proprio ruolo in una dimensione tutta gestionale e amministrativa, senza una reale interlocuzione politica con i diversi livelli di governo e con gli altri protagonisti della vicenda campana rischia di aggravare l’isolamento di De Luca. Certo, lui preferisce in realtà mantenersi in una simile condizione, proprio per non dare conto a nessuno delle proprie scelte. Ma quello che nei momenti di fortuna è sicuramente un punto di forza del governatore, può rivelarsi in futuro una debolezza, se il vento continuerà a cambiare.

E in realtà, dopo il 4 dicembre, il vento è già, almeno in parte, cambiato. De Luca però procede senza reti di solidarietà politica fra gli esponenti del suo stesso partito: rinuncia per esempio a chiamarli ad una discussione sul significato politico del voto, che è stata dunque semplicemente bypassata, come se non riguardasse la Campania nemmeno di striscio, e di fatto rinuncia a rilanciare l’azione del partito democratico. Continua anzi a preferire non identificarvisi e tenerlo quasi da parte. Non è detto che, a tempo debito, questa posizione non gli verrà imputata. E rinuncia anche a parlare ai cittadini campani in forme diverse da quelle dei monologhi su radio e televisioni private, dove dà di sé l’immagine di un uomo affaticato dal grande peso del lavoro svolto ma poco aperto a un confronto reale con i cittadini.

Ci sono dei momenti in cui tocca alzare lo sguardo ed essere inclusivi. Questo lo è certamente. Non solo per il partito, che pure è da tempo allo sbando e non può essere né commissariato, né sbaragliato, ma ricostruito in tutte le sue articolazioni, convogliando le migliori energie rimaste finora fuori. Ma anche per la Campania, il cui rilancio non potrà mai essere il frutto di una efficiente azione amministrativa condotta da un unico centro, ma la sintesi di tutte le forze politiche, sociali e imprenditoriali del territorio. Per le quali non basta un pur bravo sindaco.

(Il Mattino, 29 dicembre 2016)