Archivi del giorno: gennaio 5, 2017

La Rai irriformabile specchio del Paese

 

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Per dove passa l’innovazione, in Rai? Per il momento, da nessuna parte. Le dimissioni di Carlo Verdelli, dopo la bocciatura del suo piano editoriale, ripropongono tuttavia la domanda che, puntuale, si affaccia ad ogni cambio di stagione. In realtà, le cose non erano andate sin qui tutte lisce. Verdelli avrebbe dovuto presentare il piano già questa estate. Francesco Merlo, chiamato come consulente, si era dimesso, senza essere mai riuscito a trovare lo specifico televisivo di cui, a suo dire, si favoleggia soltanto. La bozza di Verdelli era stata criticata, fra l’altro, per mancanza di previsioni dal lato dei costi. E soprattutto il modo in cui il direttore editoriale delle news si era mosso – in un’autonomia che poco a poco era divenuta isolamento – non aveva certo creato un’aspettativa favorevole, dentro il corpaccione della Rai. Le avvisaglie, insomma, c’erano tutte. La materia dell’informazione pubblica rimane d’altronde una materia assai sensibile, anche senza le alzate di ingegno di Beppe Grillo sui media, i telegiornali, le verità e le post-verità.
Comunque, c’entri o no il clima politico determinatosi nel Paese dopo il referendum costituzionale, e a seguito delle dimissioni di Renzi; c’entri o no la più grande debolezza del direttore generale Campo Dall’Orto, quello che aveva chiamato Verdelli nel novembre del 2015, il piano non ha avuto luce verde e Verdelli ne ha tratto bruscamente le conseguenze, senza accogliere l’invito dei consiglieri d’amministrazione di considerare il documento solo un punto di partenza. I retroscenisti cercano ora di capire chi ha sferrato le pugnalate e perché, ma le ricostruzioni più o meno attendibili che si sono lette in queste ore – i consiglieri che storcono il naso, la presidente Maggioni che non muove un dito, il sindacato dei giornalisti che si frega le mani, tutti che, a delitto avvenuto, si voltano dall’altra parte – non toccano la sostanza del problema, cioè come cambiare l’informazione in Rai. Perché sul fatto che è da cambiare non ci piove. Ma i cambiamenti, soprattutto dal lato organizzativo, non sono facili, e si vede.
Verdelli aveva messo nero su bianco alcune cose. Innanzitutto, l’esigenza di superare la divisione delle reti Rai per aree politiche d’appartenenza, ricercando più strettamente la sinergia fra Reti e testate giornalistiche, al fine di individuare specifici e distinti target di pubblico per ciascun tg, sia in relazione al canale che alla fascia oraria di trasmissione. In secondo luogo, la necessità di redistribuire gli organici giornalistici, formati nel tempo sulla base di equilibri politici e aziendali, piuttosto che in virtù delle funzioni produttive assolte. La Rai ha 21 redazioni regionali, in cui siedono circa 800 giornalisti (su un totale di oltre 1700 giornalisti in forza all’azienda, con un’età media superiore ai cinquant’anni). Il piano prevedeva il trasferimento del Tg2 a Milano, una riorganizzazione su base macroregionale in cinque aree, l’integrazione  tra il canale “all news” e i tg regionali, la nascita di un “Tg Sud” affidato al centro di produzione della Rai di Napoli. Una rivoluzione, insomma.
Non mancavano poi, a quel che se n’è letto, osservazioni sul ritmo dei telegiornali, sugli stili di conduzione, sul linguaggio, sui materiali e sui servizi, sulle interazioni con il pubblico, sull’uso dei trend topics della Rete, persino sulle sigle: su tutto insomma quello che c’è o ci sarebbe da fare per svecchiare l’informazione Rai.
Ora, dopo le dimissioni, la Rai deve inventarsi rapidamente qualcosa, per non restare un’altra volta al palo. Questo piano naufraga, infatti, dopo che già il precedente, a cui aveva lavorato Luigi Gubitosi, era finito nel cassetto. Il dubbio che la Rai proprio non ce la faccia a fare la rivoluzione nell’informazione finora solo annunciata è forte. Quella di Verdelli era di certo una cura drastica, forse persino troppo drastica e per alcuni semplicemente irrealizzabile. Ma partiva da un’ambizione legittima: quella di dare un’anima all’informazione Rai, di legarla alla necessità di imbastire un racconto nuovo dell’Italia, di recuperare da Milano un timbro laico e moderno, di rifare da Napoli la narrazione meridionale e meridionalista del nostro Paese. E di rifarla, scuotendo il mondo sonnacchioso delle testate regionali, dando un senso al canale “all news”, recuperando condizioni di operatività in linea con le funzioni complessive dell’azienda.
Era tutto troppo astratto, campato in aria? Era sbagliato l’approccio? Erano saltate le necessarie mediazioni? Può darsi. Di sicuro, qualcuno ha pensato che dopo aver «deportato» i docenti nelle scuole italiane non si potevano «deportare» pure i giornalisti. Forse si è trattato dell’ennnesimo caso di un riformismo calato dall’alto, non capito o forse non spiegato, e perciò andato incontro all’inevitabile insuccesso. Ma il rischio che anche questa bocciatura prenda il sapore di una restaurazione esiste. L’Italia sembra essere andata a sbattere contro un iceberg: a bordo c’è chi si impegna in manovre di correzioni e complicate variazioni di rotta, ma il rischio che invece si finisca tutti a picco purtroppo esiste.

(Il Mattino, 5 gennaio 2017)

Il movimento con il patto di soggezione

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Il codice di comportamento del Movimento 5 Stelle in caso di coinvolgimento in indagini giudiziarie, che oggi sarà ratificato col voto online degli iscritti, rimette nelle mani del «Garante del MoVimento 5 Stelle», del «Collegio dei Probiviri» o del «Comitato d’Appello» la sorta dell’eletto (denominato «portavoce») che dovesse incappare in procedimenti giudiziari. Da oggi, il ricevimento di un avviso di garanzia non equivale a un’espulsione o a una sospensione dal Movimento. Una valutazione in ordine alla gravità delle contestazioni viene affidata agli organi statutari (cioè a Grillo o chi da lui proposto), e può allinearsi come non allinearsi alle decisioni della magistratura.

È una notizia. Il Movimento che per anni ha fustigato tutti gli altri partiti al primo stormire di carte giudiziarie, e che aveva elevato a grido rivoluzionario la parola «onestà!», scandendola fra le lacrime, come un grido identitario, finanche al funerale del leader carismatico, Gianroberto Casaleggio, è ora in grado di considerare onesti anche quei politici che, pur colpiti da un provvedimento della magistratura, non fossero stati ancora raggiunti da una condanna. Almeno quelli fra le proprie file cui dovesse toccare una sorte del genere, perché non è detto che questa improvvisa equanimità di giudizio venga riservata anche agli avversari politici. In passato, infatti il blog di Grillo additava al pubblico ludibrio chiunque risultasse implicato in indagini di qualche tipo, senza andar troppo per il sottile con le valutazioni circa la presunta gravità.

È un passo avanti o uno indietro? Messi di fronte alle difficoltà della vita politica e amministrativa, i Cinque Stelle stanno diventando come tutti gli altri, pronti a chiudere un occhio sulle malefatte della politica, o più banalmente prendono atto con qualche realismo che un avviso di garanzia – per esempio per abuso d’ufficio – non può equivalere immediatamente a una sentenza di condanna? Che non tutte le fattispecie di reato paventate destano la medesima preoccupazione? Che certe reputazioni sono compromesse indipendentemente dall’azione dei pubblici ministeri, e magari certe altre non lo sono nonostante quell’azione?

È evidente che essersi scottati a Parma, a Livorno, a Quarto, infine a Roma doveva avere prima o poi delle conseguenze. A Roma, soprattutto. È già stato chiaro, nelle difficili settimane passate, che bisognava imbastire una difesa della sindaca Raggi a prova di avviso di garanzia. Nomine sbagliate, indagini e arresti mettono un eventuale avviso per il primo cittadino della Capitale nel novero delle cose possibili. Il costo politico delle dimissioni, o anche del ritiro del simbolo, potrebbe essere troppo elevato, soprattutto se non giustificato da fatti di modesta entità. In ogni caso, Grillo vuole riservarsi la possibilità di decidere. Ed è normale che sia così, se si vuole mantenere il controllo politico degli eventi, anche se – va detto – non è la normalità delle dichiarazioni alle quali ci avevano finora abituati gli esponenti del Movimento.

Prendete Di Maio. Un paio di anni fa, di questi tempi dichiarava: «Per me, ai politici non va applicata la presunzione di innocenza. È facendo i garantisti con i politici che abbiamo rovinato lo Stato Italiano». Per difendere queste parole, aveva pure aggiunto, sulla sua pagina Facebook: «Per me, se c’è un dubbio non c’è alcun dubbio. È così che [i politici] vanno trattati». Ora, a meno di non volersela prendere con i magistrati, come si fa a dire che un avviso di garanzia un dubbio non lo fa venire? Ma con l’approvazione del Regolamento, anche Di Maio dovrà tenersi i dubbi per sé, e avere meno certezze sulla flagrante colpevolezza dei politici.

Di certezze dovrà invece continuare ancora a nutrirne di saldissime nei confronti del «capo politico», di Grillo, visto che la qualità democratica del Movimento non è affatto assicurata dalla partecipazione online degli iscritti ai voti di ratifica indetti ogni tanto dal titolare del blog. Basta domandarsi infatti: cosa succederebbe se un avviso di garanzia dovesse arrivare proprio a Beppe Grillo? È evidente che gli estensori del regolamento non si sono posti minimamente il problema. La circostanza che il «capo politico» debba valutare il proprio stesso caso non è disciplinata. Come se fosse esclusa a priori. Grillo è cioè la perfetta incarnazione del sovrano legibus solutus, sciolto dalle leggi che proclama. È l’ultimo discendente di una vecchia idea di Thomas Hobbes, che all’origine del contratto politico moderno metteva non uno, ma due patti: un patto di unione con cui tutti si impegnano reciprocamente a osservare gli stessi doveri, ricevendone gli stessi diritti, e un patto di soggezione, con cui tutti accettano di essere subordinati a (e giudicati da) uno solo, che del primo patto è il supremo garante. Il primo patto prevede una simmetria, che il secondo invece non prevede. Dentro il primo stanno tutti gli iscritti; dietro il secondo sta il solo Beppe Grillo. Ma in un Movimento che per principio «rifiuta la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi» non c’è molto altro: i direttori, infatti, prima o poi si squagliano. Per ora dunque hanno riveduto il solo regolamento, rivendicando autonomia rispetto alle decisioni delle procure; chissà che in futuro, apprezzata questa nuova libertà, non debbano rivedere anche il resto.

(Il Mattino, 3 gennaio 2017)

La politica dei passi felpati

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Si chiama antanaclasi. Parola difficile, concetto semplice. È la figura retorica alla quale ieri, nella tradizionale conferenza stampa di fine anno, il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha fatto abbondantemente uso. L’antanaclasi è un’apparente tautologia, che tuttavia nasconde un significato sottinteso. Se diciamo che gli affari sono affari, non vogliamo affatto pronunciare una banalità, ma sottolineare un elemento, che fa premio su altri. Così, tutto il tono della conferenza del premier era del tipo: il governo deve governare. E si capisce: che altro dovrebbe fare un governo? Per esempio la legge elettorale, visto che l’Italicum nasceva da un’iniziativa governativa. E invece no: nessuna intromissione nel lavoro del Parlamento né pressioni sul Quirinale. Il governo sta al suo posto. Palla lunga e pedalare. Dire però che il governo governerà, e non farà nient’altro che governare, non è né inutile né ovvio, né appartiene solamente al rituale dell’incontro con la stampa. Dirlo ha il significato che può avere la dignitosa serietà di chi intende fare il suo dovere pur in mezzo a scetticismi, dubbi e risatine. Il resto si vedrà. Così tutti si chiedono se con questo atteggiamento gommoso e privo di spigoli – che nel vocabolario della politica di una volta si potrebbe definire: forlaniano – il governo andrà alla fine naturale o alla fine anticipata della legislatura. Gentiloni ha fatto mostra di non curarsene, piazzando un paio di antanaclasi qua e là – la sconcertante «banalità» di un governo che «resta in carica fino a che ha la fiducia del Parlamento», lo «svolgimento di una funzione di servizio», lo «scusate se dico cose ovvie» –  e rinviando con un «si vedrà» le questioni più spinose.

Il tema dei temi resta tuttavia la legge elettorale. Detto che non ci sarà una proposta del governo in materia, Gentiloni ha scelto tre verbi per indicare il modo in cui il suo governo seguirà la partita: facilitare, accompagnare, sollecitare. Ha provato anche a coniugarli insieme, con un «accompagnare sollecitando», che ovviamente vale quanto un «sollecitare facilitando» o un «facilitare accompagnando». Ma non è ironia: è nel modo distaccato in cui Gentiloni accompagnava anzitutto le sue parole – lente, misurate, equilibrate –il senso di un compito che non vuole essere a termine, ma che non può proiettarsi in una prospettiva di lungo periodo. O forse meglio: che non sarebbe aiutato nel suo lavoro se si proiettasse in una dimensione diversa. Gentiloni sa insomma di non dover fare ombra a Renzi. Quando la sua ombra si materializza, quasi per caso, Gentiloni formula en passant l’augurio che l’ex premier si stia riposando senza ascoltare la sua conferenza stampa. Lo dice per understatement, ma per non essere frainteso aggiunge subito che il riposo duri «solo qualche giorno». Altra sottolineatura riserva al ruolo di Renzi come segretario del suo partito, che è di nuovo una maniera di dire: non vi aspettate che sia io a piantare un cuneo tra Renzi e le elezioni.

Il problema se mai è nella maggioranza. Non per via dell’esclusione dei verdiniani dai posti di governo (ma Gentiloni è riuscito a smussare pure il senso di questa decisione, che non va rubricata secondo lui sotto il titolo di una rottura con Ala), bensì per la difficoltà di individuare fin d’ora una proposta condivisa sulla materia elettorale. Non è cosa di cui gioire, e Gentiloni non gioisce, perché ne va del funzionamento delle istituzioni. Ma è chiaro che non sarà lui a risolvere il problema.

Per il resto, Gentiloni guida l’esecutivo da troppi pochi giorni, per poter dare più sostanza alle sue dichiarazioni. Lavoro, Sud e giovani sono le parole chiave, dice il Presidente del Consiglio. Ma colpisce che a un certo punto il premier se ne esca con un disarmante «non mi chiedete di sciorinare così, all’impronta, programmi di governo».

I punti che Gentiloni ha toccato sono comunque tutti in linea di continuità con l’azione del precedente governo, né poteva essere altrimenti. E la continuità è stata da Gentiloni accettata come una critica ma anche rivendicata come un dato oggettivo. Gentiloni ha fatto un bilancio positivo dell’azione non del suo governo – di cui ha potuto citare, per ovvie ragioni di tempo, solo la tempestività del decreto salva-risparmio su Montepaschi – ma del governo a guida Renzi, in termini di politiche della sicurezza, gestione dei flussi migratori, crescita dell’economia e riforma del mercato del lavoro, lotta all’evasione fiscale, gestione dei flussi migratori. Ma sempre con toni pacatissimi, senza nessun acuto particolare. Dopo di che ha detto a un certo punto: «se poi volete la mia personale accentuazione», ed effettivamente la personale accentuazione non era facile trovarla. Se non per differenza rispetto al suo predecessore e al suo stile decisamente più pirotecnico. Per esempio, alla domanda sui propositi del governo in materia fiscale, ha risposto in maniera quasi sedativa: «sinceramente non sono in grado di fare un discorso serio sulla riduzione dell’Irpef».

Sui temi di sua più stretta competenza, per via della sua esperienza alla Farnesina, Gentiloni ha mostrato molta più solidità: sull’europeismo e l’atlantismo dell’Italia, sulla necessità di rivedere i rapporti con Putin, senza assecondare tentazioni da guerra fredda, sulla necessità di una politica internazionale per il Mediterraneo, che non può divenire «mar nullius», sulla critica del «puntiglio regolatorio» di Bruxelles che non aiuta la crescita né l’immagine delle istituzioni europee presso la pubblica opinione.

Ma l’espressione che sintetizza la condizione in cui si trova il governo Gentiloni l’ha pescata dalla lingua francese: «il faut faire avec». Bisogna fare con quello che c’è. È un’antanaclasi pure questa: si può mai fare qualcosa con quello che non c’è? Certo, forse Renzi avrebbe provato a dire che sì, si può fare pure quello. Ma Gentiloni non ha concesso voli pindarici, annunci mirabolanti o risultati strabilianti. Né per oggi né per domani. Gli italiani devono sapere che lo Stato c’è, che le istituzioni continuano a funzionare, in attesa che nuovi scenari politici si disegnino. A lui tocca solo «ricucire». Gentiloni non voleva dire «sopire», ma c’è andato vicino.

(Il Mattino, 30 dicembre 2016)

Un sindaco a Santa Lucia. La solitudine di De Luca

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Era chiaro, fin dalla tarda sera del 4 dicembre, che lo scenario politico del Paese si sarebbe parecchio complicato, e non solo a livello nazionale, per effetto della vittoria del No al referendum costituzionale. Renzi è (temporaneamente) uscito di scena, ma non solo lui: tutti gli uomini che si sono più o meno identificati con la sua battaglia per la riforma della costituzione hanno riportato ammaccature più o meno grandi. Così anche Vincenzo De Luca. Il governatore della Campania, che si è molto speso in quella sfida, si è anzi trovato al centro di una bufera mediatica (la frittura di pesce e l’elogio del voto clientelare) che, abbia avuto o no conseguenze sull’esito del referendum, ne ha sicuramente danneggiato l’immagine, aumentando la distanza con i vertici nazionali del partito (e una certa voga alla caricatura). La coda giudiziaria di quella vicenda è francamente risibile, e sembra rientrare soltanto nel bruttissimo vezzo italico di criminalizzazione della politica (che dura da quel dì). Ma anche quella è la spia di un momento non felice.

De Luca pensa ora di superare i nodi politici aggrovigliatisi dopo il 4 dicembre proponendosi non come un presidente della Regione, eletto direttamente dai cittadini ma legato a un rapporto di fiducia con il consiglio regionale e le forze politiche che nel consiglio lo sostengono, ma come sindaco della Campania, uomo solo al comando In grado di rivendicare per sé la massima autonomia decisionale possibile. È la risposta giusta? Si vedrà. Di sicuro è la risposta che ha sempre fatto parte del suo stile di governo, legato a un esercizio vigorosissimo della carica di primo cittadino (a Salerno, per circa un ventennio), un esercizio che ha ristretto ai minimi termini la dialettica politica.

Il banco di prova è adesso la sanità, sicuramente la parte più corposa del bilancio di una Regione (e del lavoro di un governatore). De Luca ha chiesto di poter entrare nel ruolo di commissario, per rimediare allo sfacelo in cui, dopo quasi un decennio di commissari di nomina governativa, la sanità campana è precipitata, finendo di gran lunga ultima nella graduatoria che ogni anno stila il Ministero della Salute. Ieri questo giornale ha presentato i dati da brivido sui livelli di assistenza sanitaria in Campania: che vi sia assoluta necessità di cambiare modalità di gestione della sanità regionale è, dunque, fuor di dubbio. Ma la nomina, che il giorno prima del referendum sembrava assolutamente scontata, ora non lo è più: esitazioni vi sono sia a Roma – dove il ministro Lorenzin sembra molto riluttante a firmare il relativo decreto –, che a Napoli, in seno alla maggioranza e dentro il partito democratico, dove si registrano non pochi malumori e perplessità dinanzi alla prospettiva di mettere tutto il comparto sanitario nelle mani di un solo uomo, abituato peraltro a lasciare soltanto le briciole agli altri.

De Luca naturalmente si propone come uomo determinato, deciso, che bada al sodo e punta al risultato, insofferente non solo della «palude burocratica» che continua a indicare come il nemico numero uno da battere e in cui teme invece di rimanere invischiato, ma pure delle liturgie politiche, dei faticosi confronti in consiglio e nel partito. Resta il fatto però che la via di chiudere il proprio ruolo in una dimensione tutta gestionale e amministrativa, senza una reale interlocuzione politica con i diversi livelli di governo e con gli altri protagonisti della vicenda campana rischia di aggravare l’isolamento di De Luca. Certo, lui preferisce in realtà mantenersi in una simile condizione, proprio per non dare conto a nessuno delle proprie scelte. Ma quello che nei momenti di fortuna è sicuramente un punto di forza del governatore, può rivelarsi in futuro una debolezza, se il vento continuerà a cambiare.

E in realtà, dopo il 4 dicembre, il vento è già, almeno in parte, cambiato. De Luca però procede senza reti di solidarietà politica fra gli esponenti del suo stesso partito: rinuncia per esempio a chiamarli ad una discussione sul significato politico del voto, che è stata dunque semplicemente bypassata, come se non riguardasse la Campania nemmeno di striscio, e di fatto rinuncia a rilanciare l’azione del partito democratico. Continua anzi a preferire non identificarvisi e tenerlo quasi da parte. Non è detto che, a tempo debito, questa posizione non gli verrà imputata. E rinuncia anche a parlare ai cittadini campani in forme diverse da quelle dei monologhi su radio e televisioni private, dove dà di sé l’immagine di un uomo affaticato dal grande peso del lavoro svolto ma poco aperto a un confronto reale con i cittadini.

Ci sono dei momenti in cui tocca alzare lo sguardo ed essere inclusivi. Questo lo è certamente. Non solo per il partito, che pure è da tempo allo sbando e non può essere né commissariato, né sbaragliato, ma ricostruito in tutte le sue articolazioni, convogliando le migliori energie rimaste finora fuori. Ma anche per la Campania, il cui rilancio non potrà mai essere il frutto di una efficiente azione amministrativa condotta da un unico centro, ma la sintesi di tutte le forze politiche, sociali e imprenditoriali del territorio. Per le quali non basta un pur bravo sindaco.

(Il Mattino, 29 dicembre 2016)