Il Pd deve riflettere, aveva detto ieri Renzi a «Repubblica». E non è una riflessione semplice: non solo per lui, a livello nazionale, ma anche per il partito, a livello locale. Non solo non è semplice la riflessione, ma non è neppure facile farla uscire fuori. E farla diventare un nuovo punto di coagulo per una formazione politica che, dopo la tremenda botta del referendum, continua a sembrare incerta sulle sue ragioni di fondo. La Direzione provinciale del Pd napoletano ha provato ieri a indicare un percorso: coordinamento cittadino e congresso straordinario in primavera. Eventuali elezioni politiche a giugno potrebbero rendere difficile rispettare questo calendario, ma la più grande difficoltà sta nel portare questi appuntamenti all’attenzione della città, sta nel coinvolgere le energie più vitali, sta nell’immettere forze e facce nuove, sta nel superare le logiche correntizie, sta nel ricostruire un vero senso di appartenenza e la condivisione di un destino comune. È abbastanza singolare, infatti, quel che sta capitando: alle primarie per Napoli Bassolino si avvicinò per una strada tutta sua, accettando di stare ben dentro il perimetro indicato dalle regole del partito ma decidendo di fare comunque a modo proprio, con un accentuato senso personale della sua candidatura e della sua possibile leadership. Ieri, invece, è tornato a frequentare un organismo collegiale, la Direzione provinciale, e si è detto pronto a dare una mano «purché le correnti non pensino di dividersi le spoglie del Pd». Dall’altro lato, l’uomo forte a cui il partito democratico aveva affidato la sua rivincita alle regionali dello scorso anno, Vincenzo De Luca, ieri invece non c’era, e intervenendo ad Afragola spiegava il senso di un’altra cosa, che col Pd c’entra assai poco: «Campania libera», il «movimento di volontariato politico e civile» pronto ad accogliere persone anche di altri schieramenti, in una chiave di rafforzamento tutta personale del governatore, anzitutto nel consiglio regionale e poi chissà, nelle urne.
Ora, che cosa indicano questi movimenti pendolari, queste oscillazioni sempre più ampie un po’ dentro un po’ fuori i confini del partito, se non una debolezza profonda, e una scarsa attrattività del Pd anzitutto sulle personalità che pure appartengono da decenni alla sua storia, come De Luca e Bassolino?
Naturalmente, in questi moti alternati hanno un peso sostanziale i risultati elettorali non proprio incoraggianti conseguiti dai democratici, a Napoli e nel referendum. La vittoria di De Magistris ha permesso a Bassolino di tornare nel partito mostrando una nuova magnanimità, di fronte a un gruppo dirigente indebolito di cui non ha avuto bisogno di chiedere la testa; la sconfitta del referendum costituzionale, in cui il presidente della Campania si era parecchio esposto, costringe invece De Luca a costruirsi altri spazi fuori del partito, dove i suoi avversari hanno subito rialzato la testa.
In fondo è sempre stato così: le vittorie hanno molti padri, le sconfitte nessuno. Se il sì avesse vinto, lo scorso 4 dicembre, questa volta di padri ne avremmo avuto, in realtà, uno solo, Matteo Renzi. Ma così non è andata, e la condizione di orfanezza – lo spiegava l’altra sera Paolo Sorrentino in tv – «predispone ad abbracciare tutti i vizi». Certo, Renzi è ancora il segretario del Pd, ma siccome ha esercitato la sua presa da Palazzo Chigi, trascurando palesemente le stanze del Nazareno (forse non credendo fino in fondo neppure lui allo strumento del partito), ora che è meno presente, o forse meno temuto, i vizi del partito democratico rischiano di ripresentarsi tutti. Come se la rottamazione fosse già finita; o come se, in Campania, non fosse mai arrivata.
C’era evidentemente molta semplificazione nell’idea originaria, che bastasse disfarsi del vecchio per far nascere il nuovo. Ma che vi sia un problema di rinnovamento della classe dirigente rimane drammaticamente vero, come Renzi ha ampiamente riconosciuto. Oggi il Pd appare, nelle realtà locali, quasi un corpo estraneo alla società: non riesce a appassionare le migliori intelligenze, non riesce a servirsi di nuove competenze, non riesce a coinvolgere figure autorevoli e specchiate, non riesce a raggiungere le giovani generazioni. Questo limite mette in pericolo l’idea stessa della rappresentanza: non a caso i grillini vorrebbero farne semplicemente a meno. Perché la rappresentanza comporta l’affidamento delle proprie ragioni e della propria volontà a qualcuno in grado di interpretarle al meglio.
Ma questo “meglio” è oggi molto difficile trovarlo nelle cerchie di partito, e a volte è anche peggio: sembra che non lo si voglia cercare neppure. Forse il lanciafiamme promesso da Renzi all’indomani dei ballottaggi dello scorso anno non era lo strumento migliore per fare spazio, ma pure bisognerà che qualcuno, dalle parti del Pd campano, getti un fascio di luce nuova.
(Il Mattino, 17 gennaio 2017)