Archivi del giorno: febbraio 9, 2017

Se l’indole violenta si svela

quarto_potereLa denuncia dell’onorevole Luigi Di Maio segna un nuovo punto nella storia dei difficili rapporti dei Cinquestelle con l’informazione e va presa dunque con estrema serietà. Per il vicepresidente della Camera dei Deputati il Movimento è vittima di una campagna diffamatoria. La campagna diffamatoria è su tutti gli organi di informazione in queste giornate: a proposito delle polizze vita intestata alla ignara sindaca di Roma Virginia Raggi, che secondo Di Maio i giornali presenterebbero in un’ottica falsa e menzognera, formulando ogni genere di ipotesi diverse dalla mera generosità di colui che quelle polizze ha acceso, il fido Romeo.

Vi sono un paio di cose da dire su questo punto, e poi, più in generale, su quale debba essere il ruolo della stampa in un paese liberale e sul modo in cui invece lo concepiscono i grillini.

Di Maio afferma (non ipotizza: afferma) che i giornalisti hanno «diffamato» il Movimento. Ma la diffamazione a mezzo stampa è un reato: la denuncia andrebbe quindi presentata all’autorità giudiziaria. È invece al Presidente dell’Ordine dei giornalisti che Luigi di Maio si rivolge, segnalando casi di comportamenti «deontologicamente scorretti». Con tanto di nomi e cognomi. La prima scorrettezza sta però proprio nel parlare indifferentemente di diffamazione oppure di scorrettezze deontologiche: ma non sono la stessa cosa e non hanno le stesse conseguenze. Il vicepresidente della Camera dei Deputatituttavia sorvola piuttosto scorrettamente sulla distinzione.

Di Maio riporta poi le frasi vergognose per le quali chiede le scuse dei giornalisti. In nessuna di esse però si afferma che la stipula delle polizze configura un rapporto di tipo corruttivo; in tutte si ipotizzano invece spiegazioni diverse da quelle, evidentemente reputate poco credibili, fornite dai protagonisti della vicenda (comprese naturalmente le ipotesi poco commendevoli). Ora, questo modo di scrivere e raccontare può non piacere. La luce che getta sui fatti spesso li altera snatura. Attenzione, però: formulare ipotesi non è di per sé distorsivo, è anzi forma di una comprensione razionale della realtà (chiedere, all’occorrenza, a Aristotele e a Peirce, a Francis Bacon e a Sir Karl Popper). Può, è vero, accadere che le ipotesi siano formulate precisamente allo scopo di infangare, come lamenta Di Maio. E il retroscenismo può – è vero anche questo – promuovere pettegolezzi e illazioni al rango di analisi politiche. Ma se vi è un luogo dove questa maniera distorta di presentare le cose abbonda, tracima, straripa, esonda, trabocca e dirompe, condendosi regolarmente di insinuazioni e pregiudizi, di toni insultanti e iperboli offensive, questo è il blog di Beppe Grillo. Questa è, indubitabilmente, la cultura del Movimento Cinquestelle. Dal Vaffa Day all’ultimo post di Grillo, quello che leggo proprio adesso e dove i governanti europei compaiono del tutto gratuitamente con il titolo non proprio lusinghiero di «cleptocrati» (cleptocrazia, dice Wikipedia, è una modalità di governo che «rappresenta il culmine della corruzione politica»). E si tratta, come sa chiunque legga il blog, di un post dai toni tutto sommato sobri, incomparabilmente più misurati di quelli riservati ai casi di mala politica nostrani.

Ma se Di Maio si accorge solo ora di cosa significhi finire in quel circuito mediatico-giudiziario in cui si finisce per essere se non colpevoli colpevolizzati ben prima della sentenza di qualunque tribunale, beh: dimostra una sorprendente ingenuità. O forse – è un’ipotesi che non voglio nemmeno formulare – lancia solo ora l’allarme perché comincia a temere che prima o poi quel circuito lo possa carpire, afferrare, travolgere, per quanto innocente egli sia da ogni colpa. Una rilettura delle carezzevoli parole usate dal comico genovese nel corso degli anni potrà comunque rivelargli in quale mondo ha vissuto finora meglio di qualunque ulteriore commento.

Questa volta però è in gioco, con più forza di prima, il rapporto con il quarto potere, con l’informazione, la libertà di opinione e il diritto di critica. I grillinisono quelli che in passato rifiutavano di rilasciare dichiarazioni ai giornali italiani, che rifiutavano di andare in tv, e che in seguito hanno preso ad andarci solo alle condizioni da loro dettate (cioè rifiutando il contraddittorio con altri esponenti politici, cosa che – chissà perché – i conduttori gli concedono). I grillini sono quelli che respingono per principio la mediazione dell’organo di stampa, fingendo di non accorgersi che, ben lungi dall’essere diretta, immediata, tutta la loro comunicazione è non semplicemente mediata ma condizionata dallo Staff di Grillo, e sottoposta a precise limitazioni, volte a sedare ogni forma di dissenso, e raccolte sotto la clausola generale del danno d’immagine che verrebbe al Movimento da dichiarazioni non concordate, non condivise, non vidimate dal Capo politico. I grillini sono quelli che additano i giornalisti al pubblico ludibrio, e Grillo è quello che da ultimo si è inventato la più totalitaria delle invenzioni in argomento: la giuria popolare che sancisce la verità o falsità delle notizie.

Tutto questo è intrinsecamente violento. Non è violento nel senso che attenta direttamente, fisicamente alla sicurezza dei giornalisti. Ma nel senso che disconosce la figura della terzietà, cioè il presidio di libertà più prezioso costruito dalla civiltà liberale moderna: nelle forme generali del diritto come in quelle più recenti delle autorità indipendenti, o della stessa articolazione e separazione dei poteri. Le ripudia concettualmente, queste forme, prima ancora che praticamente. Perché non vede nel ruolo terzo interposto fra l’emittente (il blog) e il ricevente (il cittadino), in quello che domanda oppure interpreta, che riferisce oppure giudica, altro che un fattore di distorsione, mentre invece si tratta dell’unica protezione possibile contro ogni forma di indottrinamento. Dove la parola del Capo arriva senza rifrazione possibile, direttamente nella testa del militante, lì non è nemmeno più parola: è solo ordine e ubbidienza. Ed è così che può finire il dominio del diritto, e cominciare quello della violenza.

(Il Mattino, 8 febbraio 2017)

Mattarella, i Pm e la tentazione della solennità

immagineLe parole che il Presidente della Repubblica ha rivolto ai giovani magistrati in tirocinio, nel corso della cerimonia al Quirinale, meritano di essere rimarcate. Sono parole di circostanza, nel senso che è d’uso che il Capo dello Stato tenga un discorso in una simile circostanza. E sono parole misurate, come d’altronde è nello stile di Sergio Mattarella. Che ieri, però, è uscito dal «percorso del testo scritto» per svolgere qualche considerazione più personale, più vicina alla sua stessa sensibilità ed esperienza. Sono, dunque, parole diverse.

Il discorso scritto conteneva già alcuni preziosi elementi: la sottolineatura dell’irrinunciabile valore costituzionale dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura era accompagnata da una considerazione non banale sul valore della prevedibilità delle decisioni giudiziarie, che deve valere anche – anzi: soprattutto – per l’esercizio monocratico della funzione in capo al singolo magistrato. Le decisioni «singolari» prendono infatti risalto, fanno parlare, regalano palcoscenici mediatici, ma danneggiano la credibilità della magistratura. Un altro spunto contenuto nel discorso scritto ha riguardato l’importanza degli «espressi enunciati» a cui il magistrato deve innanzitutto attenersi nell’applicazione della norma. Non è un rilievo trascurabile, perché attenersi alla lettera, evitando voli troppo pindarici sulle ali del supposto spirito della legge, contrasta la tendenza, oggi assai diffusa, a inflazionare invece il momento dell’interpretazione. Che si proclama sempre costituzionalmente orientata – com’è ovvio – ma in una fase in cui è sempre meno la Suprema Corte a fornire il suddetto orientamento, e sempre più il giudice ordinario a figurarselo piuttosto liberamente da sé.

Infine, c’è, nel discorso di Mattarella un invito ai giovani magistrati a sentirsi parte di un ufficio, a «fare squadra», a portare questa dimensione della collaborazione con colleghi e dirigenti degli uffici anche dentro i percorsi di formazione e tirocinio della Scuola superiore della magistratura. E pure questo contrasta un poco se non con lo spirito del tempo con certe abitudini professionali del magistrato, gelosissimo della propria autonomia e sempre preoccupato di resistere all’accentuarsi di impronte fortemente gerarchiche nell’organizzazione degli uffici.

Poi però Mattarella è uscito dal testo scritto, e il senso dei margini entro i quali tenere l’esercizio della professione che aveva sin lì trasmesso attraverso raccomandazioni rigorose, ma quasi soltanto in punta di dottrina, si è riempito di un significato quasi esistenziale. Mattarella è stato per alcuni anni giudice della Corte Costituzionale. Ha indossato tocco ed ermellino. Sa cosa significa passare una giornata tra scranni e stucchi. Conosce perfettamente la «solennità» che si accompagna all’esercizio delle più delicate funzioni pubbliche e che certo anche ieri i giovani magistrati avvertivano concretamente, tutta attorno a loro: nel salone del Quirinale, innanzi alle supreme autorità dello Stato. Parla dunque Mattarella a ragion veduta quando raccomanda di non smarrire, tutti compresi del proprio ruolo, «il senso dei propri limiti, particolarmente di quelli istituzionali». Di non smarrirli per via dell’aria rarefatta che si respira intorno a loro, dell’ossequio che è loro comunque dovuto, del silenzio carico di tensione con il quale l’imputato attende il verdetto, o della sensazione di potere che si prova spiccando un provvedimento e mandandolo ad esecuzione.

Pochi anni fa, l’editore Sellerio ha ripubblicato il «Diario di un giudice», scritto negli anni Cinquanta da un magistrato, Dante Troisi, che dopo la pubblicazione del libro finì sotto processo per aver leso il prestigio della magistratura. In realtà, aveva solo provato a mettere anche lui in guardia i giudici dal sentirsi «intangibili ministri della divinità». È un rischio concreto connaturato a una condizione quasi-sacerdotale, alla distanza e alla solitudine legata alla funzione, che può facilmente divenire scollamento e, quindi, rovesciarsi in arbitrio. E può dettare pensieri scandalosi come questo che Troisi annotava nel suo Diario: «Perché mi lamento di oggi? Questa di oggi è una giungla più comoda; son riuscito a salire su un albero per colpire la gente che passa sotto. Presto proverò gusto a centrarli, senza trascurare il piacere di lasciare indenne qualcuno, per goderne la meraviglia». Certo, oggi la figura del magistrato è molto meno sacralizzata di quanto non fosse nel 1955, quando uscì il «Diario». La magistratura è molto cambiata e, con essa, anche la società italiana. Ma è bene che il Presidente della Repubblica abbia lasciato ieri il «percorso del discorso scritto» per darci una pagina del suo diario, una cifra vera della sua stessa, personale esperienza. Perché ne è venuta una autentica lezione di democrazia, che vive solo se si riversa anche nella dimensione dell’ethos professionale, senza di cui non sarà mai possibile domare il ruggito dell’arroganza che si nasconde al cuore di ogni posizione di potere.

(Il Mattino, 7 febbraio 2017)