Archivi del giorno: marzo 26, 2017

Sociale, troppo poco per la nuova civitas

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Non bisogna sottovalutare dichiarazioni di principio e ricorrenze: non scandiremmo la nostra vita secondo un calendario civile, se le date non contassero nulla. Non bisogna sottovalutare neppure le parole, che in certi momenti contano quasi quanto le cose. E tuttavia il programma enunciato ieri a Roma dai leader europei sconta una certa usura del vocabolario con cui declina gli obiettivi da realizzare. Indica, certo, un orizzonte di progresso economico e sociale, che in questi anni si è distribuito tuttavia in maniera diseguale tra le diverse regioni del continente; afferma e fa propria la necessità di lottare contro la disoccupazione, la discriminazione, l’esclusione sociale e la povertà, ma non chiarisce se le politiche conseguenti si ritiene che debbano essere adottate per un principio di equità e giustizia sociale, o per correggere gli indirizzi fin qui adottati di politica economica. Nobile intenzione la prima, ma più incisivo proposito il secondo. Il nodo però non viene sciolto, mentre su altri terreni le poche righe impiegate riescono ad essere chiare e nette.

Sull’affermazione del principio di parità fra uomini e donne, in particolare: dal modo in cui viene riproposto, si comprende benissimo che ha la forza di principiare effettivamente linee di intervento contro le discriminazioni e le diseguaglianze di genere.

Dove infine la dichiarazione appare più lontana dal prefigurare in concreto il contenuto dell’Europa sociale di domani è nel formulare l’impegno perché nell’Unione di domani i giovani possano trovare un lavoro in tutto il continente. Una così pronunciata mobilità della forza lavoro non solo non è alle viste, ma sembra possa interessare una fascia esigua di lavoratori, in grado di spendere le proprie abilità e competenze su un mercato più ampio. La fascia può ampliarsi, ed è anzi auspicabile che si allarghi, ma è chiaro che quell’obiettivo promette un dinamismo che non interessa allo stesso modo il laureato e il diplomato, il professionista autonomo e il dipendente pubblico. Punta alla mobilità di un fattore produttivo, più che alla sua protezione.

Forse non c’è altro modo per riprendere un sentiero di crescita, ma l’impressione è che la dichiarazione di Roma stabilisca comunque un ordine di priorità fra le iniziative comprese nella strategia Europa 2020. La crescita è anzitutto intelligente e sostenibile; soltanto poi solidale.

Quello però è il vero tasto dolente della costruzione europea nata nel 1992 con il Trattato di Maastricht, che declinava il patto di stabilità e crescita, in vista dell’introduzione della moneta unica, sulla base di parametri di carattere economico-finanziari – anzitutto il rapporto tra deficit e Pil non superiore al 3%, e il rapporto tra debito e pubblico e Pil non superiore al 60% – privi di un qualunque contenuto sociale.  Prendeva quel Trattato a riferimento i Paesi virtuosi, sui quali gli altri dovevano regolarsi, ma tra le virtù celebrate dal Trattato non ve n’era alcuna che fosse riferita a parametri a carattere sociale, come per esempio il tasso di occupazione.

C’è un punto almeno che questa impostazione trascurava, e che i successivi passi per “andare oltre Maastricht” non mi pare abbiano recuperato, se non molto parzialmente. Esso riguarda il profilo stesso della cittadinanza. Al quale appartiene anche un contenuto sociale, conquistato dai popoli europei, secondo tragitti storici diversi, lungo tutto il Novecento. Sicché, nel momento in cui si provava a costruire intorno alle stelle della bandiera dell’Unione un nuovo senso di appartenenza alla “civitas” europea, priva inevitabilmente del principale collante storico, quello nazionale, doveva apparire imprescindibile far crescere, non far diminuire la dimensione sociale della cittadinanza. Dalla dichiarazione di Roma io mi sarei dunque aspettato una più convinta presa d’atto che contano, certamente, le regole dell’economia, ma contano pure le regole della politica: non tutto quello che può apparire astrattamente preferibile, sul terreno della razionalità economica, è anche politicamente praticabile. Questa è del resto la ragione per cui di razionalità economiche ce n’è più d’una, e troppo a lungo è sembrato che Maastricht e l’euro fossero solo la traduzione sul continente della cura che oltre Manica e dall’altra parte dell’Atlantico aveva preso il nome, negli anni Ottanta del secolo scorso, di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Ovvero: non esiste la società, esistono solo gli individui; lo Stato è parte del problema, non della soluzione. Questi slogan può darsi anche che possano funzionare: dove però esiste un contesto istituzionale già consolidato, e spazi di democrazia condivisa. Dove invece queste condizioni mancano, il risultato somiglia troppo da vicino a ciò che negli anni è diventata, agli occhi dell’opinione pubblica, la tecnocrazia europea, la burocrazia europea, l’Europa dell’euro: non uno svuotamento della politica, ma una politica priva di quel contenuto sociale senza il quale nessuna solidarietà europea può veramente stabilirsi.

(Il Mattino, 26 marzo 2017)

La tentazione di abolire i Parlamenti

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La critica – radicale, definitiva, inappellabile – che Michelle Houellebecq rivolge, sul Corriere della Sera, all’indirizzo della democrazia rappresentativa richiede, per essere discussa seriamente, un passo indietro. Di quasi tremila anni.

Houellebecq parla alla vigilia delle elezioni presidenziali in Francia – alla vigilia delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, istitutivi del primo nucleo di comunità europea – e non si limita a prendere le distanze dall’offerta politica del suo Paese («mi asterrò con particolare entusiasmo»), ma, nel formularla, vi mette il carico da novanta, esprimendo un rifiuto completo e senza sfumature delle istituzioni parlamentari come tali, dell’idea che democrazia possa ancora voler dire rappresentanza – oggi, in un tempo in cui la tecnologia sembra rendere possibile l’utopia della democrazia diretta. Questo è il suo primo argomento. Il secondo è invece che non è vero, se mai lo è stato, che il popolo è ignorante, e che dunque non può prendere direttamente decisioni politiche che richiedono particolari competenze. Il terzo infine è che solo il popolo è legittimato a decidere, e nessun’altra istanza è più democratica di quella che al popolo rimette le decisioni su ogni e ciascuna materia su cui occorra deliberare.

Nessuno di questi tre argomenti contiene – bisogna pur dirlo, con tutto il rispetto per il più famoso scrittore francese vivente – una critica particolarmente originale della democrazia moderna. Che non ricorre affatto all’escamotage della rappresentanza solo perché non si riesce a sentir tutti su ogni argomento. Che non si dota di organismi parlamentari solo per togliere la parola al popolo, di cui non si fida. E che infine non costruisce percorsi di legittimazione costituzionale solamente per limitare in chiave oligarchica l’esercizio del potere politico. Per tutto questo, si potrebbe rinviare Houellebecq a qualche buon manuale di diritto costituzionale, per regolare le questioni su ciascuno di questi punti, e intanto domandargli chi diavolo sceglierà – quale Staff, quale Garante, quale Blog – gli argomenti da sottoporre a referendum popolare, e chi governerà nel frattempo, tra un referendum popolare e l’altro.

Così replicando, si mancherebbe l’essenziale. Da quando i moderni hanno costruito la libertà politica grazie all’invenzione dei parlamenti, eletti con voto libero, universale e segreto, al fianco degli istituti democratici è subito spuntata, infatti, la critica dei fautori della democrazia diretta: niente di nuovo sotto il sole. Prima di essere una piattaforma dei grillini, Rousseau era effettivamente un filosofo di questa fatta.

Ma l’essenziale – cioè il vento populista che gonfia le vele di Houellebecq – non lo si coglie senza tornare indietro, di tremila anni. A Omero, al secondo canto di quel primo, immenso monumento della cultura europea e occidentale, che è l’Iliade. Sono i versi in cui, dinanzi ai capi achei riuniti, prende la parola Tersite, l’unico soldato semplice a cui Omero presti una voce distinta in tutto il poema. Dunque: parla Tersite, ed è un atto d’accusa spietato, condito di ingiurie e improperi, contro i capi achei che hanno portato i loro uomini sotto le mura di Troia per una guerra di cui solo loro, i capi, si ingrasseranno spartendosi il bottino. Parla Tersite, e inveisce contro il duce supremo, Agamennone, mosso solo da sete di oro e di giovani donne da conquistare. Parla Tersite – il gaglioffo Tersite, brutto e deforme, calvo e con la gobba – e non ha tutti i torti, perché quando mai c’è stata una guerra al mondo, a cui non si sia stati spinti per brama di potere, di gloria o di ricchezza? Non ha tutti i torti Tersiet, ma uno, fondamentale, lo ha: non sa che sta parlando non solo contro Agamennone e gli altri capi achei, ma anche contro l’Iliade e l’epica stessa. Non lo può sapere, perché lui sta proprio dentro l’Iliade, è dentro la narrazione delle guerra troiana, essendo di quella epopea soltanto un personaggio. Lo sa però Omero, che dopo avergli lasciato libero sfogo per qualche verso lo fa percuotere e zittire dal glorioso Ulisse. E ci consegna l’unica difesa possibile del senso umano della storia dal tersitismo, il primo nome che ha preso il populismo nella storia occidentale.

Se la ragione è di Tersite, e di Tersite soltanto, non ci sarà infatti più nessuna guerra di Troia, ma anche nessun valore, nessuna causa, nessun canto, nessun senso delle vicende umane diverso dal riso, dallo sberleffo e dallo scherno. Non ci saranno eroi nel tempo degli eroi, ma nemmeno poeti nel tempo della poesia, e uomini di Stato nel tempo degli Stati. Tersite non racconta; deride. Ha ragione, ma non ha tutta la ragione; vede il basso e se ne compiace persino, con la sua sguaiataggine, ma così non riconosce nessuna possibile altezza per la figura umana.

Houellebecq dirà allora: cosa però c’è di più democratico di Tersite? Dobbiamo stare con gli uomini del popolo o con la casta dei tronfi capi achei? Ma questa domanda è frutto di un equivoco, frutto dell’idea che democratico sia solo lo scurrile e il plebeo, e dunque solo il movimento che abbassa e degrada, e non anche il movimento che sale verso l’alto, che forma e trasforma anche il vile ed anche il plebeo. Democrazia è questa seconda cosa qua: è la costruzione di un popolo sovrano, non la distruzione di ogni possibile sovranità.

Nella sua lunga conversazione, Houellebecq dice ancora un’altra cosa importante, sull’assenza di una cultura europea: ci sono solo culture locali, e poi una «cultura globale anglosassone.» C’è del vero, in questa affermazione, che meriterebbe un lungo discorso. Ma intanto: quella di Agamennone, Tersite e Ulisse non è una storia che appartenga a una cultura locale, e nemmeno alla cultura globale anglosassone. Se Europa fosse anche solo il luogo in cui queste storie si continuano a leggere, studiare e raccontare non sarebbe piccola cosa. Come non lo sarebbe costruire un quadro istituzionale europee che, certo, non risolvesse i suoi problemi picchiando con lo scettro i Tersite che provano a prendere la parola, ma neppure lasciando che lo scettro cada dalla mano di Ulisse e da ogni mano. Perché, quando cade, qualcuno che lo raccoglie nuovamente c’è, e di solito non è un Tersite, ma qualcuno che lo stringe molto più forte di prima.

(Il Mattino, 25 marzo 2017)