Questa legge elettorale s’ha da fare. Nella prima direzione dopo l’elezione a segretario, Matteo Renzi non ha vestito i panni di Don Rodrigo, ma neppure quelli di Don Abbondio. Non ha fatto la faccia feroce, ma non ha neppure mostrato particolari timidezze. E ha subito messo in chiaro: basta logoramento interno: si vota, e ci si attiene alle decisioni assunte a maggioranza. Quanto al matrimonio con Forza Italia e i Cinquestelle è ora – almeno per quanto riguarda il Pd, che lo ha già promosso col voto – molto prossimo ad essere celebrato. C’è anche una data: il 7 luglio. O la nuova legge viene approvata entro quel termine, o non si potrà più fare.
La legge avrà un impianto proporzionale e, a detta di Renzi, due pilastri irrinunciabili: la soglia di sbarramento al 5% e il listino dei nomi bloccati sulla scheda. Per il resto, il segretario non la presenta come l’uovo di Colombo, ma neppure come il figlio prediletto, di cui il padre possa compiacersi. È piuttosto una scelta necessitata, per sfuggire al proporzionalismo puro (grazie alla soglia di sbarramento) non potendo riproporre la scelta del premio di maggioranza (bocciata dalla Consulta, a meno di non collocarla a altezze inarrivabili per gli attuali partiti).
Alla minoranza di Orlando la scelta non è piaciuta. Perché da un lato allontana la possibilità di una ricomposizione del centrosinistra, dal momento che non spinge il Pd a formare una coalizione con l’arcipelago delle formazioni politiche che si muovono alla sinistra del Pd (formazioni che peraltro sono ben lungi dal trovare un accordo anzitutto fra di loro), e dall’altro lascia già intravedere un’intesa di governo con Berlusconi e i settori moderati del centrodestra.
In effetti, l’esito più probabile delle future elezioni è sicuramente in una maggioranza parlamentare composta da due o più forze non omogenee. Se si trattasse solo di questo, bisognerebbe allora concluderne che saremmo ancora dentro il tunnel in cui il Paese si è infilato dopo la caduta dell’ultimo governo Berlusconi. Monti, Letta, Renzi e e da ultimo Gentiloni: tutti loro hanno governato con pezzi di centrodestra e pezzi di centrosinistra, e, certo, nessuno ha fatto i salti di gioia per questo. Ma è tutto da discutere che sia possibile fare altrimenti, nelle condizioni date, che cioè il sistema politico sia oggi forte abbastanza per lasciarsi alle spalle questa tormentata fase. Quello che abbiamo è infatti un sistema imperniato intorno a tre o quattro forze maggiori, e un folto gruppo di partiti minori (a volte molto minori, ed esistenti quasi solo in Parlamento), che almeno lo sbarramento consentirà di disboscare.
Renzi aveva provato a far di più, con un disegno insieme elettorale e costituzionale, che però è stato sonoramente bocciato nel referendum (e quanto gli dolga lo si è capito bene ancora ieri, quando gli è scappato di dire che per nuove riforme costituzionali non è il caso di rivolgersi a lui per i prossimi decenni).
Ma è da rivedere anche l’ipotesi che fosse disponibile un’altra formula elettorale in grado di produrre di bel bello il miracolo del centrosinistra unito e soprattutto vincente, quando ancora si avverte nell’aria l’odore del sangue della scissione. Peraltro, qUella di risolvere coi meccanismi elettorali non problemi di governabilità, ma problemi politici di coesione del centrosinistra, più che una scorciatoia è in realtà un vicolo cieco: basta vedere alla voce governi dell’Ulivo e dell’Unione di Romano Prodi per averne immediata conferma.
Insomma: questo passa il convento, ha detto Renzi. Quello che mi piaceva non si è potuto fare. E quello che piace a voi non sta né in cielo né in terra.
Chi invece del sistema tedesco ha offerto in direzione un’altra chiave di lettura, quasi pedagogica, è stato Franceschini. Che non guarda all’accordo come a un male necessario, ma come a un bene possibile. Anzitutto perché, dopo i dirompenti Porcellum e Italicum, imposti a maggioranza, avremmo finalmente una legge elettorale largamente condivisa: non, quindi, fatta contro qualcuno. In secondo luogo perché l’alleanza con le forze più vicine non può essere solo il frutto delle forche caudine delle elezioni. Delle due l’una: o la sinistra radicale non è affatto vicina al Pd, e allora non si capisce perché si dovrebbe fare un accordo elettorale, o è vicina, e allora non si capisce perché dopo non si potrebbe fare un accordo di governo, numeri permettendo.
Il ragionamento fila: non è Franceschini che ieri faceva l’Azzeccagarbugli. E già che ci siamo: la sinistra alla quale Renzi dovrebbe guardare con rinnovato interesse, per non cadere nella tentazione delle larghe intese, somiglia ancora ai quattro capponi di Renzo, che continuavano a beccarsi anche dopo essere finiti a testa in giù. Un sistema tedesco non dà un governo la sera delle elezioni (ma in molti paesi europei, fuor di retorica, è così) ma almeno riduce il numero dei litigiosissimi capponi.
(Il Mattino, 31 maggio 2017)