Archivi del mese: Maggio 2017

Una sfida alla sindrome dei capponi

capponi

Questa legge elettorale s’ha da fare. Nella prima direzione dopo l’elezione a segretario, Matteo Renzi non ha vestito i panni di Don Rodrigo, ma neppure quelli di Don Abbondio. Non ha fatto la faccia feroce, ma non ha neppure mostrato particolari timidezze. E ha subito messo in chiaro: basta logoramento interno: si vota, e ci si attiene alle decisioni assunte a maggioranza. Quanto al matrimonio con Forza Italia e i Cinquestelle è ora – almeno per quanto riguarda il Pd, che lo ha già promosso col voto – molto prossimo ad essere celebrato. C’è anche una data: il 7 luglio. O la nuova legge viene approvata entro quel termine, o non si potrà più fare.

La legge avrà un impianto proporzionale e, a detta di Renzi, due pilastri irrinunciabili: la soglia di sbarramento al 5% e il listino dei nomi bloccati sulla scheda. Per il resto, il segretario non la presenta come l’uovo di Colombo, ma neppure come il figlio prediletto, di cui il padre possa compiacersi. È piuttosto una scelta necessitata, per sfuggire al proporzionalismo puro (grazie alla soglia di sbarramento) non potendo riproporre la scelta del premio di maggioranza (bocciata dalla Consulta, a meno di non collocarla a altezze inarrivabili per gli attuali partiti).

Alla minoranza di Orlando la scelta non è piaciuta. Perché da un lato allontana la possibilità di una ricomposizione del centrosinistra, dal momento che non spinge il Pd a formare una coalizione con l’arcipelago delle formazioni politiche che si muovono alla sinistra del Pd (formazioni che peraltro sono ben lungi dal trovare un accordo anzitutto fra di loro), e dall’altro lascia già intravedere un’intesa di governo con Berlusconi e i settori moderati del centrodestra.

In effetti, l’esito più probabile delle future elezioni è sicuramente in una maggioranza parlamentare composta da due o più forze non omogenee. Se si trattasse solo di questo, bisognerebbe allora concluderne che saremmo ancora dentro il tunnel in cui il Paese si è infilato dopo la caduta dell’ultimo governo Berlusconi. Monti, Letta, Renzi e e da ultimo Gentiloni: tutti loro hanno governato con  pezzi di centrodestra e pezzi di centrosinistra, e, certo, nessuno ha fatto i salti di gioia per questo. Ma è tutto da discutere che sia possibile fare altrimenti, nelle condizioni date, che cioè il sistema politico sia oggi forte abbastanza  per lasciarsi alle spalle questa tormentata fase. Quello che abbiamo è infatti un sistema imperniato intorno a tre o quattro forze maggiori, e un folto gruppo di partiti minori (a volte molto minori, ed esistenti quasi solo in Parlamento), che almeno lo sbarramento consentirà di disboscare.

Renzi aveva provato a far di più, con un disegno insieme elettorale e costituzionale, che però è stato sonoramente bocciato nel referendum (e quanto gli dolga lo si è capito bene ancora ieri, quando gli è scappato di dire che per nuove riforme costituzionali non è il caso di rivolgersi a lui per i prossimi decenni).

Ma è da rivedere anche l’ipotesi che fosse disponibile un’altra formula elettorale in grado di produrre di bel bello il miracolo del centrosinistra unito e soprattutto vincente, quando ancora si avverte nell’aria l’odore del sangue della scissione. Peraltro, qUella di risolvere coi meccanismi elettorali non problemi di governabilità, ma problemi politici di coesione del centrosinistra, più che una scorciatoia è in realtà un vicolo cieco: basta vedere alla voce governi dell’Ulivo e dell’Unione di Romano Prodi per averne immediata conferma.

Insomma: questo passa il convento, ha detto Renzi. Quello che mi piaceva non si è potuto fare. E quello che piace a voi non sta né in cielo né in terra.

Chi invece del sistema tedesco ha offerto in direzione un’altra chiave di lettura, quasi pedagogica, è stato Franceschini. Che non guarda all’accordo come a un male necessario, ma come a un bene possibile. Anzitutto perché, dopo i dirompenti Porcellum e Italicum, imposti a maggioranza, avremmo finalmente una legge elettorale largamente condivisa: non, quindi, fatta contro qualcuno. In secondo luogo perché l’alleanza con le forze più vicine non può essere solo il frutto delle forche caudine delle elezioni. Delle due l’una: o la sinistra radicale non è affatto vicina al Pd, e allora non si capisce perché si dovrebbe fare un accordo elettorale, o è vicina, e allora non si capisce perché dopo non si potrebbe fare un accordo di governo, numeri permettendo.

Il ragionamento fila: non è Franceschini che ieri faceva l’Azzeccagarbugli. E già che ci siamo: la sinistra alla quale Renzi dovrebbe guardare con rinnovato interesse, per non cadere nella tentazione delle larghe intese, somiglia ancora ai quattro capponi di Renzo, che continuavano a beccarsi anche dopo essere finiti a testa in giù. Un sistema tedesco non dà un governo la sera delle elezioni (ma in molti paesi europei, fuor di retorica, è così) ma almeno riduce il numero dei litigiosissimi capponi.

(Il Mattino, 31 maggio 2017)

I Cinquestelle all’esame di maturità

arte concettuale

Prima il convegno di Casaleggio junior, con giornalisti, studiosi, imprenditori; poi Grillo alla marcia di Assisi e relativa professione di francescanesimo, adesso l’incontro con gli arcinemici del Pd per un accordo su una legge elettorale alla tedesca (proporzionale con soglia di sbarramento al 5%). I Cinquestelle vorranno pure fare pulizia di tutto il marciume della vecchia politica, ma non trascurano, intanto, ti mandare messaggi rassicuranti al resto del Paese: il cambiamento sarà radicale per quanto riguarda la classe politica, ma non così radicale da non consentire di presentarsi come un forza ragionevole, preparata, affidabile e di buon senso. Che si tratti dell’euro o dei vaccini, del presidente Trump o della scuola, le posizioni pentastellate virano verso lidi più tranquilli: non sono più spudoratamente contro i vaccini o contro l’euro; non sono più acriticamente entusiasti dell’uomo forte ma neanche ideologicamente contrari alla scuola privata. Quel che fortissimamente vogliono sono in fondo soltanto due cose o tre: il reddito di cittadinanza, un’economia sostenibile e, va da sé, la fine dei partiti politici così come li abbiamo conosciuti. Ma un simile programma è perfettamente compatibile con parole rispettose nei confronti del Capo dello Stato (decisivo in questa delicata fase di fine legislatura)  e commenti amorevolissimi nei confronti del Pontefice (perché ancora esiste un elettorato cattolico). Mandati messaggi di grande equilibrio, si può anche avviare la trattativa sulla legge elettorale: ovviamente nelle sedi istituzionali e senza streaming.

Si tratta di un atteggiamento sicuramente più responsabile, anzitutto perché rimanda a data da destinarsi la più esacerbata professione di fede “roussoviana”, fatta di democrazia diretta, mandato imperativo e qualche vaffa day (che, a dire il vero, nel «Contratto sociale» di Rousseau non erano previsti). Anche il Movimento Cinquestelle si dota insomma di un programma di massima e di un programma di minima: quest’ultimo è quello che serve per accreditarsi come forza di governo e stringere accordi almeno in materia elettorale; quell’altro viene ancora utilizzato per incanalare la protesta e raccogliere tutti gli umori antipolitici del Paese. E rimane attivo, anzi attivissimo, al punto che la proposta di Grillo sul sistema tedesco è molto furbescamente accompagnata da un’altra proposta, sulla data del voto: che sia prima, assolutamente prima del 15 settembre, perché dopo scatterebbero i cosiddetti vitalizi dei parlamentari. Ora, se anche il voto cadesse davvero prima di quella data, già complicata di per sé, non sarebbe sufficiente allo scopo se poi non si convocasse il nuovo Parlamento in fretta e furia, per impedire ai vecchi onorevoli di conquistare l’agognata pensione in regime di prorogatio.  Ma questi sono particolari che non cambiano il senso del conto alla rovescia che campeggia sul blog di Grillo: al momento in cui scrivo apprendo non solo che a Grillo va bene il proporzionale alla tedesca, ma pure che «mancano 108 giorni, 19 ore, 28 minuti e 32 secondi alla pensione privilegiata dei parlamentari».

Una nuova legge elettorale che riduca la frammentazione del sistema politico sarebbe, comunque, un passo avanti. E sarebbe importante che PD, Forza Italia, Lega e M5S lo compissero insieme. Certo, la direzione maggioritaria che il Pd renziano aveva intrapreso, non ha superato lo scoglio del referendum del 4 dicembre. Ma è sempre più chiaro che un congegno elettorale non basta, nell’attuale quadro politico e istituzionale, per assicurare la governabilità del Paese. È ragionevole prevedere allora che, all’indomani delle elezioni, le forze maggiori dovranno trovare un qualche accordo perché la nave della prossima legislatura prenda il largo. Ma affrontare la fase parlamentare che seguirà in forza di un sistema di voto adottato sulla base di un’intesa larga, fra tutte o quasi le maggiori formazioni politiche, renderà perlomeno spuntato l’argomento dell’orrido inciucio che da una ventina d’anni a questa parte viene sollevato contro ogni sorta di accordo che venga tentato per uscire dallo stallo attuale. Persino il Movimento dovrà convenirne, e il fatto che sembri oggi disponibile a condividere con gli altri partiti una scelta sul sistema elettorale di questo rilievo, se non é frutto di mera furbizia tattica (e soprattutto se Grillo non si sfilerà alla prima occasione utile, magari proprio per via del count-down) rappresenta sicuramente un’ottima notizia. Non si tratta della «costituzionalizzazione» dei pentastellati, al cui interno rimangono sin troppe opacità – dal ruolo del Capo alla gestione della piattaforma, dalle regole sulle espulsioni ai rapporti con la stampa – ma di sicuro è una sorta di candidatura a svolgere non più un ruolo di squilibrio è rottura del vecchio sistema, ma un possibile ruolo di equilibrio e di costruzione del nuovo sistema.

(Il Mattino, 30 maggio 2017)

De Magistris e l’autogoverno irresponsabile

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La distanza fra la cifra amministrativa della giunta de Magistris e quella politica si allarga. Il Rendiconto di Bilancio passa, la maggioranza applaude, il sindaco ringrazia l’assessore Salvatore Palma per il suo straordinario lavoro, e poi lo congeda con un ultimo saluto. Licenziato. E per dar conto di una decisione altrimenti incomprensibile si appella al contesto «di una crescita non solo amministrativa ma anche politica». Le due cose in realtà non camminano affatto insieme, perché il sindaco è costretto dai mutati e sempre precari equilibri politici a sacrificare proprio l’uomo che teneva i conti, e li teneva su un crinale sempre molto sottile, col baratro del dissesto finanziario non troppo lontano. Ora c’è da augurarsi che il nuovo arrivato, Enrico Panini, trovi subito il filo della matassa, ma certo non si tratta di una mossa ispirata anzitutto all’efficienza e all’efficacia dell’azione di governo.

Quello che è accaduto in aula, non è in realtà molto diverso dal senso complessivo che questa seconda sindacatura sta sempre più assumendo. La sua formula è quella della proporzione inversa: quanto più impegno politico, tanto meno rendiconto amministrativo. Il terreno sul quale Luigi de Magistris cerca e mantiene il rapporto con la città non è infatti quello del risanamento dei conti pubblici, o dell’innalzamento della qualità dei servizi: non si misura con i minuti di attesa dei bus o con il volume delle dismissioni immobiliari. Il Sindaco confida sul consenso di cui gode ancora un’esperienza dalla forte caratura ideologica, mantenuta in connessione con umori e passioni popolari vivi e vitali, che fanno fronte comune nell’orientarsi di volta in volta contro il governo, i poteri forti, il pensiero unico liberista: comunque ben oltre il quadro di responsabilità amministrative di cui un Sindaco è chiamato a rispondere. Di cosa infatti risponde De Magistris? Di orgoglio partenopeo, che sa muovere e suscitare, di attuazione democratica della costituzione, che non è chiarissimo come possa dipendere dalle delibere di una giunta comunale, di processi di distribuzione del potere al popolo, qualunque cosa ciò significhi, e di una politica dell’onestà e delle mani pulite, che rimane la tonalità comune di tutto il malcontento nei confronti delle classi dirigenti. Salvatore Palma stava un passo dietro la roboante retorica del Sindaco, per controllare che l’azione amministrativa non deragliasse del tutto. Ora, quando il Sindaco si volterà per avere almeno un parere tecnico in più, quel parere non lo avrà più dal suo assessore al bilancio.

Il tema dei rapporti tra tecnica e politica non può – è vero – esaurirsi in una forma di supplenza della prima ai danni della seconda. Non è vero neppure che ai servizi sociali debba esserci per forza un sociologo o che all’assessorato ai giovani debbano essere esclusi gli over 50. Per lo stesso motivo, al bilancio non deve andarci per forza un revisore dei conti. Ma nella decisione assunta ieri si tratta, per un verso, di puntellare una maggioranza con l’ingresso di nuove formazioni, in un gioco ad incastro che la frammentazione della rappresentanza in seno al consiglio comunale rende sempre più difficile; per altro verso, si tratta della via d’uscita più frequentata dal sindaco, quando viene messo dinanzi a problemi politici reali: spostare altrove il fuoco dell’attenzione.

Lo si è visto bene anche nelle ultime battute polemiche che ha riservato al governo. Gli omicidi commessi in città negli ultimi giorni hanno suscitato un nuovo allarme. Qual è stata la risposta del Sindaco? Invocare più forse e più risorse da parte del governo, per assicurare un più efficace controllo del territorio. Ora, è comprensibile e anzi giusto che il primo cittadino si affidi anzitutto all’azione repressiva delle forze dell’ordine (anche se il ministro della Giustizia Orlando ha prontamente replicato che l’attenzione del governo per i problemi dell’area napoletana non è affatto mancata in questi anni), ma che dire delle misure che il decreto Minniti ha introdotto mettendo in capo ai sindaci nuovi strumenti per assicurare l’ordine pubblico e il rispetto della legge nelle aree urbane? Il Sindaco di Napoli le rigetta: non ne vuole sapere, non è lui che vuole fare la guerra ai parcheggiatori abusivi e alle occupazioni illegali. Il che è certo coerente con la sua ideologia comunarda e la sua passione per i centri sociali, ma stride con lo scaricabarile di cui si rende protagonista quando accolla tutti gli oneri del rispetto della legge alle istituzioni dello Stato.

Allora De Magistris la butta in politica. E funziona così: che un conto è il governo, ben altro è l’autogoverno. Il primo è chiamato a rispondere ed è subissato di critiche; il secondo non risponde se non della felicità e dell’amore dei napoletani. Perché allora meravigliarsi se l’insorgenza partenopea può fare a meno di un rigoroso assessore al Bilancio? Non è in fondo durato già troppo?

(Il Mattino, 28 maggio 2017)

La tv senza pensiero non può guardare al futuro

pensiero

Le dimissioni di Campo Dall’Orto – ormai nelle cose, al di là degli aspetti formali – sono solo l’ultimo atto di una crisi che risale indietro nel tempo. Crisi aperta, a inizio d’anno, dalla rinuncia del direttore editoriale per l’offerta informativa, Carlo Verdelli, e culminata, a inizio settimana, con la bocciatura del piano editoriale presentato dal direttore generale al consiglio di amministrazione. Trattandosi della principale azienda culturale del Paese, il bilancio di questi anni andrebbe fatto non solo in termini di numeri – di ascolti, di bilanci, di dipendenti – ma anche in termini di pensiero. Parola impegnativa e ingombrante, che tuttavia qualche volta occorre mobilitare per dare un senso a vicende che altrimenti rimbalzano tra la dichiarazione del sindacato e quella del consigliere, tra la presa di posizione del politico e quella del giornalista: punti di vista tutti rispettabilissimi, ma che di solito si spendono soltanto in attesa delle nuove nomine, del nuovo palinsesto, del nuovo programma, per poi tornare tutti al punto di partenza.

Già, ma qual è il punto di partenza? Il tweet di Matteo Renzi che nel 2012, quando ancora non era nemmeno segretario del Pd, diceva «via i partiti dalla Rai»? Diciamo la verità: da qualunque cosa si sarebbe scritto allora, e si scrivesse oggi, che i partiti devono chiamarsi fuori, si sarebbero sollevate, e ancora si solleverebbero, ondate oceaniche di consenso. Ma se davvero si vuole tirare via i partiti – cioè la politica, finché si sta agli articoli della Costituzione – l’unica cosa da farsi, in coerenza con un simile grido di battaglia, sarebbe puramente e semplicemente la privatizzazione dell’azienda. Il mercato taglierebbe tutto quello che la politica non riesce a tagliare, e gli italiani non pagherebbero più il canone. È una soluzione. Ma l’Italia si priverebbe della principale infrastruttura tecnologica con la quale competere nell’arena globale dei media. In piena rivoluzione digitale, mentre nuovi connubi nascono dall’incrocio fra telefonia, internet e televisione, mentre mutano forme, strutture e modelli di formazione dell’opinione pubblica – che alla democrazia è necessaria come ai pesci l’acqua – l’Italia farebbe la scelta di lasciare libero il campo ai competitor privati stranieri in un settore assolutamente strategico per la produzione e la distribuzione dei contenuti e cioè, lo si sappia o no, per la stessa formazione di una comune “mentalità”.

Certo, mantenere una tv pubblica non può voler dire spartirsi posti in consiglio di amministrazione e proseguire pigramente con i talk show del mattino e della sera (condotti da giornalisti-artisti o artisti-giornalisti: poco cambia). L’errore di Renzi, se c’è stato, è stato quello di aver creduto che bastasse affidarsi alla cultura manageriale di un solido professionista per rimettere in sesto i conti della Rai e farla ripartire. Siccome era difficile smuovere il pachiderma aziendale, siccome la forza di inerzia delle cose è la più straordinaria resistenza al cambiamento che si incontra in qualunque settore della vita pubblica, ma in Rai di più, Renzi deve aver pensato che bisognava affidarsi ad un manager accreditato, di comprovata esperienza nel settore, dotarlo dei più ampi poteri e stare poi a guardare, perché ne sarebbe venuto tutto il resto.

Il resto non è venuto. E non perché Campo Dall’Orto non avesse idee giuste e brillanti, e neppure perché in Consiglio di Amministrazione sedevano invece le bieche forze della conservazione. È la visione di insieme che è mancata: il pensiero di quel che all’Italia serve, prima ancora di quello che serve all’azienda. Se infatti la Rai è un’azienda pubblica, è proprio perché ha senso mettere la questione nei termini più generali, nei termini cioè del contributo che il principale produttore nazionale di immagini, narrazioni e «luoghi comuni» può dare alla vita sociale e civile del Paese. Se manca quel contributo, e manca la volontà politica di rivendicarlo, allora manca l’essenziale. Manca la spinta. E finisce prima o poi che non si trovano più ragioni vere per distinguersi dalla tv commerciale, non si capisce più perché non accodarsi o perfino alimentare il populismo imperante, e non si trovano più nemmeno i motivi per accettare le sfide professionali di ridisegnare, possibilmente senza confonderli, gli spazi dell’informazione e dell’intrattenimento. E mentre si sventola la carta dell’innovazione, si finisce in realtà per invecchiare dietro i vecchi vizi e le vecchie abitudini di mamma Rai, che tutto trangugia, tutto digerisce, tutto fagocita e (eventualmente) espelle.

Credo di aver usato tre parole soprattutto, e di averle usate insieme. Sono tecnologia, cultura, politica. Quelli che pensano che basti pigiare il pedale sull’innovazione tecnologica per fare nuova la Rai non sanno cosa pensano. Quelli che credono all’opposto che l’ora della cultura scocchi solo quando si tengono alati discorsi, rinunciando alla popolarità dei nuovi linguaggi e dei nuovi media: anche loro non sanno cosa pensano. E quelli che invece credono che tutti i guai vengono dalla politica, anziché pensare, si limitano a ripetere i peggiori pensieri altrui, lasciando la Rai, senza neppure accorgersene, in balia di tutte le resistenze e le camarille interne all’azienda.

Tecnica cultura e politica sono in realtà i vertici di una stessa figura, quella che da duemilacinquecento anni chiamiamo democrazia. Tocca fare la fatica di metterli insieme, se quella figura deve avere ancora un senso.

(Il Mattino, 27 maggio 2017)

Silvio e Matteo, l’intesa e la discrezione

Pavlov

La solidarietà di Berlusconi a Matteo Renzi e a Maria Elena Boschi vale quel che vale. Per un leader politico che non ha conosciuto un solo giorno in cui non fosse sotto attacco della magistratura, è il minimo sindacale. È la risposta che il Cavaliere dà ormai di default, ogni volta che qualcuno inserisce il file: “magistratura e politica”. Ciò non vuol dire che il tema non sussista, né che Berlusconi non pensi davvero che le intercettazioni pubblicate in questi giorni ledano la sfera privata, ma siamo al cane che morde l’uomo, non all’uomo che morde il cane: non è quella, insomma, la notizia.

La notizia è invece che Berlusconi vuole essere della partita. E la partita più importante che si giocherà di qui alla fine della legislatura è quella che riguarda la legge elettorale. Ora che il Pd ha messo nero su bianco la sua proposta (in soldoni: metà maggioritaria, metà proporzionale), si apre la possibilità concreta di un percorso parlamentare. Per il quale però occorrono numeri che il partito democratico ha alla Camera, ma non ha al Senato (o, se li ha, sono talmente risicati che è difficile fare previsioni). Dunque bisogna inserirsi nella discussione: dare qualcosa per avere qualcosa. Così funziona. Cosa ha da perdere Forza Italia, in questo momento, e cosa può dare? Quello che ha da perdere è la possibilità di presentarsi come un’alternativa credibile alla sinistra di Renzi e ai Cinquestelle. Credibile significa: in grado di competere. Allo stato, la possibilità di competere passa per due condizioni: la presenza di una leadership riconosciuta, la capacità di aggregare lo schieramento di centro-destra. In un sistema maggioritario, si tratta di condizioni irrinunciabili. In un sistema proporzionale no. Dunque, quanto più Berlusconi sente lontane quelle condizioni, tanto più inclinerà per una soluzione di tipo proporzionale.

Questo semplice principio consente una prima lettura delle parole pronunciate ieri dal Cavaliere. Accantoniamo dunque il Berlusconi animalista che passeggia nel parco di Arcore tra simpatici animali e punta al voto dei proprietari di cani e gatti; mettiamo pure da parte le dichiarazioni sui volti nuovi, competenti e con voglia di fare necessari al partito e veniamo al sodo, badiamo a quel che c’è di nuovo. E di nuovo c’è che il leader azzurro considera possibili le elezioni in autunno, il che significa: non è sulla data delle elezioni che Forza Italia opporrà barriere insormontabili. Oppure: se troviamo un’intesa sul sistema elettorale, possiamo ragionare anche sulla data.

Poi il Cavaliere aggiunge: con Salvini non siamo poi così lontani, a parte la questione dell’euro. E qui il primo principio non basta più, ma forse ci vuole la lezione storica. Se infatti si torna con la memoria al Mattarellum – la prima legge elettorale con cui Forza Italia si misurò, con successo, nel ’94 – si ricorderà che, a parte altre differenze, la quota proporzionale era fissata più in basso rispetto all’attuale proposta del Pd: al 25%, contro il 50% del cosiddetto «Rosatellum». E però la legge non impedì affatto alla coalizione di centrodestra di presentarsi nei collegi uninominali della quota maggioritaria con una fisionomia variabile: al Nord in alleanza con la Lega Nord, al Sud con Alleanza nazionale di Fini. La prova di governo, dopo la vittoria alle elezioni, durò solo pochi mesi, ma resta memorabile l’impresa elettorale: Berlusconi riuscì infatti a mettere insieme due forze politiche che più lontane non si sarebbero potute dire (anche su temi fondamentali come l’unità nazionale).

Fermo restando allora il principio sopra enunciato, ho l’impressione che il Cavaliere abbia certo motivi di ostilità nei confronti della proposta dei democratici, perché preferirebbe un sistema alla tedesca che conducesse diritto e filato ad una qualche grande coalizione, che cioè dopo il voto emarginasse gli opposti estremismi di destra e sinistra, ma sappia anche che con il «Rosatellum» non è impossibile stringere accordi con la Lega a livello di singoli collegi. Un sistema del genere è sicuramente preferibile a qualunque soluzione di tipo premiale, sia che il premio vada alla lista (Forza Italia ben difficilmente sarà il primo partito italiano) sia che vada alla coalizione (perché qui vale il principio: un accordo organico con la Lega per un centrodestra unito è di là da venire). Un congegno elettorale che sia maggioritario ma non troppo, e che mantenga spazio sia per accordi elettorali prima, che per accordi politici dopo, è confacente alla situazione in cui si trova attualmente Forza Italia. E lo è anche al Pd, mentre lo è molto meno ai Cinquestelle, che non hanno il personale politico sperimentato per la prova nei collegi uninominali, e non hanno neppure facilità di accordi: né nei singoli collegi, né nella prospettiva del governo.

Se poi, per essere della partita, bisogna spendere parole di solidarietà nei confronti di Renzi e Boschi – parole che sono abbastanza urticanti per le vecchie e nuove file dell’antiberlusconismo, e che quindi aprono un fossato sempre più ampio fra il Pd e quello che si trova alla sua sinistra – beh: che ci vuole? Con una mano Berlusconi accarezza idealmente tutti gli animali domestici degli italiani; con l’altra aizza invece il cane di Pavlov della sinistra dura e pura, la quale con un riflesso condizionato parla di intelligenza col nemico e chiama inciucio qualunque tentativo di intesa fra centrodestra e centrosinistra. Che se invece la legge elettorale la facesse il Pd da solo, certamente si ritroverebbe addosso l’accusa di essersela cucita su misura. Ma questa, delle eterne divisioni e contraddizioni della sinistra, è evidentemente un’altra storia.

(Il Mattino, 21 maggio 2017)

La sinistra e la feccia di Romolo

Lupa

Per quanto ci si voglia girare attorno, non si troverà un solo lato dal quale apparirà meno adamantina la seguente verità: che il grillismo è solo l’ultimo stadio del moralismo, cioè della malattia fondamentale che la sinistra italiana ha contratto nell’ultimo scorcio del ventesimo secolo, e dal quale non è ancora guarita.

Il fatto che questa verità cristallina si trovi oggi sulle pagine de Il Foglio non meraviglia né sorprende. Consente anzi di precisare meglio la verità in questione, perché Claudio Cerasa, il direttore, ne scrive in risposta a Eugenio Scalfari, e così l’assunto di cui sopra reca anche una precisa impronta genealogica: l’incubatore di questa commistione fra moralismo e sinistra è stato proprio il giornale fondato da Eugenio Scalfari. Dal Berlinguer della questione morale al De Mita vagamente tecnocratico e innovatore che doveva cambiare i connotati della Democrazia cristiana, tutti e due circonfusi dell’aureola morale di campioni dell’anti-craxismo, passando per le immancabili proposte di governo tecnocratici o «degli onesti» per finire con la lunga sfilza di papi stranieri elevati a guide della sinistra che non c’era – nel frattempo mandando a pezzi quella che c’era – Scalfari e il suo giornale hanno esercitato senza soluzione di continuità il loro patrocinio etico, intellettuale, spirituale su un intero campo, senza avvedersi che lo spessore ideologico, politico, programmatico della sinistra veniva così assottigliandosi sempre più, sempre più riducendosi al solo ed esclusivo terreno della denuncia morale, surrogato di una visione politico-culturale evidentemente esaurita.

Questo solo si può infatti aggiungere all’analisi di Cerasa: il moralismo è stata soltanto l’ultima ondata. Le altre sono più distanti nel tempo, ma non hanno contribuito meno a dissestare la tradizione della sinistra. La crisi del marxismo italiano è passata infatti anche per altre vicende: per una profonda revisione epistemologica, per una lenta acquisizione del lessico dei diritti e della cittadinanza; per una riscoperta delle tematiche che la cultura del movimento operaio aveva tenuto in disparte (la donna, l’ambiente, il desiderio). Mentre percorreva queste strade, la sinistra italiana perdeva qualcosa della sua ideologia originaria (perdeva tratti totalitari, illiberali, paternalistici), ma qualcosa acquistava anche: in termini di apertura alla modernità, di emancipazione, di progresso. Poi, più nulla. Giunta all’ultimo stadio, ha acquistato una capacità infinita di indignazione, ma ha perso l’unica cosa che non avrebbe mai dovuto perdere: il senso stesso della costruzione storica e della mediazione politica. Forse perché ha temuto di rimanere del tutto fuori dalla vicenda del Paese, dopo aver contribuito a fondarla e a costruirla, la sinistra ha cominciato a pensare che tutta la storia italiana recente, compromessa col malaffare e la corruzione, fosse da buttare. Di questo assunto la più coerente conseguenza, non v’è dubbio, è Beppe Grillo.

Non c’è da andare lontano: basta stare alle cronache di questi giorni. Sul giornale reclutatore del grillismo di sinistra, «Il Fatto quotidiano», viene pubblicata un’intercettazione che riguarda Renzi, padre e figlio. Non facciamone di nuovo la cronaca, ma resta clamoroso che esca fuori un’intercettazione del tutto irrilevante penalmente. Siccome c’è chi nel Pd protesta (meno male), «Il Fatto» non manca di ricordare che, però, quelli del Pd che oggi protestano indignati sono gli stessi che nel 2010 marciavano compatti al grido: «Intercettateci tutti!», protestando allora contro Berlusconi e i suoi tentativi di imbavagliare la stampa. Ecco: non sono proprio gli stessi. Ma è vero che sono quelli che «Repubblica» coltivava e vezzeggiava, accarezzava e lisciava, e con cui costruiva la sua moralistica egemonia sul discorso politico della sinistra. Di cosa meravigliarsi allora se oggi gli elettori vogliono ancora che tutti siano intercettati, e se perciò, delusi dal Pd, si volgono verso i Cinquestelle? C’è, in definitiva, qualche altra idea della politica che sia stata formata in questi anni da «Repubblica» diversa dalla santa coppia onestà/competenza? Non c’è. Perciò tanto vale andare tutti sulla piattaforma online dei grillini, e votare l’inserimento nel programma del Movimento dell’intercettazione illimitata, universale e indiscriminata. E chiunque è contrario lo sarà perché evidentemente vuol nascondere qualcosa.

La logica, purtroppo, è questa. Siccome Scalfari ha cominciato di recente a frequentare con sempre maggiore interesse i lidi della filosofia, ricorderà quel passo della Scienza Nuova in cui Giambattista Vico scrive: «La filosofia considera l’uomo quale dev’essere, e sì non può fruttare ch’a pochissimi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo». La politica, per Vico, doveva rovesciarsi nella feccia di Romolo: Vico non pensava così di fare un favore ai delinquenti; pensava invece all’umanità comune che alla politica chiede un’azione realistica ed efficace (oggi diciamo riformista), non l’autocompiacimento circa la propria superiorità morale e intellettuale. Non come giustamente scrive Cerasa, «il moralismo come strumento di lotta politica». E nemmeno – aggiungo io perché non si sa mai – un pool di magistrati a Palazzo Chigi.

(Il Mattino, 19 maggio 2017)

La nuova notte della Repubblica

sironi

La giornata di ieri ha segnato un nuovo, non invidiabile primato di pista sul circuito mediatico-giudiziario nel quale si avvita la politica e il dibattito pubblico in questo Paese. Il «Fatto quotidiano» pubblica un’intercettazione fra Matteo Renzi e il padre Tiziano, che finisce sui giornali in barba a ogni principio di riservatezza delle indagini e di rispetto della privacy. Finisce sui giornali un’intercettazione priva di qualunque rilevanza penale, che non era nella disposizione degli avvocati e che non era neppure contenuta nelle informative dei carabinieri, proprio per via della sua irrilevanza. Ma la pubblicazione consente di alzare nuovamente al massimo il volume sull’inchiesta: nonostante Renzi dimostri nel corso della telefonata una correttezza assoluta e una severità persino eccessiva nei confronti del padre; nonostante il padre confermi di non aver incontrato l’imprenditore Alfredo Romeo, per quanto egli ricordi; nonostante insomma non vi sia un solo particolare dell’inchiesta che prenda un significato diverso alla luce delle parole intercettate, sta il fatto che, grazie alla pubblicazione, nei titoli, nelle dichiarazioni, nei programmi televisivi ricompare “il caso”. E monta la speculazione politica: basti leggere, fra tutte, la dichiarazione dei capigruppo del Movimento Cinquestelle, Roberto Fico e Carlo Martelli, che prendono la notizia a pretesto per parlare di «aspetti opachi rispetto agli incontri di Tiziano Renzi», quando non c’è alcuna opacità nella telefonata, e per denunciare un «gruppo di potere», quando si tratta di un figlio che, sulla base di rivelazioni di stampa, chiede conto al padre di quel che si legge sui giornali (e che proprio quella sera mostrerà in tv, quindi in pubblico, la stessa severità tenuta in privato, uscendosene con la frase: «se è colpevole, deve essere condannato con una pena doppia»).

Ma ancor più impressionante è la nuda sequenza dei fatti: il 2 marzo scorso «Repubblica» pubblica un’intervista al commercialista napoletano Alfredo Mazzei, il quale asserisce di aver saputo da Romeo di un suo incontro riservato con Tiziano Renzi in una «sorta di bettola». Renzi chiama allora il padre, e gli chiede a muso duro se risponda a verità quanto riportato dal quotidiano. Il padre non ricorda di aver mai incontrato Romeo; di sicuro – dice – non l’ha incontrato a pranzo. Il giorno dopo, il 3 marzo, viene interrogato presso la procura di Roma, investita per competenza delle indagini avviate a Napoli, dai pm Paolo Ielo e John Henry Woodcock. Al termine, la difesa di Renzi rinuncia a richiedere gli atti per preservarne la riservatezza, ma il giorno dopo oplà: sui giornali si rovescia tutta la montagna di accuse prodotte dal Noe, il nucleo investigativo al quale si era affidata la procura napoletana e in particolare il suo pm di punta, John Henry Woodcock. La reazione della procura di Roma, è decisa: fin lì i capi degli uffici di Napoli e Roma avevano proceduto d’intesa, ma di lì in avanti l’intesa naufraga. Pignatone revoca l’indagine al Noe; dopodiché parte l’inchiesta sulla fuga di notizie e parte pure una scrupolosa verifica del lavoro svolto. Salta fuori, e siamo alle ultime settimane, che il capitano dei carabinieri Gianpaolo Scafarto, su cui Woodcock riponeva la massima fiducia, ha clamorosamente manipolato i verbali delle intercettazioni e ha pure costruito una storia di pedinamenti da parte dei servizi segreti, che finisce agli atti nonostante ne sia evidente l’infondatezza. Woodcock, dal canto suo, per difendere l’operato di Scafarto viola l’assoluto riserbo sugli sviluppi del caso chiestogli espressamente dal procuratore Fragliasso. Per aver violato il silenzio e per aver così interferito con il lavoro della Procura romana viene così incolpato dal Procuratore generale della Cassazione, Pasquale Ciccolo.

Ed ecco ora il nuovo coup de théâtre: la drammatica telefonata tra padre e figlio, che costringe la procura di Roma ad aprire una nuova indagine per violazione del segreto istruttorio e il ministro della Giustizia Orlando a disporre accertamenti. Si vedrà nelle prossime ore se anche il CSM, finora taciturno, riuscirà finalmente a prendere posizione sulla vicenda.

Non è detto però che sia l’ultimo episodio: a leggere «il Fatto» sembra anzi che nuove rivelazioni siano tenute in serbo per i prossimi giorni, e così la politica si ritrova sotto una specie di stordimento permanente, travolta da fiumi di parole che non hanno alcun valore probatorio, la cui pubblicazione avviene goccia a goccia, in esplicita violazione di legge, con una Procura che tiene evidentemente aperte le falle da cui fioccano le intercettazioni, e l’altra che prova (finora invano) a turarle.

In gioco, come si vede, non sono i «guai giudiziari» del padre di Renzi, la cui posizione non è minimamente toccata – non aggravata, se mai alleggerita – dalla divulgazione dell’intercettazione. In gioco è tutto il resto: il clamore mediatico sollevato da certe inchieste in via del tutto indipendente dalle risultanze investigative prima e processuali poi; la complicità che si stabilisce fra organi di stampa e organi inquirenti; la disinvoltura con cui certi meccanismi vengono attivati, con qualcuno che dietro le quinte alza la palla e qualcun altro che scende in campo e la schiaccia. E infine l’impotenza della politica, costretta ad assistere allo spettacolo, tacendo per timore di finire magari nel tritacarne della prossima intercettazione, segretamente confidando che la procura di Roma possa almeno questa volta respingere la palla nel campo avverso, dopo un quarto di secolo, anno più anno meno, in cui è stata presa a pallonate. La politica appare cioè ancora priva di qualunque, reale capacità di reazione visto che, giunta dinanzi a uno dei punti più oscuri della storia repubblicana recente, dinanzi a condotte investigative capaci di produrre – non sappiamo a quali livelli – un così grave inquinamento probatorio e di far emergere elementi di così eclatante privatezza, non batte i pugni sul tavolo ma si limita a rilasciare dichiarazioni: il miglior commento all’inazione di questi anni.

(Il Mattino, 17 maggio 2017; su Il Messaggero col titolo: Il clamore mediatico e la volontà nascosta di inquinare le prove)

 

La catena degli errori e la risposta che manca

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Basta mettere in ordine i fatti. E cominciare dalle parole ufficiali. Ieri la Procura di Napoli  ha diramato un comunicato, a firma del procuratore facente funzioni, il dottor Nunzio Fragliasso, nel quale viene smentito che l’Ufficio abbia mai confermato la fiducia al nucleo investigativo del Noe, dopo che la Procura di Roma, investita dal passaggio di competenze, gli aveva tolto le indagini. Parliamo del caso Consip, della fuga di notizie e, successivamente, della scoperta delle manipolazioni del capitano Scafarto, che avevano pesantemente tirato in ballo il padre di Renzi, Tiziano.

Ieri, a distanza di un mese dai fatti – e dunque: ora per allora – viene spiegato che, certo, le indagini affidate al Noe proseguivano, ma questo non significava in alcun modo ribadire la fiducia a quel comando. Non c’era «nessun imbarazzo» a confermare la delega ai carabinieri del Noe, come scrivono le agenzie nell’aprile scorso, ma solo perché si trattava di vicende «non connesse».

Il punto, in realtà, non era la diversità del filone di indagini, ma cosa mai avesse combinato il Noe, tanto da giustificare la revoca delle indagini da parte di Pignatone e dei magistrati romani. E non si trattava di mere illazioni di stampa, ma di quel che riferivano fonti della Procura, come recitavano le agenzie. A quel che abbiamo appreso ieri, tuttavia, quelle fonti non erano il procuratore Fragliasso o l’aggiunto Beatrice. La domanda è allora: chi aveva interesse all’interpretazione circolata su tutti i giornali, e che nessuno ha smentito per un mese intero, che la prosecuzione delle indagini significava conferma della fiducia nel Noe e nel suo capitano, Gianpaolo Scafarto? E perché questa smentita tardiva, che arriva solo ora, dopo l’atto di incolpazione di John Woodcock da parte del procuratore generale della Cassazione Ciccolo, che imputa al Pm napoletano di non aver tenuto il dovuto riserbo sulla vicenda e di avere anzi gravemente interferito con l’inchiesta romana, sostenendo che la manipolazione delle intercettazioni non era che un errore?

A proposito di Woodcock. A chiamarlo in causa questa volta è lo stesso Scafarto, che interrogato sul pastrocchio dell’informativa taroccata ha dovuto ammettere gli errori (una «serie di errori», non una singola parola o una singola frase: una serie) attribuendoli alla fretta, maledetta consigliera. Quale fretta porti ad aggiungere parole nella trascrizione delle intercettazioni non è chiaro. Eppure, a quanto scrive l’Ansa, i magistrati avrebbero contestato a Scafarto di avere scritto Tiziano Renzi dove invece si dice Renzi (a proposito di una nomina fatta dal secondo, non dal primo).

Ma non finisce qua. Fin qui sono soltanto le «anomalie». Poi viene la dichiarazione di Scafarto: fu Woodcock, lui direttamente, a «rappresentare» al capitano dei carabinieri l’opportunità di riferire la storia dei servizi segreti che lo avrebbero tenuto nel mirino. Una storia assolutamente infondata, che però, su consiglio di Woodcock, doveva costituire un «capitolo autonomo» nell’informativa da rendere ai magistrati.

Ora, può darsi benissimo che Scafarto stia mentendo, stia cercando di alleggerire la sua posizione, stia fraintendendo parole dette dal Pm il cui significato era tutt’altro, ma il quadro che queste dichiarazioni restituiscono è veramente allarmante. L’altro giorno, dall’atto di incolpazione di Ciccolo, abbiamo appreso che Woodcock si era speso presso il capo della Procura perché confermasse piena fiducia al capitano Scafarto: proprio quello che i giornali avevano scritto che la Procura avesse fatto, e che invece ieri Fragliasso ha smentito di aver mai fatto. E, come se non bastasse, quel capitano che Woodcock difendeva con solerzia presso i suoi colleghi e capi, oggi invece lo chiama direttamente in causa per avergli suggerito di intorbidare le acque con la storia dei servizi.

Fosse anche tutto falso, ma proprio tutto, il minimo che si possa chiedere è chi controlla chi, come è possibile commettere così tanti errori in una vicenda tanto delicata e dagli effetti politici così dirompenti.

Infine: qualcuno ricorderà il caso Cpl-Concordia (appalti andati alla cooperativa emiliana, su cui la Procura indagava): anche quel caso è stato funestato da errori, anche in quel caso saltati fuori col trasferimento per competenze ad altra procura. Ma i protagonisti sul fronte delle indagini erano gli stessi: che cosa significa? Quale conclusione bisogna trarne? Una domanda retorica non è un commento, ma è, spesso, altrettanto eloquente. Non contiene ancora una risposa, ma aspetta almeno che qualcuno sia pronto a darla. E non aggiunge altro, perché si è già detto molto.

(Il Mattino, 12 maggio 2017)

Nell’articolo, la scelta di una forma contratta può dar luogo a un’interpretazione errata. Dove scrivo che Scafarto chiama direttamente in causa il pm Woodcock per avergli suggerito di intorbidare le acque con la storia dei servizi non va inteso che Woodcock suggerisce di intorbidare le acque ma che Scafarto dice che Woodcock suggerisce di dare rilievo a ciò che Scafarto ha intorbidato. Chiedo scusa se, nel contrarre l’espressione, posso aver favorito un’interpretazione errata. Il contesto, però, non dovrebbe dar adito a dubbi: in cosa consistesse il suggerimento di Woodcock (secondo Scafarto) è detto infatti chiaramente

(Il Mattino, 13 maggio 2017)

Chi comanda in Procura?

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L’incolpazione di Henry John Woodcock per illeciti disciplinari riporta alla ribalta una vicenda che sembrava dovesse spengersi lentamente, come a volte accade alle grandi fiammate che bruciano improvvisamente sui media, per poi scivolare poco a poco e consumarsi lontano dai riflettori.

E invece no: sotto i riflettori ci ritorna perché il procuratore generale della Cassazione, Pasquale Ciccolo, ha ravvisato gli estremi per incolpare Woodcock di aver violato sulla vicenda Consip la consegna del «più assoluto riserbo» voluta dal procuratore reggente di Napoli, Nunzio Fragliasso, e per avere interferito indebitamente con l’indagine della Procura di Roma.

Cos’era infatti accaduto? Che la Procura di Roma aveva revocato l’indagine tenuta dal Noe di Napoli e dal capitano dei carabinieri Gianpaolo Scafarto a seguito della fuga di notizie che aveva accompagnato il passaggio delle carte per competenza da Napoli a Roma. Passa un mese, o giù di lì, e i magistrati romani si accorgono di una manipolazione del contenuto delle intercettazioni, con la quale in bocca all’imprenditore Romeo finisce una frase da lui mai pronunciata, che l’investigatore giudica peraltro di particolare rilievo a sostegno dell’ipotesi di traffico di influenze che si viene formulando a carico del padre di Matteo Renzi, Tiziano. Una falsità, di una gravità inaudita, che però salta fuori solo perché la Procura di Roma spulcia fra le carte dell’inchiesta.

Ora apprendiamo dall’atto del procuratore Ciccolo che, scoppiata la notizia dell’accusa nei confronti di Scafarto, il dottor Fragliasso tiene una riunione con i pm coinvolti, nel corso della quale Woodcok manifesta l’esigenza che l’ufficio confermi piena fiducia al capitano Scafarto e al nucleo investigativo del Noe. Cosa che avviene. Apprendiamo pure che, nel corso della riunione, Fragliasso raccomanda la consegna del silenzio con gli organi di informazione «per non interferire con le indagini». Cosa che invece non avviene: Woodcock parla, le sue parole finiscono sui giornali ed interferiscono pesantemente, perché il magistrato napoletano si perita di spiegare che, a parer suo, solo un pazzo avrebbe potuto deliberatamente compiere un falso negli atti dell’indagine in corso, escludendo dunque che potesse trattarsi di altro che di un errore. In tal modo, scrive Ciccolo nella sua incolpazione, «ha pubblicamente contraddetto e svalutato l’impostazione accusatoria della Procura di Roma, fondata invece sulla ritenuta falsità».

Ce n’è abbastanza per notare le seguenti cose. La prima, che ci troviamo di fronte a un magistrato che disattende palesemente il suo dover d’ufficio al riserbo, richiestogli in una circostanza così delicata dal capo della sua Procura, salvo poi sostenere di essere stato tratto in inganno: un’ingenuità che però appare sorprendente in un uomo navigato come Woodcock, peraltro avvezzo ad avere i giornalisti alle calcagna. La seconda, che mentre tutta Italia si chiede come sia possibile che in un’indagine così delicata, che lambisce i più alti vertici istituzionali, le parole agli atti non vengano controllate non una ma cento volte, prima di costruirci su un castello di accuse – mentre tutta Italia si chiede questo, Woodcock rivolge al procuratore Fragliasso la richiesta di mantenere Scafarto al suo posto. Una richiesta talmente imbarazzante, che lo stesso capitano dei carabinieri chiederà, a sua propria tutela, di essere sollevato dal ruolo. Prudenza avrebbe voluto che ci pensassero i magistrati napoletani, invece i magistrati pensano il contrario. Woodcock garantisce per Scafarto, e la Procura lo segue. Questa è la terza cosa che lascia di stucco: può darsi che i rapporti professionali fossero tali da giustificare una simile condiscendenza, sta di fatto che l’impressione che se ne ricava è che da quelle parti sia Woodcock a dettare la linea, persino in una circostanza così complessa.

Quarto: la procura di Napoli aveva assicurato, con tanto di comunicato ufficiale, che non c’era stato alcun attrito con Pignatone e i pm romani. Nessun contrasto, nessuna tensione. Su questa posizione si era attestato anche il Csm. Comprensibilmente, perché non è mai saggio alimentare conflitti istituzionali. Ma ora sappiamo dall’atto di incolpazione del procuratore generale che lo scontro c’è stato eccome, visto che un magistrato napoletano è accusato di avere interferito con le indagini romane, provando a demolire pubblicamente l’accusa formulata a danno di Scafarto. In sostanza, Woodcock ha mandato a dire ai colleghi romani, a mezzo stampa, che Scafarto era un suo uomo e non andava toccato.

L’ultimo punto accompagna questa vicenda fin dall’inizio. A Napoli manca da mesi il capo della Procura. Il Csm non l’ha ancora nominato. Lo segnalammo (incidentalmente, ma non troppo), quando il caso scoppiò. Torniamo a segnalarlo ora, visto che è palese – indipendentemente dalla grande qualità ed esperienza delle persone coinvolte – che non è la stessa cosa essere il procuratore ed essere il facente funzione. Forse ci sbagliamo, ma la condotta di Woodcock, per come viene delineata dal procuratore Ciccolo nella circostanza, inclina a darci ragione.

(Il Mattino, 9 maggio 2017)

 

Buon compleanno!

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(l’articolo che ripubblico sotto è uscito su il Mattino il 9 maggio del 2007. Oggi compie dieci anni, e voglio festeggiarlo. Non perché fosse gran che, ma perché dopo dieci anni sono un po’ stanchino, e devo quindi non fermarmi, ma almeno riflettere un po’. Si trattava dei Dico, che non ce la fecero a diventar legge, mentre è un anno che abbiamo le unioni civili, un altro compleanno che vale la pena festeggiare):

Le dichiarazioni del ministro Bindi stanno suscitando, senza particolare motivo, grande scalpore. Il ministro ha infatti dichiarato di non avere invitato alla conferenza nazionale sulla famiglia “i destinatari della legge sulle convivenze” (Dico). Ha poi dichiarato di avere esortato gli organizzatori del Family Day a non dare alla manifestazione di sabato prossimo il senso di una protesta contro quella legge, perché i Dico “non c’entrano nulla con la famiglia”: c’entrano invece con i diritti individuali delle persone conviventi. In queste dichiarazioni non c’è nulla di nuovo rispetto al punto di mediazione che era stato raggiunto al momento della presentazione del disegno di legge. Rosy Bindi aveva firmato il progetto proprio perché a suo giudizio la legge sulle convivenze non disegna un altro istituto accanto all’istituto familiare tradizionale. In questo modo, s’era difesa dalle accuse piovutele addosso dal mondo cattolico, e che ancora continuano a pioverle. Le sue parole di questi giorni sono semplicemente conseguenti: mettono in evidenza senza troppi infingimenti quel punto. E squarciano il velo di molta ipocrisia. La maggioranza, che ha considerato i Dico un compromesso accettabile tra gli impegni assunti nel programma elettorale e i rapporti di forza in Parlamento, non può ora stupirsene senza rischiare di compromettere ulteriormente il cammino di una legge di fatto non ancora instradata. Al ministro Ferrero, che a seguito delle dichiarazioni della Bindi afferma di trovare inopportuna la sua partecipazione alla conferenza nazionale sulla famiglia, si può dunque chiedere come abbia potuto trovare in precedenza opportuna la legge di cui quelle dichiarazioni sono diretta espressione.

Rimane da considerare come sarebbe questo paese se potesse liberarsi dall’ipocrisia con la quale solitamente affronta questo genere di dibattiti. È vero che l’ipocrisia, che nell’ambito delle relazioni personali non è propriamente una virtù, è spesso una necessità nell’ambito dei rapporti politici. Siamo il paese che con Torquato Accetto ha teorizzato la dissimulazione onesta, e sappiamo che si può tenere una misura di prudenza senza cadere nella menzogna. Nel caso però delle dichiarazioni del ministro Ferrero siamo forse dinanzi ad una forma di ipocrisia al quadrato. La prima ipocrisia consiste infatti nel non riconoscere la natura del compromesso da cui sono nati i Dico; la seconda nel fingere di accorgersene solo ora. Si può essere accomodanti oppure intransigenti: non si può però essere, o fingere di essere, l’una e l’altra cosa.

C’è poi un’ultima ipocrisia. Le politiche per la famiglia, che tutte le forze politiche dichiarano di voler irrobustire, sono dirette ad un oggetto – la famiglia, appunto – che è profondamente mutato nel corso degli ultimi decenni. Se ne può pensare bene o male, non si può far finta che ciò non sia accaduto, e non sarà aggrapparsi a un nome ciò che procurerà un’identità compatta e senza sbavature a realtà ormai abbastanza diversificate. François de la Rochefoucauld diceva che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Nelle società democratiche si può sperare che ciò a volte non accada; e poiché l’omosessualità non è più un vizio, forse non ha neppure bisogno della virtù di un nome per essere accettata. Se dunque la legge sui Dico è un passo in direzione di un più ampio riconoscimento dei diritti, sarebbe comunque ora di compierlo, invece di scandalizzarsi o dare scandalo.

(Il Mattino, 9 maggio 2007)

Filosofia: un bisogno, non solo un sapere

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Ovunque, nel mondo, vi è stata una grande filosofia, lì vi è stata anche la posizione filosofica della questione del suo insegnamento, della sua trasmissione, della sua tradizione e della sua pratica. Platone, per dire non l’ultimo ma il primo arrivato, ci volle fondare su un’Accademia, e ha disseminato i suoi dialoghi di istruzioni, implicite ed esplicite, sul buon uso del logos filosofico. Dopo di lui, tutti gli altri: non solo gli antichi (per i quali era più facile: bastava fondarla, una scuola), ma anche i moderni, che hanno dovuto acconciare la materia alle esigenze (evidentemente non solo didattiche) delle istituzioni dell’epoca, la Chiesa e lo Stato. Oggi la filosofia si trova là: nell’università, dove da poco più di due secoli – dopo tutto: non un tempo lunghissimo – viene insegnata in regolari corsi di studio, e dove continua naturalmente a entrare in conflitto con le altre facoltà, come ben sapeva Kant.

Se però è vero che ci vuole una grande filosofia per porre daccapo la questione di cosa significhi insegnarla, è anche una fortuna che le grandi filosofie non si succedano l’una dopo l’altra come i cambi d’abito: ad ogni nuova stagione. Altrimenti, con la stessa frequenza, si dovrebbero richiedere riforme legislative. Thomas Kuhn diceva che ci sono periodi in cui la scienza, il sapere in genere, se ne sta tranquilla dentro i propri paradigmi, e periodi in cui invece prova a sovvertirli. Ora, in che razza di periodo viviamo, dal punto di vista del sapere filosofico?

Qualche anno fa, in un’informata guida alla filosofia contemporanea si mostrava come non fosse possibile restituire un’immagine del pensiero contemporaneo senza includervi il tratto di “fine della filosofia” che sembra sbucare fuori ovunque: perché il suo credito scientifico è ridotto al lumicino, perché la tecnica si mangia ogni cosa, perché andare a braccetto con la storia l’ha fatta precipitare in un indistinto relativismo, perché non solo la scienza ma anche altri ambiti della cultura umana che di solito si accompagnavano alla filosofia si sono un po’ stufati: la politica ad esempio, per via della famosa fine delle ideologie in Occidente, oppure l’arte, che avrebbe scelto la strada più diretta della sua riproducibilità finanziaria (Andy Warhol: fare buoni affari è la forma d’arte più affascinante).

Può darsi che questa immagine non sia generosa, che vi siano miriadi di problemi particolari su cui i filosofi possono esercitarsi con profitto, che sia non il mestiere del filosofo ma solo i suoi paramenti sacerdotali ad essere caduti in disuso. Sta di fatto che le grandi filosofie latitano, e quindi le riforme che ne investono la caratura universitaria non debbono scontrarsi coi “funzionari dell’umanità”, ma solo con quelli più prosaicamente addetti al calcolo del numero dei crediti universitari necessari per accedere alla relativa classe di concorso.

La situazione, dunque, sta così: che non è previsto, nello schema di decreto legislativo in discussione, un numero minimo di crediti nella didattica specifica della disciplina. Si insegna a insegnare la qualunque, con l’idea che in questo modo si insegna a insegnare pure la filosofia. È un’idea assai discutibile: ma chi la discute? Ci hanno provato i presidenti delle Società di filosofia con una lettera, apparsa qualche giorno fa sul Corriere della Sera, accolti da un generale silenzio. Ieri è stata la volta di Mario De Caro e Pietro Di Martino, sul Sole. Ma non è di buon senso supporre perlomeno che per insegnare filosofia, per quanto malconcia essa sia, bisogna comunque averla studiata? Se sì, come mai allora il laureato in filosofia che acceda all’insegnamento di storia e filosofia nella scuola deve avere incamerato 36 crediti in discipline filosofiche, mentre un laureato in materie antropo-pisco-pedagogiche, per lo stesso insegnamento, può fermarsi a 24?

È solo colpa della fortuna declinante di quella che una volta, molto tempo fa, era la regina delle scienze, oppure c’è il concorso di una disattenzione, almeno altrettanto colpevole, del legislatore, che mentre cambia le vie di accesso alla professione docente (con qualche merito innegabile: mettendo fine ai megaconcorsi e costruendo un percorso formativo triennale, tra scuola e università, sulla base dei posti effettivamente disponibili), cambia pure lo status della disciplina, relegandola nella serie B dei saperi? Certo, si può anche decidere che non occorre conoscere la filosofia per insegnarla, oppure che è giunta l’ora di non insegnarla affatto. Che non c’è alcun “bisogno di filosofia”, come diceva quel cane morto di Hegel, oppure che è la sua esistenza universitaria a non potersi più giustificare. Importante è dirlo però chiaro e tondo, farci magari anche un bel dibattito su, e non farlo di soppiatto, cambiando qualche numeretto, e relegando la tradizione filosofica del pensiero in una posizione puramente ancillare rispetto al resto delle scienze umane. (Ma la filosofia, infine, è davvero una scienza “umana”?)

(Il Mattino, 8 maggio 2017)

La sfida tra i due mondi che rottamano il ‘900

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Che i sondaggi ci prendano o no, la sfida presidenziale di oggi, in Francia, ha giustamente l’attenzione di tutta Europa. Può darsi sia scontato l’esito; di sicuro non lo è il significato. Non lo è neanche se Macron dovesse vincere con largo margine la sfida e se, col senno di poi, potremmo dire di avere sovrastimato il pericolo lepenista. Con Macron vince infatti (se vince) una cosa nuova, che non c’era nel panorama politico francese fino a due anni fa. Basta questo, per lustrarsi bene gli occhi e domandarsi se non stiamo voltando definitivamente la pagina del ‘900, la pagina della grande politica, dei grandi partiti di massa, del grande movimento operaio. Dopo aver chiuso con il comunismo, l’Europa chiude anche con il socialismo democratico? Forse sì. È difficile trovare, nel panorama europeo, qualcosa di meno somigliante a Macron del Movimento Cinquestelle, in Italia. Eppure, alla domanda cosa siamo, Macron risponde sul suo sito: un popolo di marciatori, un movimento di cittadini. Zero onorevoli. Sembra grosso modo significare: non c’è bisogno di mettere i cittadini dentro la scatola di un partito. Del resto, la prima delle ragioni che sostengono la campagna per le presidenziali è così formulata: «Emmanuel Macron è diverso dai responsabili politici che lo hanno preceduto: in passato ha avuto un vero lavoro, nel settore privato e nel settore pubblico». È dunque un titolo di merito la discontinuità rispetto ai politici del passato e ai politici di professione: Macron non è né l’uno né l’altro. Quanto alle altre ragioni, sono di questo tenore: Macron propone di ridurre di un terzo il numero dei parlamentari (già sentita?), sa di cosa parla, non deve la sua fortuna politica a nessun’altro che non sia lui, sa riconoscere una buona idea anche se viene dal suo avversario politico, che non attacca mai sul piano personale. La competenza è evocata solo per dire che Macron saprà rimettere in sesto l’economia del Paese. Per il resto, c’è un riferimento non al mondo del lavoro, alle sue organizzazioni o alla sua rappresentanza ma ai salari: Macron promette di ridurre il cuneo fiscale e di pagare di più le ore di straordinario. Tradurre questo profilo nella figura di un politico di sinistra, di un socialista mitterandiano o dell’ultimo erede del Fronte popolare di Léon Blum è impossibile. Macron non rottama la vecchia sinistra soltanto, rottama il Novecento e i grandi quadri ideologici che lungo tutto il secolo scorso alimentavano lo scontro politico in Europa.

Non è un caso che proprio su questo terreno Macron ha cercato i punti deboli di Marine Le Pen. Certo: da un lato c’è il suo europeismo, dall’altro lato, c’è invece profonda diffidenza non solo verso l’Unione europea, ma verso tutto ciò che va oltre la dimensione dello Stato nazionale. Dal lato di Macron c’è una profonda fiducia nell’ordine economico internazionale e nella sua capacità di futuro; dal lato della Le Pen c’è invece una critica aspra nei confronti di quella specie di dittatura finanziaria che sarebbe il precipitato delle politiche neoliberali imposte da Berlino e Bruxelles. Dal lato di Macron resiste il vocabolario dell’accoglienza e della solidarietà nei confronti dei migranti; dal lato di Marine Le Pen c’è sciovinismo e islamofobia, per cui la Francia viene innanzi a tutto e gli stranieri, specie se musulmani, è meglio che non vengano proprio. Queste sono grandi linee di divisione lungo le quali si definisce con nettezza la differenza di identità politica e di proposta programmatica dei due candidati. Ma Macron ci aggiunge la differenza fra il nuovo e il vecchio, una carta che, quando è possibile (e lo sarà sempre, finché non si consoliderà un nuovo quadro politico), viene giocata con grande profitto. E così, mentre dietro Macron non c’è nulla, e  quello che lui promette e di cui discute è solo avanti a lui, dietro la Le Pen ci sono ancora le risorse simboliche della destra estrema, i fantasmi del passato, il radicamento nella Francia profonda, una certa cultura del risentimento, e insomma: quello che rappresentava il vecchio patriarca Jean Marie, fondatore del Front National, dal quale Marine Le Pen, l’erede politica, non si sarebbe mai staccata, nonostante la strategia di «dediabolizzazione» sventolata in questi anni.

Così, al dunque, rimangono due le France che vanno al voto: quella aperta al mondo, progressista, liberale, modernizzante, tendenzialmente cosmopolitica e dal vivace spirito urbano, e quella invece diffidente verso lo spirito di apertura, che agita sentimenti di rivalsa: dei «veri» francesi contro gli immigrati, delle periferie contro i palazzi del potere, dei perdenti della globalizzazione contro i pochi che se ne approfittano, delle persone in carne e ossa contro le gelide astrazioni del capitale, della tecnica e del denaro.

Ce n’è abbastanza per allestire nuovi conflitti e nuove linee di frattura. Ma il lessico della politica europea deve essere necessariamente reinventato.

(Il Mattino, 7 maggio 2017)

Roma, l’indecenza di chi scherza su quei tre manichini impiccati

Manichini

I manichini con le maglie dei giocatori della Roma appesi dinanzi al Colosseo? Una presa in giro, uno sfottò, una boutade. Così si sono giustificati gli ultrà della Lazio, ma in realtà non si sono giustificati affatto, perché non hanno sentito minimamente la necessità di una giustificazione, ma, se mai, l’orgoglio di una rivendicazione. C’era il rischio, infatti, che qualcuno pensasse che a impiccare i fantocci con le maglie di Salah, Nainggolan, De Rossi, fossero stati gli stessi tifosi romanisti, delusi e arrabbiati con la squadra dopo la sconfitta nel derby. Quelli della Lazio, a scanso di equivoci, hanno allora pensato di metterci la firma. La scena era terribilmente macabra, e a detta dell’ex laziale Mihajlovic – uno slavo tosto, che in campo non è mai stato una mammoletta – la minaccia formulata nello striscione esposto alle spalle dei manichini faceva paura (“Un consiglio senza offesa. Dormite con la luce accesa”). Ma per i tifosi laziali si è trattato solo di uno scherzo. Magari di cattivo gusto, ma sempre e solo di uno scherzo. I giocatori della Roma, avranno pensato, sono come i fanti: coi santi non si può scherzare, ma con loro sì.

Il fatto è che ormai si scherza con tutto e di tutto, e a tracciare i limiti di quello che è lecito e di quello che non lo è non ci prova più nessuno. Non dico i limiti di legge: teniamoci pure le leggi più liberali del mondo e difendiamo strenuamente libertà di espressione, di critica e pure di scherzo (ma una minaccia, sia chiaro, non è affatto uno scherzo). Prima della norma giuridica c’è però l’opinione pubblica, prima della sanzione penale c’è il regime comune di discorso al quale collettivamente apparteniamo, e c’è (o ci dovrebbe essere) la ragionevolezza del buon senso. Ci sono o ci dovrebbero essere, aggiungo, l’educazione e la formazione nelle scuole, la cultura della cittadinanza nella società, la serietà nei comportamenti, la correttezza nell’uso delle parole, e il senso dell’onore e l’amore della verità in ciascuno di noi. Roba vecchia, superata? Può darsi. Allora accantoniamola per un momento, prendiamo a misura di ciò che si può fare o non fare lo scherzo laziale del Colosseo (o magari le indecenti offese di parte juventina contro il Grande Torino schiantatosi a Superga, il 4 maggio di 68 anni fa) e andiamo in giro per la città di Roma a fare qualcuno di questi tiri.

Per cominciare, si potrebbero impiccare a Saxa Rubra tre pupazzi col volto di tre noti presentatori televisivi, fate voi quali. Al mattino, al lavoro, i dipendenti della Rai se li potrebbero trovare davanti ai cancelli, magari con un cartello ingiurioso affisso sul petto. Spostiamoci ora in via Nazionale, davanti alla banca d’Italia, e lì allestiamo la scena: tre pupazzi con la macina al collo e i volti di celebrati uomini della grande finanza mondiale: da ridere, non vi pare? Tra l’altro, mentre i giocatori della Roma hanno almeno i loro tifosi a difenderli (e magari, la prossima volta a vendicarli: sarà legittima difesa?), questi qua chi volete che li difenda?

Si potrebbe proseguire, naturalmente. E allora nella nostra galleria degli scherzi funerei non potrebbero certo mancare tre politici, a cui fare per finta la pelle davanti a Montecitorio. Anche più di tre, visto il discredito di cui gode la categoria. E siccome infine nelle curve spesso si annidano sentimenti xenofobi e razzisti, non ci facciamo mancare qualche croce a cui appendere tre sporchi negri o tre luridi ebrei. Sempre di cartapesta, s’intende. Sempre per scherzo, si capisce: tanto per giocare.

Ho esagerato, forse. Ma la domanda rimane. Ed è la seguente: può una società ospitare il turpiloquio in televisione e appendere manichini in piazza, lasciare che si diffondano i discorsi d’odio on line e deridere le espressioni politically correct nel dibattito pubblico, senza farsi venire il dubbio che quella cosa fatta di buone maniere, di rispetto e di decenza che si chiama civiltà, processo di civilizzazione, va difesa, coltivata, promossa, non disprezzata come una ipocrisia vecchia, falsa e inautentica.

Avishai Margalit, filosofo politico israeliano, ha introdotto qualche tempo fa il concetto di «società decente», che è tale se non umilia coloro che vi appartengono. E, direi pure, se non umilia se stessa. La decenza ha a che fare con qualcosa di più fondamentale della giustizia, ed è dovuta agli uomini indipendentemente da ciò che prescrive la legge (né una società formalmente giusta risparmia a volte umiliazioni ai suoi membri). Dove infatti si trovi il limite della decenza non può essere una legge a dirlo: una comunità dovrebbe aver cura di trovarlo da sé. Se non lo trova, oggi succede che dinanzi al Colosseo compaiano striscioni e lugubri manichini, domani chissà: forse si farà un bel programma TV con il sondaggio, le domande per il pubblico a casa,e il dibattito in studio fra gli ospiti. Tema: e voi, dove appendereste i vostri funesti manichini?  Risate, applausi, pubblicità.

(Il Mattino, 6 maggio 2017)

Il voto non scaccia le paure globali

naphta

Il succo del commento rilasciato, a proposito del dibattito televisivo fra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, dal premio Nobel per l’economia  Joseph Stiglitz su Les Echos, il principale giornale economico-finanziario francese, è il seguente: «L’idea che gli elettori, da soli, si opporranno al protezionismo e al populismo non può essere altro che un pio desiderio cosmopolita». Traduco: la globalizzazione è un processo diseguale, che fa vincitori e vinti. Pensare che i vinti votino per Macron, cioè per il campione della globalizzazione, è un’illusione. La Le Pen si oppone alle politiche neoliberali che hanno accompagnato negli ultimi trent’anni l’espansione dei mercati. Non basta che le ricette che propone siano confuse o sbagliate, o persino disastrose: sono comunque espressione di un risentimento che trova consensi nei ceti medi impoveriti dalla crisi, e che non verrà meno solo perché il lepenismo lo alimenta con tratti xenofobi o accesamente nazionalisti, con la paura dell’immigrato o con il terrore di Frau Merkel. Il protezionismo sarà anche una minaccia per l’economia mondiale, ma se i flussi economico-finanziari tagliano fuori una fetta della società sempre più estesa, non si vede perché questa parte della società non dovrebbe manifestare tutto il suo malcontento e volgersi verso ricette di tipo protezionistico. Non è quello che è successo nel Regno Unito, con la Brexit, o in America, con Trump? Perché mai non potrebbe succedere anche in Francia? Stiglitz non conclude il suo ragionamento con una previsione funesta sul voto francese, ma con un invito ad adottare politiche in grado di assicurare un buon livello di protezione sociale e buoni livelli occupazionali.

Ora, vi sono due cose che rimangono implicite nel ragionamento di Stiglitz e che però conviene esplicitare. La prima: il voto francese conta, eccome se conta. Se la Le Pen dovesse vincere, smentendo tutti i sondaggi, l’Europa e l’Unione, non solo la Francia, non sarebbero più le stesse. Nulla del paesaggio politico che oggi osserviamo rimarrebbe immutato, di là e di qua delle Alpi. Questo non è un argomento sufficiente per votare Macron, come Stiglitz spiega. Anzi: quelli che l’attuale paesaggio lo hanno in odio, possono trovarvi un motivo in più per votare la destra lepenista. Ma è comunque sbagliato ragionare solo sulla base delle percentuali che la Le Pen raccoglierà nelle urne. Quale che sia l’esito del voto, una minaccia latente graverà sul corso della politica europea finché i suoi nodi strutturali non saranno risolti. Tirato il sospiro di sollievo per la vittoria di Macron (posto che davvero andrà così) non verranno meno le ragioni dello spavento. All’indomani del primo turno, lo dichiarava il Presidente Hollande: i sette milioni e mezzo di francesi che hanno votato Le Pen non evaporeranno sol perché Macron ce l’avrà fatta (posto che davvero ce la faccia). Stiglitz auspica per questo una riforma sociale del capitalismo, che considera l’unica risposta seria al pericolo populista. Forse, aggiungo, andrebbe accompagnata da una ripresa robusta del processo politico europeo di integrazione. Anzi: da una sua più coraggiosa reinvenzione.

Il secondo punto è più sottile, ma non meno importante. Poniamo che l’alternativa sia: prendersela con gli altri, piuttosto che con se stessi. Ebbene: non sarebbe una pia illusione pensare che, in una tale ipotesi, gli elettori se la prenderebbero con se stessi? Socrate pensava che è più giusto subire che commettere ingiustizia, ma si può chiedere non a un filosofo ma a ciascuno e a tutti noi di ragionare come Socrate e bere la cicuta? Non si cadrebbe in un vizio di idealismo imperdonabile, nella solita chiacchiera illuministica che ignora la vita reale dei popoli? Se dunque si offre all’opinione pubblica un nemico, il nero l’immigrato il musulmano (e con la Le Pen c’è purtroppo ancora da aggiungere l’ebreo, temo), cosa bisogna pensare, per essere realisti e non farsi illusioni, che accada?

Quel che accade, lo si vedrà al secondo turno. Si vedrà se prevarranno i sentimenti di chiusura, lo sciovinismo, la paura dell’altro, il rifiuto della libera circolazione di beni, servizi, persone e idee, su cui si fonda, pur con le sue storture e brutture, il mercato mondiale (e insieme – si badi – il suo grado di civiltà). Stiglitz sostiene che le paure che circolano nella società francese, ed europea, sono fondate, e che non le si può semplicemente ignorare. Ha perfettamente ragione. Se per giunta una buona parte degli elettori della sinistra estrema di Mélenchon non sosterranno Macron, vuol proprio dire che il punto di rottura della società francese è pericolosamente vicino. Ma il sentiero del riformismo che Stiglitz invita a perseguire, prima ancora di essere profondo o radicale, come un New Deal europeo o come un nuovo piano Marshall per le infiacchite economie del continente, bisognerà che sia almeno nutrita di un’ultima, forse residuale illusione: che non sempre e non necessariamente scatta il meccanismo del capro espiatorio. Se invece si concede ai nemici della società aperta che diritti fondamentali e valori illuministici di progresso, razionalità, libertà sono sempre astratti, sempre freddi oppure tecnocratici, buoni solo per le élites e comunque sempre lontani dai veri bisogni (una volta si diceva con una parola soltanto: borghesi), allora si finirà davvero a mal partito. Magari non in un dibattito televisivo o in un confronto politico, ma sicuramente sul piano delle idee e della battaglia culturale. Ben oltre il voto di domenica. È, questa, una concessione che non si deve fare. Una concessione che, più ancora di Macron, è l’Europa che non deve fare, se non vuole rinnegare se stessa.

(Il Mattino, 5 maggio 2017)

La voglia di riformismo non è morta

tiorba

Anche a Napoli (e anche in Campania) si riparte da Renzi. E la domanda da porre al neo-segretario del Pd è dunque: e adesso? E adesso è la volta che imbraccerà veramente il lanciafiamme? Ed è quello che davvero ci vuole? La metafora che Renzi ha usato in passato esprimeva tutta l’insoddisfazione del segretario nazionale del partito per i risultati del Pd napoletano. Ma oltre l’insoddisfazione Renzi non era andato, in realtà: non erano seguite prese di posizione rispetto ai gruppi dirigenti, non era stata scelta la via drastica del commissariamento, non si era scelto né di tagliare i rami secchi né di coltivare i deboli germogli di rinnovamento comparsi qua e là. Un’opera di rimozione, più che di rottamazione.

La ragione è presto detta: il Renzi rottamatore che nel 2013 prende le redini del partito democratico decide, a Napoli e nel Mezzogiorno, di assecondare le dinamiche locali, piuttosto che di sovvertirle. È una scelta compiuta in stato di necessità (Renzi arriva al governo senza nemmeno passare per il voto popolare), ma anche una scelta dettata da una certa sottovalutazione della funzione del partito nella selezione delle classi dirigenti. Così il Pd renziano si limita da queste parti a sommare quello che c’è, bello o brutto che sia. E quello che c’è ha ovviamente tutto l’interesse a perpetuare lo status quo: non potrebbe essere altrimenti.

Ora però comincia il secondo tempo della partita che Renzi giocò quattro anni fa, e non tutto è rimasto uguale a prima. A tacer d’altro, di mezzo ci sono state le sconfitte alle amministrative di Roma e Torino, che in fondo hanno seguito Napoli nel consegnare il Municipio a una formazione populista. Qui De Magistris scassò tutto già nel 2011, ed entrò a Palazzo San Giacomo; a Roma e Torino è accaduto lo scorso anno, con la Raggi e l’Appendino. E così si è fatta drammaticamente evidente l’usura delle classi dirigenti locali. Scegliere dunque di sostenersi sul notabilato che in periferia racimola voti ma non produce egemonia – come si sarebbe detto una volta – si rivela essere una scorciatoia sempre più stretta e sempre meno praticabile.

Il voto napoletano dimostra tuttavia che anche in questa città resiste un elettorato di sinistra che continua a votare il Pd e a riconoscersi in una proposta politica riformista, di respiro e formato nazionale ed europeo, una prospettiva che difficilmente De Magistris può assicurare. Il punto è come svincolare questo risultato da una geografia di stampo localistico, e congiungerlo al resto del Paese. Se De Magistris è impegnato a costruire un meridionalismo “contro”, questo voto consente a Renzi e al partito democratico di costruire un nuovo meridionalismo “per”?

Ora Renzi può davvero prendere il lanciafiamme? Nella sua versione precedente, quell’arma non ha sparato un colpo, e cambiare tutto per non cambiare nulla è stata la fatale conseguenza di condizionamenti da cui la segreteria Renzi non ha saputo affrancarsi. Il voto di ieri dà al neo-segretario un’indubbia forza: a Napoli e nel Paese. Gli dà anche un obiettivo: impegnare quei voti per tornare a collegare il Sud all’Italia e all’Europa, invece di contrapporlo in una prospettiva ribellistica e rivendicazionista. Cambierà anche il partito, di conseguenza, se non altro perché quel pezzo che pensa che essere di sinistra obblighi a parlare con De Magistris dovrà venire a un chiarimento definitivo.

(Il Mattino, 1° maggio 2017)