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Buon compleanno!

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(l’articolo che ripubblico sotto è uscito su il Mattino il 9 maggio del 2007. Oggi compie dieci anni, e voglio festeggiarlo. Non perché fosse gran che, ma perché dopo dieci anni sono un po’ stanchino, e devo quindi non fermarmi, ma almeno riflettere un po’. Si trattava dei Dico, che non ce la fecero a diventar legge, mentre è un anno che abbiamo le unioni civili, un altro compleanno che vale la pena festeggiare):

Le dichiarazioni del ministro Bindi stanno suscitando, senza particolare motivo, grande scalpore. Il ministro ha infatti dichiarato di non avere invitato alla conferenza nazionale sulla famiglia “i destinatari della legge sulle convivenze” (Dico). Ha poi dichiarato di avere esortato gli organizzatori del Family Day a non dare alla manifestazione di sabato prossimo il senso di una protesta contro quella legge, perché i Dico “non c’entrano nulla con la famiglia”: c’entrano invece con i diritti individuali delle persone conviventi. In queste dichiarazioni non c’è nulla di nuovo rispetto al punto di mediazione che era stato raggiunto al momento della presentazione del disegno di legge. Rosy Bindi aveva firmato il progetto proprio perché a suo giudizio la legge sulle convivenze non disegna un altro istituto accanto all’istituto familiare tradizionale. In questo modo, s’era difesa dalle accuse piovutele addosso dal mondo cattolico, e che ancora continuano a pioverle. Le sue parole di questi giorni sono semplicemente conseguenti: mettono in evidenza senza troppi infingimenti quel punto. E squarciano il velo di molta ipocrisia. La maggioranza, che ha considerato i Dico un compromesso accettabile tra gli impegni assunti nel programma elettorale e i rapporti di forza in Parlamento, non può ora stupirsene senza rischiare di compromettere ulteriormente il cammino di una legge di fatto non ancora instradata. Al ministro Ferrero, che a seguito delle dichiarazioni della Bindi afferma di trovare inopportuna la sua partecipazione alla conferenza nazionale sulla famiglia, si può dunque chiedere come abbia potuto trovare in precedenza opportuna la legge di cui quelle dichiarazioni sono diretta espressione.

Rimane da considerare come sarebbe questo paese se potesse liberarsi dall’ipocrisia con la quale solitamente affronta questo genere di dibattiti. È vero che l’ipocrisia, che nell’ambito delle relazioni personali non è propriamente una virtù, è spesso una necessità nell’ambito dei rapporti politici. Siamo il paese che con Torquato Accetto ha teorizzato la dissimulazione onesta, e sappiamo che si può tenere una misura di prudenza senza cadere nella menzogna. Nel caso però delle dichiarazioni del ministro Ferrero siamo forse dinanzi ad una forma di ipocrisia al quadrato. La prima ipocrisia consiste infatti nel non riconoscere la natura del compromesso da cui sono nati i Dico; la seconda nel fingere di accorgersene solo ora. Si può essere accomodanti oppure intransigenti: non si può però essere, o fingere di essere, l’una e l’altra cosa.

C’è poi un’ultima ipocrisia. Le politiche per la famiglia, che tutte le forze politiche dichiarano di voler irrobustire, sono dirette ad un oggetto – la famiglia, appunto – che è profondamente mutato nel corso degli ultimi decenni. Se ne può pensare bene o male, non si può far finta che ciò non sia accaduto, e non sarà aggrapparsi a un nome ciò che procurerà un’identità compatta e senza sbavature a realtà ormai abbastanza diversificate. François de la Rochefoucauld diceva che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Nelle società democratiche si può sperare che ciò a volte non accada; e poiché l’omosessualità non è più un vizio, forse non ha neppure bisogno della virtù di un nome per essere accettata. Se dunque la legge sui Dico è un passo in direzione di un più ampio riconoscimento dei diritti, sarebbe comunque ora di compierlo, invece di scandalizzarsi o dare scandalo.

(Il Mattino, 9 maggio 2007)