Archivi del mese: giugno 2017

A Matteo critiche vecchie. Alleanze inutili col proporzionale

PRESENTAZIONE DEL LIBRO QUEL CHE RESTA DI MARX

Cosa significhi reinventare un «partito popolare e nazionale, un partito della nazione», dentro un nuovo sistema proporzionale, dopo venticinque anni di seconda Repubblica? «È tutto da vedere», mi risponde Giuseppe Vacca, storico presidente della Fondazione Gramsci, ma di certo non è cosa che si vedesse dai commenti seguiti al voto amministrativo di domenica.

«Secondo me i commenti risentono ancora di un clima e di uno stile formatosi durante gli anni della seconda Repubblica. Non ci si rende conto che il maggioritario è finito. Un ciclo politico è compiuto. Qualunque proiezione sul futuro di dati che provengono da elezioni amministrative è perciò da prendere con le pinze. Tanto più che, in generale, è difficile comparare e proiettare il voto delle elezioni amministrative sul piano politico nazionale».

Eppure son tutti lì a ragionare di coalizioni e schieramenti, anche solo per mettere in difficoltà Renzi. Prodi prova a incollare i pezzi del centrosinistra. Orlando chiede primarie di coalizione. Veltroni dice no all’autosufficienza.

Però Il modo in cui si forma l’orientamento dei cittadini verso (o contro) la politica prescinde largamente da questa discussione. Le prossime elezioni si faranno con una legge proporzionale. Con il proporzionale i governi si formano in Parlamento, molto più che col maggioritario. Gli elettori votano per il partito preferito da ciascuno. Quello che poi determina gli equilibri di governo è la qualità, l’efficacia dell’offerta politica.

D’Alimonte su «Il Sole 24 Ore» scrive che il voto di Genova, di Sesto San Giovanni, di Pistoia (ma anche di Padova, che è andata al Pd) dimostra che ormai tutto è contendibile.

L’unico dato generale e generalizzabile è che hanno perso tutti. È un ulteriore segnale di sgretolamento, di frana: non dico nemmeno di un sistema di partiti, ma di un paesaggio politico. Soprattutto nelle elezioni locali, è ancora più difficile parlare di partiti, che non svolgono più alcuna vera funzione rappresentativa. Dire allora che il centrodestra quando è unito vince, può vincere, è persino ovvio, prevedibile e in verità anche previsto, in situazioni come quelle liguri, di Genova o Spezia, che conosco da vicino. Ma questo cosa ha a che fare col tema di come prepararsi alle elezioni politiche?

Cosa allora vi ha a che fare? Nell’editoriale che ho scritto ieri, ho provato anch’io a mettere da parte le mere sommatorie elettorali e a indicare nelle questioni europee il terreno decisivo della sfida.

Innanzitutto la parte maggioritaria dell’elettorato deciderà in base al bilancio su cinque anni di governo Renzi-Gentiloni: come si fa a ignorarlo? E l’intera legislatura è stata incentrata sul nesso fra Italia ed Europa. Ebbene, è da vedere come si costruirà l’agenda europea dopo le elezioni tedesche e soprattutto chi darà le carte. Da noi conterà la capacità di dire veridicamente ai cittadini, senza imbrogliare, come e perché determinati problemi sono problemi europei.

Ma se è il rapporto con l’Europa a determinare l’agenda, non è complicato per i democratici immaginare dimettere insieme una coalizione di centrosinistra, in vista di una futura alleanza di governo? Dove sono i «buoni europei», a sinistra del Pd?

Ma non è questione di sinistra o destra. I cittadini votano in base ai problemi i più diversi, alle esasperazioni più diffuse, a insoddisfazioni, interessi corporativi, o anche a grandi visioni e grandi narrazioni. Non credo che i cittadini siano molto appassionati di queste categorie di destra/sinistra. Certo c’è una storia, una sedimentazione di valori, ceti politici diversi, culture diverse, che si dicono di destra o di sinistra. Ma non se ne può parlare in base a semplici etichette. È evidente che c’è una certa continuità in un arco di forze che va dai moderati di centro fino a Pisapia: ma a che serve cominciare dalle etichette? È questo il problema che definisce l’agenda politica con cui si deve misurare una leadership?

Provo allora a fare l’avvocato del diavolo e ti chiedo: ma quelli che invece dicono che una forza di sinistra non può condividere strutturalmente l’impianto politico e istituzionale di questa Unione europea, che in essa istanze di sinistra non possono trovare spazio, che l’euro è l’equivalente di quello che sono stati Reagan e Thatcher negli anni Ottanta?

Se, per essere di sinistra, invece che di far pesare le questioni nazionali sul modo in cui si compone l’agenda europea, si tratta di dire: “questa Europa è fallita”, non condivido ma capisco: è legittimo. Ma poi chi dice così non si può mettere insieme con chi pensa: “ma come è fallita? Vediamo invece cosa realisticamente è successo, in base a una cartografia sobria, realistica, del mondo”. Come si fa a dire ad esempio, come fa Veltroni, che per essere di sinistra bisogna fare la lotta alla precarizzazione? La precarizzazione è il modo in cui si riflette sui governi e le nazioni di tutto il mondo questo tipo di globalizzazione. Ed è quanto meno un problema di dimensioni europee. Non possiamo parlare delle cose italiane a prescindere dal contesto. E il nostro contesto storico, economico, la parte che ci spetta in un concerto plurinazionale si decide in Europa. Quello diventa un grande discrimine. Aggiungo: chi ha cambiato il paradigma del rapporto con l’Europa, anche rispetto al centrosinistra degli anni passati, si chiama Matteo Renzi. Sembra poco ma non lo è. Prima si trattava sott’acqua: l’Europa era sentita come vincolo, invece che come responsabilità condivisa. Renzi ha invertito la tendenza. È ancora difficile e non è diventato ancora oggetto di un diverso racconto del Paese, ma questo è il tema.

Nel Novecento, l’essere di sinistra si definiva in base al contesto internazionale, e in base ai mondi sociali di riferimento: l’una e l’altra cosa. La mia impressione è che dopo l’89, essendo mutato il quadro internazionale, la sinistra ha sentito sempre meno la necessità di collocare istanze e rivendicazioni dentro un contesto più ampio di quello nazionale. Non ce la fa più. Prima, quando c’erano i paesi del socialismo reale, viveva quel rapporto come un motivo identitario, oggi lo subisce soltanto.

Diciamo però che quello che è stato importante nel comunismo italiano è il modo in cui ha cercato di interpretare l’interesse della nazione italiana. Per il resto, a parte il PCI, non c’è alcuna grande e gloriosa storia del comunismo in Europa. Però certo: oggi la declinazione dell’interesse nazionale è insieme la declinazione dell’interesse europeo.

Un’ultima cosa voglio chiedertela sul partito. A che punto è il “partito pensante” annunciato da Renzi durante il congresso?

Se devo trovare una connessione fra la leadership di Renzi è un universo identitario dico altro, dico il governo di questi cinque anni. Tutto il resto è da rifare. Ma il problema non è Renzi e nemmeno i suoi difetti. S’è fatto un Congresso due mesi fa: se ci fosse un’alternativa a Renzi sarebbe già emersa. Il Pd rimane però la forza centrale per come ha incorporato il nesso Italia-Europa. Non basta, ma è il punto al quale siamo.

Quel punto è parecchio condizionato dall’esito del referendum costituzionale.

Il referendum è stato uno spartiacque drammatico. Ma chi lo ha perso è il Paese. Si può discutere di come è stata condotta la campagna referendaria (male, almeno al 70%). Ma il referendum non era sul governo; era sull’ossatura politico-istituzionale di questo Paese, in pezzi da vent’anni. Ma dove sono le forze che provano a spiegare che il deficit di competitività di cui soffre l’Italia almeno dal 2001 è una conseguenza dell’impalcatura politico-istituzionale, e che il referendum serviva per spezzare la rete di interessi corporativi e diffusi che rendono molto difficile fare dell’Italia un Paese come la Francia o la Germania?

Già, dove sono queste forze? Saluto Beppe Vacca e noto che mantiene nella voce l’equilibrio fra l’analisi senza indulgenze dello stato del sistema politico e una certa serenità e fiducia nel prossimo futuro. Davvero il miglior commento delle sue parole è in quelle di Gramsci: «Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».

(Il Mattino, 28 giugno 2017)

Uniti si vince nei comuni ma non si governa

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Il dato è questo: il centrodestra ha vinto; il centrosinistra ha perso. Quanto ai Cinquestelle, hanno perso pure loro, ma siccome la loro sconfitta è maturata al primo turno, ieri è passata in secondo piano. Se è in questi termini che viene riassunto il risultato delle elezioni amministrative, colpisce che nessuno noti il paradosso che inficia buona parte delle interpretazioni circolate all’indomani del voto. Perché dalla vittoria del centrodestra si trae la lezione che quando va unito il centrodestra è ancora competitivo, ed è anzi in grado di espugnare roccaforti rosse come Genova, Pistoia o Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia. Mentre dalla sconfitta del centrosinistra si trae la lezione che il Pd di Renzi patisce l’isolamento in cui si è cacciato, rompendo a sinistra. Cioè, seguitemi: sia che si vinca, sia che si perda, la lezione è la stessa, che uniti si vince. Ma che lezione è questa, che viene comprovata da qualunque risultato? Non è una lezione, in realtà, ma è solo l’effetto di un sistema elettorale e di una partita locale che consentivano e anzi incentivavano il formarsi di coalizioni. Cambiate la legge elettorale, e soprattutto cambiate la posta in gioco, e non avrete più l’evidenza che oggi pare tanto indiscutibile quanto vuota di significato.

Sulla legge elettorale con la quale andremo al voto alle politiche non ci sono certezze, ma dopo il naufragio dell’accordo su un sistema simil-tedesco, è difficile immaginare che si trovi il modo di porvi mano (salvo piccoli aggiustamenti tecnici richieste per quel minimo di armonizzazione fra i sistemi delle due Camere che è possibile ottenere per decreto, su punti largamente condivisi). Cosa saranno allora le coalizioni che domenica vincevano o perdevano, quando non ci sarà nessun ballottaggio a dargli la spinta decisiva per conquistare il governo non di una città ma del Paese? Macron la rivoluzione del sistema politico l’ha fatta grazie al ballottaggio, qui da noi come la si farà? D’accordo, sono tempi volatili, in cui è possibile ipotizzare anche movimenti elettorali significativi, ma che centrosinistra e centrodestra ce la facciano da soli a conquistare la maggioranza è al momento ipotesi del terzo tipo. Quand’anche Berlusconi, Salvini e Meloni dovessero arrivare a un bel 35-40%, con quali altri pezzi arriverebbero più su, fino a quota 50,1%? Perché Salvini guarderebbe volentieri ai grillini, ma questi mai e poi mai accetterebbero di allearsi col Cavaliere. Il quale si volgerebbe invece verso il centro, ma vaglielo a spiegare a Salvini.

Quanto all’eventuale coalizione di centrosinistra, con o senza il vinavil di Prodi, ben difficilmente potrebbe aspirare a un risultato migliore. Prima dovrebbe mettere insieme una miriade di sigle di cui si è perso ormai il conto: da quelle parti il processo di riaggregazione non è ancora cominciato. Dopodiché, avendo tenuto dentro tutto e il contrario di tutto, con chi andrebbe a trattare un accordo di maggioranza, oltre il perimetro della sinistra? Una simile riedizione dell’Unione di prodiana memoria (dell’Unione, più che dell’Ulivo: il punto al quale era arrivata la frantumazione del centrosinistra prima del progetto dem era infatti l’Unione del 2006, e comprendeva almeno una dozzina di soggetti politici) sarebbe attraversata da un discrimine netto, fra quelli che un accordo coi moderati di centrodestra non lo farebbero mai, e quelli che in verità lo farebbero, avendolo peraltro già fatto.

Per correggere una così sconfortante rappresentazione dello scenario politico-elettorale – e soprattutto: per non lasciare che in questo guado ci rimanga in mezzo il Paese, lasciando che le forze populiste si ingrossino ancora, continuando a lucrarci su – c’è forse un solo modo: prendere sul serio la posta in gioco, l’altro elemento sul quale il voto di domenica, di carattere locale, non ha detto nulla. La posta in gioco è la posizione dell’Italia in Europa, e la capacità di regolare le questioni grandi dei prossimi anni – dall’economia all’immigrazione, dal lavoro alla difesa comune – passandole al setaccio del confronto europeo. È lì che si siederà il prossimo Presidente del Consiglio italiano: non in qualche Palazzo di città ma nei consigli dei Capi di Stato e di governo. Non solo, ma comunque si giudichino gli ultimi confronti elettorali nei paesi UE – dalla Brexit in poi –, è evidente che a deciderne l’esito, in un senso o nell’altro, è stata la posizione assunta rispetto agli impegni presi (o da prendere) con Bruxelles.

Che cosa allora significa oggi l’Europa, per l’Italia? Sarebbe bene che questa domanda, e le parole per istruirla, venissero prima della costruzione di coalizioni posticce, per cui succede che a destra festeggino uniti quelli che l’Euro affama il popolo e quelli che inneggiano al mercato unico, mentre dall’altra parte dovrebbero provare a rimettersi insieme quelli che non c’è spazio per la sinistra dentro questa Unione, e quelli che invece vogliono governarla insieme a Macron.

Sono proposte di fatto incompatibili. Le coalizioni di domenica scorsa – abbiano vinto o perso, come più vi piace – non hanno alcuna omogeneità rispetto alle grandi questioni europee ed internazionali. E se è vero che ha un costo riconoscerlo, è anche vero che solo affrontandolo si costruiscono profili politici credibili, che tornino ad essere attraenti per un elettorato stanco di vedere risse, balletti, polemiche e ripicche. Bisogna che i grandi partiti che intendono assumersi responsabilità di governo nel futuro prossimo declinino in termini chiari e forti le loro priorità, portando la sfida elettorale a un’altezza diversa da quella in cui si impelagano tutti i giorni, sforzandosi di offrire leadership, programmi e interpreti di una nuova stagione, e non semplicemente la riedizione di quelle vecchie.

Solo così quella ridicola discussione sulle sommatorie di partiti e percentuali retrocederà in secondo piano, e la scelta elettorale tornerà ad essere legata a un senso storico e politico generale, di medio-lungo periodo, che ridia significato e funzione a partiti, che nella mera gestione clientelare dell’esistente hanno ormai perduto ogni ragione d’essere e ogni legittimità.

(Il Mattino, 27 giugno 2017)

Fazio, i veleni e la verità perduta

Fazio gufo

La conclusione della telenovela Fazio (un contratto di 11 milioni per 4 anni) non è certo la conclusione della vicenda Rai. È, piuttosto, una cartina di tornasole del momento di difficoltà dell’azienda. Il nuovo direttore generale, Mario Orfeo, ha dovuto prendere una decisione in condizioni di necessità: a poche settimane dal suo insediamento, non poteva certo permettersi, per via del tetto degli stipendi sotto il quale non ci stava il contratto di Fazio, di perdere al buio uno dei volti storici della Rai, senza aver avuto il tempo di delineare strategie alternative. Il che però dimostra una cosa soltanto: che strategie alternative ci vogliono, che un’altra televisione deve essere possibile e che Orfeo dovrà cominciare a lavorarci. Va bene dire che Fazio è la Rai, ma solo se significa che Fazio è Fazio grazie alla Rai, e non viceversa che la Rai è la Rai grazie a Fabio Fazio.

Roberto Fico, il Presidente della Vigilanza Rai, ha scomodato una figura tradizionale dell’armamentario polemico populista: quella dei comunisti col cuore a sinistra e il portafoglio a destra. Detta da lui, non è chiaro però cosa sia più grave: che Fazio sia comunista (cioè di sinistra, comunista è solo l’espressione denigratoria), o che tenga al portafoglio. Questa comunque è attualmente la linea del Movimento Cinque Stelle, fatta di uscite demagogiche contro l’establishment delle banche, della Rai e dei partiti: cosa c’è di peggio, infatti, nel Paese?

Ma non è facendo di tutta l’erba un fascio che si potrà mettere mano a una ristrutturazione del servizio pubblico. Il servizio pubblico deve informare, deve realizzare prodotti di qualità nell’ambito dello spettacolo e dell’entertainment, deve offrire una palestra per nuove idee e nuovi programmi; deve tenere il passo dell’innovazione in un settore che la Rete sta profondamente rivoluzionando. Sono sfide enormi. La Rai viene dalle dimissioni del direttore editoriale Verdelli e dalla bocciatura del suo progetto di riforma e, poi, dalle dimissioni del direttore generale Campo Dall’orto, e dalla medesima disavventura toccata in sorte alla sua proposta editoriale. Cosa vorrà fare Orfeo? Ma più ancora ci si dovrebbe sintonizzare con un’altra domanda: cosa vuol fare il Paese della televisione? «Tra trent’anni – diceva Ennio Flaiano – l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la TV»: non stiamo parlando dunque dei capricci di una star, di stipendi fuori mercato o in linea col mercato, ma del centro nevralgico dello spazio pubblico che la tv generalista ancora occupa nel Paese. Coi suoi tredici canali televisivi, i suoi centri di produzione, le sedi regionali, i tredicimila dipendenti, stiamo parlando di un’azienda culturale che costituisce parte essenziale dell’identità nazionale.

Ebbene, in tutta la vicenda che ha riguardato il rinnovo del contratto con il volto più noto di Rai Tre (passato a Rai 1 con un robusto adeguamento di stipendio), il Paese ha discusso di cosa? Dell’enorme sperequazione fra gli stipendi di un divo della televisione e quelli di un normale lavoratore? (Sai la novità). Del rispetto della legge sul tetto massimo alle retribuzioni nel settore pubblico, e di come aggirarlo? Di limiti del mercato, di giustizia e moralità? Benissimo. Ma una volta che ci saremmo fatte le nostre opinioni sull’avidità o sulla professionalità di Fazio, non sarà il caso di guardare oltre il dito, al modo in cui si confezionano i programmi, si produce informazione, si mescola informazione e intrattenimento, si mescola informazione, intrattenimento e chiacchiera nei talk show, e insomma si rinuncia alla pretesa, nientemeno, di dire la verità?

L’ho detta grossa? La verità è un fuoco bimillenario che si è ormai spento del tutto, come diceva il filosofo? Ma se non si capisce più se “Che tempo che fa” di Fazio sia un programma giornalistico o uno spettacolo, e il suo conduttore artista o giornalista, se addirittura questa confusione di spazi e di generi di discorso viene rivendicata, non sarà – oltre che per la faccenda dei compensi – perché si è rinunciato da tempo al dovere di dire la verità – le cose come stanno? Di cercarla, certo, di discuterne criticamente e di dare voce al pluralismo delle interpretazioni, ma senza per questo astenersi dal tentativo di accordare l’opinione alla verità, le parole alle cose, i segni ai significati. Perché con la scusa di fare gli scettici, gli ironici e i postmoderni facciamo finta di ignorare che la rinuncia alla verità è, molto spesso, solo un’ammiccante ipocrisia verso il padrone di turno. Baudrillard diceva che per la televisione, «il mondo è solo un’ipotesi come un’altra». Ecco: a volte sembra che in Rai si voglia a tutti i costi dare ragione a Baudrillard, e torto al mondo.

Prendete Santoro, al suo ennesimo ritorno televisivo, che l’altra sera ha provato a spettacolarizzare il mostro: Hitler. C’erano in trasmissione le opinioni autorevoli, ma c’erano pure le opinioni da bar; c’era una nuova mescolanza dei generi, non però per produrre quelle evidenze che nascano solo dal cozzo fra i linguaggi, ma per allestire una posticcia confusione teatrale. Una sorta di wagnerismo di cartapesta, di teatro nell’accezione più enfatica e più melodrammatica del termine.

Ma che discorsi sono questi!, dirà il mio benevolo lettore. Senza sapere che un tempo erano questi i discorsi che si facevano, e che si dovrebbe tornare a fare. Non per avere stipendi più bassi: quelli devono dipendere da una politica che l’azienda può darsi, come può darsela perfino una squadra di calcio, senza necessariamente finire in zona retrocessione. Ma per avere consapevolezza di cosa significhi fare televisione, parlare al Paese, fornire notizie e fare vero approfondimento. Mobilitando energie creative e intellettuali, costruendo argini di autorevolezza, mettendo nuovi programmi tra le mani di nuovi professionisti, un po’ meno leccati o meno imbolsiti di quelli che, gira e rigira, tornano sempre di nuovo.

(Il Mattino, 25 giugno 2017)

Lo Stato di diritto muore. Il Pd gli prepara il funerale.

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Porre un limite all’esercizio dei pubblici poteri è l’essenza dello Stato di diritto. Con l’approvazione delle modifiche al codice antimafia, in discussione al Senato, quel limite rischia di impallidire. Per malintese ragioni di sicurezza, in realtà per la forza che continuano ad avere sulla politica italiana le ragioni della piazza. E ciò avviene per opera del Partito Democratico, che pure avrebbe nella sua identità una matrice liberale, in materia di diritto. Ma prevale su tutto l’emergenza; e prevale, soprattutto, l’incapacità delle forze di maggioranza di mettere un argine al populismo giustizialista.

Per convincersene, basta guardare cosa c’è dentro le misure che il Senato si appresta a votare. Esse riguardano l’estensione alle indagini su tutti i reati contro la pubblica amministrazione, compreso perfino il peculato, dei sequestri e delle confische previste in via cautelare dal codice antimafia.

Questi interventi – si è sempre detto – si rendono necessari per colpire le mafie nel loro portafoglio, che è l’unica maniera di combatterle seriamente. Ed è vero: bisogna seguire la pista del denaro. Ma vi sono alcuni elementi sui quali è necessario riflettere: le dimensioni raggiunte dai provvedimenti di sequestro, anzitutto, che sono notevolissime (17.800 imprese, per un fatturato di circa 21 miliardi di euro); la gestione di questa massa di beni, poi, che purtroppo si è rivelata assai opaca (eufemismo); le imprese sequestrate e confiscate, infine, che non riescono a stare sul mercato e raramente sono in grado di sopravvivere al ciclone dell’amministrazione giudiziaria. Un vero fallimento, col quale si finisce per ottenere il contrario di quel che si voleva, dimostrando che lo Stato funziona peggio di quanto funzionino invece i circuiti dell’economia illegale.

Ma chi abbia un minimo di sensibilità giuridica non può non rimanere colpito da un punto decisivo, che viene innanzi a tutti questi: che le misure in questione vengono prese in presenza di indizi di colpevolezza ma in assenza di un giudicato, e con possibilità di difesa e di opposizione molto, molto limitate. Quella che così viene delineata non è una soluzione difendibile in un ordinamento di impronta liberale, ma è adottata di fatto, in via emergenziale, tant’è vero che costituisce una specialità tutta italiana (che gli altri Paesi, contrariamente a quel che a volte si sente dire, non ci invidiano affatto, e infatti non utilizzano). Per giunta, si tratta di quelle emergenze perenni, che durano decenni, e che nel tempo prendono dimensioni abnormi e, spesso, incontrollate.

Ebbene, di questo sistema cosa viene in discussione oggi? La possibilità di ampliarlo ulteriormente. Di estenderlo ben oltre i confini della lotta alla criminalità organizzata, colpendo anche gli indiziati di delitti contro la pubblica amministrazione: la corruzione, la concussione, finanche il peculato. Deve essere chiaro che parliamo di indiziati, di cui si sostenga la pericolosità sociale, non di colpevoli. Il principio ispiratore è, in breve, che ovunque vi siano accumulazioni di ricchezze “probabilmente” illecite, lì deve poter arrivare la mano non della giustizia, ma del procuratore. Sulla base di una prognosi di pericolosità che in nome della sicurezza amplia l’ambito delle misure di prevenzione, restringe il principio di legalità, mortifica i diritti costituzionali alla proprietà e alla libertà di iniziativa economica. E fa sferragliare quell’enorme carrozzone che è stato finora l’Agenza nazionale dei beni confiscati.

Ma come si fa a dire no, se si tratta di lottare contro la corruzione? Chi dice no, non vuole lottare: questo deve essere il sottinteso che spinge il capogruppo al Senato del partito democratico, Luigi Zanda, a escludere ogni ripensamento in materia. Come se si trattasse di allontanare da sé, e dal partito, il sospetto di immoralità, di connivenza con il malaffare, di indecente tolleranza nei confronti del delitto. Così bisogna fare la gara coi populisti nel dimostrare che, nella lotta alla corruzione, sono solo gli avvocaticchi e gli azzeccagarbugli, i causidici e gli intrallazzatori quelli che si mettono di traverso.

Gli avvocaticchi, gli azzeccagarbugli, e Berlusconi. Questo, infatti, è il panno rosso che «Repubblica» agita dinanzi al toro dell’opinione pubblica rispettabile e di sinistra, per spingere la legge: mette da una parte la parola «antimafia», che porta con sé l’idea di una cosa che va fatta e non può non esser fatta, senza indebolire in maniera inaccettabile il fronte della lotta alla criminalità organizzata, e dall’altra associa a dubbi e perplessità sul provvedimento il nome dei berluscones che si muovono felpati nei corridoi di Palazzo Madama, senza mancare ovviamente di evocare i processi ancora in corso a carico del Cavaliere. Come se appunto le manovre in Parlamento a cui il Pd non dovrebbe prestarsi riguardassero la possibilità che l’approvazione della legge minacci le proprietà di Berlusconi.

Dopo vent’anni e più, il totem dell’antiberlusconismo, grazie al quale è stato costruito l’impasto di populismo e giustizialismo che domina la scena politica italiana, evidentemente funziona ancora. D’altronde, come si può spiegare altrimenti il fatto che il partito democratico continua a subire la fiumana retorica a cinquestelle, se non perché certi germi li ha incubati nel suo seno? Questa idea che il diritto può essere messo da parte, se si tratta di mandare a casa i ladri e i corrotti, è il leit motiv di qualunque intervento grillino in materia di politica della giustizia. Ma quali idee alternative ha il partito democratico, e quanto deve temere di tirarle fuori, se il semplice accostamento del nome di Berlusconi basta a frenarne qualunque spirito critico, e a farsi paladino di misure giacobine, manifestamente illiberali?

(Il Mattino, 23 giugno 2017)

Europa. Topologia di un naufragio.

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Metto qui il link alla discussione dell’ultimo libro di Vincenzo Vitiello, Europa. Topologia di un naufragio (Mimesis, 2017) tenutasi lo scorso 8 giugno:

http://www.treccani.it/webtv/videos/Conv_Europa_Vitiello.html

Il tema del progresso secondo un filosofo e uno scienziato

 

EXPO 1900

Edoardo Boncinelli è il più noto biologo italiano. Gli capita di frequente di finire in qualche traccia dell’esame di Stato. È successo anche questa volta, la terza. «Evidentemente c’è qualcosa, nel mio modo di scrivere, che piace al Ministero» dice, tra il divertito e il compiaciuto. Così gli chiedo di riproporci la riflessione che il Miur ha scelto per il tema di ordine generale, sulle diverse forme e velocità del progresso.

«Di progresso si parla da almeno due secoli. La domanda che tutti ci facciamo, alla quale rispondeva il mio articolo, è: come mai in certi ambiti si progredisce tanto, mentre in altri così poco e così lentamente, anzi sembra a volte che torniamo indietro? È un tema cruciale. Io distinguo un progresso esterno, e uno interno. Il progresso esterno è veloce; quello interno è lento perché dipende dalla biologia, che per sua natura è lenta. In aggiunta a questo, do un elemento di riflessione attualissimo: molto presto l’uomo sarà in grado di modificare il proprio genoma, e quindi avrà la possibilità di scegliere la direzione in cui andare».

Il progresso esterno, per Boncinelli è il progresso materiale, tecnico, scientifico. Quello interno è morale, individuale e biologico. Che la morale sia una faccenda solo individuale, e che dipende da determinanti di carattere biologico a me non pare così ovvio. E neppure che non vi siano linee di progresso in ambito morale e civile.

Non sono d’accordo. Una cosa è sapere; un’altra sapere comportarsi. Io posso sapere tutto e comportarmi male. A differenza di quello che diceva il povero Socrate, per il quale se so le cose come stanno le faccio anche, la verità è proprio l’opposto: sono due cose completamente separate.

Non siamo d’accordo anche su un altro punto. Boncinelli scrive che le civiltà possono essere civili o civilissime anche se non tutti i loro membri si comportano «come si deve». Sembra che la creatività individuale – la «devianza di taluni singoli», si legge nelle linee di orientamento sulle tracce – sia o possa essere solo elemento negativo di disturbo, di disordine: di immoralità, insomma.

L’individuo è capace di tutto. Lo pensava Hannah Arendt: a fare il male non ci vuole nulla; a fare il bene ci vuole un sacco di fatica. Ma voglio chiarire: quello che a me fa paura è la devianza comportamentale, non la devianza concettuale. Dal punto di vista conoscitivo i geni sono proprio quelli che fanno un passo di lato; ma questo, se funziona, poi viene riassorbito dall’avanzamento culturale generale»

Siccome il tema della natura si trova anche nelle altre tracce, provo a chiedere a Boncinelli cosa pensa delle proposte di quest’anno.

Complessivamente non mi sembrano brutte tracce. Hanno due pregi: parlano di cose di oggi e lasciano al candidato una grande libertà. Le tracce che imprigionano non vanno bene. E poi il tema della natura davvero non poteva mancare.

Nella prima traccia è richiesta l’analisi di una poesia di Giorgio Caproni, sul tema del rapporto dell’uomo con l’ambiente. Tutto precipita nel verso finale (Come/ potrebbe tornare a esser bella,/ scomparso l’uomo, la terra»), col suo sublime paradosso: per chi o per cosa, infatti, sarebbe bella la terra, una volta scomparso l’uomo? Ma i versi che colpiscono me sono altri: «il galagone, il pino:/ anche di questo è fatto/ l’uomo». Gran bel capoverso! L’uomo è fatto: del galagone, del pino, del lamantino?

Io sono un biologo. Per me è ovvio che noi non solo discendiamo da altre specie viventi, ma siamo in stretto e quotidiano contatto con loro. Del resto, cosa c’è che ci rende comprensibili a noi stessi se non l’osservazione animale? L’alternativa sarebbe studiare gli angeli, ma gli angeli non ci sono!»

Però un’altra alternativa forse si affaccia, nel mondo contemporaneo. Ed è quella di studiare le macchine. Il saggio di argomento tecnico-scientifico, sulla robotica, prova a suggerirlo.

Le macchine ci dicono alcune cose utili, ma non ci dicono il nocciolo del problema, perché sistematicamente scopriamo che affrontano situazioni e risolvono i problemi in modo diverso da come lo fanno gli esseri viventi. Questa è una lezione importante.

Lei dunque dice che le ricerche sull’intelligenza artificiale non possono arrivare fino a una simulazione completa dell’intelligenza umana?

No. Dico un’altra cosa. Le macchine imparano, ma imparano in maniera completamente diversa dal modo in cui impariamo noi. Si può simulare l’essere umano, ma lo si può simulare anche facendo cose completamente diverse.

E la Soft Robotics di cui parla uno dei documenti forniti agli studenti? Quali sviluppi possiamo attenderci dalla costruzione di robot con parti morbide, malleabili, deformabili, adatte a vari contesti? Noi siamo ancora abituati ad associare alla macchina, al robot, all’intelligenza artificiale l’idea opposta (non umana, né “intelligente”) della rigidità.

Effettivamente la robotica sta cambiando. Riusciamo a fare parti “meccaniche” con materia organica, quindi facilmente assimilabili dal nostro corpo. È una prospettiva molto interessante, alla quale non siamo ancora abituati a pensare. Lentamente, senza fretta, bisognerà cominciare ad abituarcisi. Temo le mode giornalistiche. Ma quando saranno realtà, bisognerà capire che i robot sono un aiuto, e non necessariamente una fotocopia degli esseri viventi.

Al Parlamento europeo si è cominciato a riflettere sui risvolti etici della diffusione delle macchine, introducendo concetti come la responsabilità civiche delle macchine, lo status giuridico delle persone elettroniche…

Secondo me sono nozioni ancora fantascientifiche. Mi posso sbagliare, perché non è il mio campo, ma siamo lontani. Anche se prima o poi arriveranno».

Posso chiederle un’ultima riflessione sulla tecnica in generale, com’è presente nei documenti di questa prima prova? La tecnica rappresenta una minaccia o un’opportunità, toglie posti di lavoro o ne offre di nuovi, distrugge o crea? Non mi sembra che la traccia suggerisca però, più radicalmente, che l’uomo in realtà non è un’altra cosa dall’uomo e dalla sua natura.

La tecnica aiuta e crea. Noi demonizziamo, soprattutto in questo Paese, la tecnica, perché pensiamo che esista l’anima, che però nessuno ha mai incontrato. Direi anzi di più: l’uomo è la tecnica. Pensi che la prima definizione di uomo non è anatomica o fisiologica, ma si rifà alla capacità di costruire strumenti. La tecnica è definitoria dell’essere umano.

C’è infine, nei testi dell’esame, un celebre passo di Leopardi, tratto dalle «Operette morali». La natura, nel dialogo con un islandese, dice: pensi tu davvero che il mondo sia fatto per causa dell’uomo? Questa critica dell’antropocentrismo con cui guardiamo tradizionalmente la natura si può far risalire a Lucrezio o a Spinoza, ma io le chiedo: quanto è invece ancora pensiero nostro, oggi, dei nostri ragazzi?

Io ne ho appena scritto insieme a Giulio Giorello [«L’incanto e il disinganno», Guanda]: Leopardi è di una modernità bruciante. La natura però, gliela dico così, si fa i cazzi suoi. Solo che a noi questa idea non piace.  Quanto ai ragazzi, seguono il mercato. Il mercato dice che tutto ciò che è naturale è bene, tutto ciò che è naturale è male. E questa è una cretinata.

(Il Mattino, 22 giugno 2017)

L’altra faccia della gogna

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Tanto tuonò che piovve. Per presunte irregolarità che graverebbero non solo sull’inchiesta Consip, ma anche su quella che ha riguardato, circa due anni fa, la cooperativa Cpl Concordia, il Consiglio Superiore della magistratura ha aperto un’indagine, affidata alla prima Commissione: quella che si occupa, in particolare, di trasferimenti d’ufficio per incompatibilità ambientale. Sotto osservazione finisce dunque il lavoro del Pm John Woodcock, titolare di entrambe le inchieste.

Cosa hanno che non vanno, quelle inchieste? È presto per dirlo, e comunque non compete al Csm occuparsene nel merito. Ma le similitudini sono impressionanti, e gettano dubbi serissimi sul metodo di conduzione delle indagini. Perché nell’uno e nell’altro caso ci sono state fughe di notizie clamorose, che hanno provocato enorme rumore nell’opinione pubblica, giungendo a lambire tutte e due le volte Matteo Renzi. Nell’uno e nell’altro caso si sono trovati errori: causali o no che fossero (e francamente viene sempre più difficile crederlo), quegli errori non erano privi di conseguenze, ma anzi giustificavano le qualificazioni giuridiche dei fatti che potevano autorizzare da un lato il mantenimento della competenza in capo alla procura napoletana, dall’altro l’uso esteso di intercettazioni che a prescindere da qualunque rilevanza penale arricchivano il racconto mediatico. E tutte e due le volte c’è stato in seguito passaggio di competenze; nel caso delle opere da affidare alla Cpl Concordia non ci sono poi stati i tanto attesi sviluppi giudiziari; nel caso di Consip ancora non si sa.

Ma quello che si sa, evidentemente, è già abbastanza perché il compassato Csm non se ne stia più semplicemente alla finestra. C’è  il timore che in una Procura della Repubblica italiana si cucinino con enorme spregiudicatezza prove per portare avanti inchieste che toccano i più alti vertici dello Stato: l’organo di autogoverno della magistratura ha il dovere di intervenire con ponderatezza ma anche con la massima tempestività, come si usa dire. È difficile, infatti, immaginare un motivo di conflitto tra politica e giustizia più grave di questo.

Il punto vero però non è Renzi, il padre Tiziano o i petali del giglio magico. E non è neppure Luca Lotti, investito dalla grave accusa di aver informato l’ad di Consip Luigi Marroni dell’esistenza di un’indagine che lo riguardava. Ieri in Senato, il ministro dello Sport e il partito democratico hanno tirato un gran sospiro di sollievo, perché mentre i bersaniani di Mdp sparavano ad alzo zero contro Lotti, esponenti del centrodestra votavano insieme con la maggioranza la mozione che impegnava il governo a rinnovare i vertici della Consip. È evidente che in quest’ultimo scorcio di legislatura i fuoriusciti dal Pd provano a dimostrare che può esistere una formazione politica a sinistra dei democratici, e che anzi il Pd di Renzi ha poco o nulla il cuore a sinistra, tanto è vero che prende i voti del centrodestra e si prepara a governare con Berlusconi. Un pezzo di questa dimostrazione si è voluto fornire ieri.

Ma tutta questa partita giocata sullo spartiacque rappresentato ormai quasi per antonomasia da Matteo Renzi, poco o nulla c’entra con l’orgasmo giustizialista che raggiunge il suo acme sui media, piuttosto che nel luogo deputato dell’aula di tribunale. Se si fa lo sforzo di proseguire la lettura dei quotidiani oltre l’attualità politica, fino alle pagine di cronaca, ecco infatti quel che si trovava ieri: che per le presunte tangenti su appalti Trenitalia sono andati assolti tutti e tredici gli imputati che avevano dovuto affrontare il processo. Eppure sette anni fa erano fioccate accuse pesanti a carico di dirigenti e imprenditori. Ed erano state spiccate ordinanze di custodia cautelare per alcune delle persone coinvolte. L’anno dopo, nel 2011, era cominciato il dibattito. Che ieri però si è conclusa con la formula: il fatto non sussiste.

Per dirla poeticamente: un altro sentiero che finisce nel nulla. Ma quanta sofferenza, e quanta ingiustizia ha prodotto l’indagine? Ieri l’ingegnere Raffaele Arena, uno di quelli che si svegliarono sette anni fa con la guardia di finanza alla porta di casa, pronta a tradurlo in carcere, ha raccontato a questo giornale l’angoscia, il dolore e la vergogna provata. Una vita distrutta, una carriera annientata, e il compagno di cella che ti dà una mano perché tu non dia seguito a propositi suicidi. Dinanzi a queste sventure, non si può rispondere che sono cose che capitano.  Non può capitare che qualche innocente ci finisca di mezzo per la cattiva convinzione che l’opinione pubblica sostiene, e a volte finanche acclama: che dove circola denaro pubblico c’è per forza corruzione, e politici e funzionari sono già solo per questo colpevoli, si tratta solo di beccarli. Questo giubilo che accompagna le accuse, quando si riversano sui giornali, è l’opposto della giustizia e del diritto. E siccome si alza quando gli imputati sono eccellenti, copre e giustifica tutte le storture del sistema: le intercettazioni irrilevanti date in pasto ai giornali, le indagini prive di concreti elementi di prova, le disfunzioni e i ritardi degli uffici, i processi che non finiscono mai. Ma chi ne soffre di più non sono i potenti, sono tutti gli altri. Anzi: siamo noialtri, e sono tutti coloro che rischiano di finire stritolati dalla presunzione di colpevolezza che purtroppo finisce per accompagnare ogni processo.

(Il Mattino, 21 giugno 2017)

Se la vendetta sfida la civiltà

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Quanto peggiorerebbe la nostra vita se la risposta al terrorismo di matrice islamista fosse anch’essa di natura terroristica? Non più soltanto livelli di sicurezza più elevati o proclamazioni dello stato di emergenza, leggi antiterrorismo e inasprimenti di pene, ma un’escalation di terrorismo islamofobo, diretta contro la comunità musulmana?  Da ieri questa eventualità, terribile e angosciosa, si è fatta possibile. Ieri un uomo, Darren Osborne, ha lanciato il suo veicolo contro una folla formata da fedeli musulmani, in una zona a nord di Londra, Finsbury Park. Il furgone ha mietuto una vittima, e fatto una decina di feriti, alcuni dei quali gravi. Odio, risentimento e spirito di vendetta. Ma cosa accadrebbe, se questi sentimenti e stati d’animo si diffondessero come un virus tra la popolazione? Cosa accadrebbe se la risposta al camioncino lanciato sul London Bridge, qualche settimana fa, o all’autocarro che fa strage sulla promenade des Anglais di Nizza, lo scorso anno, fossero altre automobili, lanciate questa volta contro fedeli all’uscita di una moschea? Quasi nelle stesse ore in cui Londra veniva nuovamente insanguinata, a Parigi, sugli Champs-Elysées, un uomo ha provato a farsi esplodere lanciandosi con la sua auto, piena di bombole del gas, contro una camionetta della polizia: l’attentato è fallito e il conducente è morto, ma in Francia è scattato nuovamente l’allarme. Nel giro di ventiquattro ore, siti di informazione e giornali hanno registrato i fatti come un bollettino di guerra: a Londra un inglese di mezza età ha attaccato la folla di fedeli musulmani, durante il Ramadan, mentre a Parigi, un cittadino francese radicalizzato, noto peraltro ai servizi di intelligence, gettava un’altra volta nel terrore la capitale: metropolitana chiusa, area transennata, colonne di mezzi della polizia, sirene e agenti. A Parigi un atto terroristico compiuto probabilmente nello spirito della jihad armata; a Londra, un atto terroristico compiuto invece contro i musulmani. Nello stesso arco di tempo, nel cuore dell’Europa.

Ora, la ragione fondamentale dell’essere europei, per tutta la seconda metà del Novecento, è stata la pace. Non vi è significato più forte e più riconoscibile nell’ideale europeista di questo legame che l’Europa, dopo gli orrori delle guerre mondiali, ha saputo conquistare con la pace, la democrazia, il diritto. Noi europei siamo quelli che hanno messo da parte odi e rivalità nazionali e religiose, ostilità politiche e ambizioni di potenza ed egemonia sul continente, per costruire insieme condizioni di vita e ordinamenti collettivi fondati sulla pace. Abbiamo vissuto la caduta del Muro di Berlino come un passo decisivo nella costruzione della casa europea perché l’89 significava la fine della guerra fredda che aveva diviso l’Europa in due blocchi. E abbiamo patito le contraddizioni di una costruzione politica ancora insufficiente quando si sono incendiati i Balcani, e nuovi conflitti si sono riaperti nel cuore del continente. Infine, sappiamo ormai riconoscere, dopo i processi di decolonizzazione seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale, i germi pericolosi che a lungo hanno allignato nell’idea del “buon europeo”. Come possiamo ora pensare che il futuro dell’Unione, il suo destino e il suo senso, si disperda tra paure, scoppi di violenza, focolai di terrore?

Eppure il crinale lungo il quale ci muoviamo è estremamente sottile. Darren Osborne, per ora, è solo un nome balzato drammaticamente agli onori della cronaca per una violenza stupida e insensata. Ma il senso delle cose non si decide mai una volta per tutte. Un gesto isolato, un episodio circoscritto non cambia il corso degli eventi. La vita scorre uguale. Ma noi oggi non sappiamo affatto se tale resterà. Non lo possiamo sapere. Non sappiamo se altrove non vi sia chi non pensi di fare altrettanto. Non sappiamo neppure se non vi sia chi soffia sul fuoco, chi magari cerca di esasperare le opinioni pubbliche dei paesi europei, di suscitare sentimenti di frustrazione della popolazione di fronte al diffondersi endemico di attentati terroristici, per far precipitare tutto in una spirale sempre più intensa di violenza. Darren Osborne non avrà fatto troppi calcoli e probabilmente non ha nessuno dietro di sé. Un atto individuale non ha ancora un significato collettivo. Ma se in futuro qualcuno proverà a fare invece qualche calcolo, a spostare gli equilibri politici del continente – e non solo – usando le ragioni del conflitto, i meccanismi della ritorsione, il contrappasso della vendetta?

Non sarebbe una guerra giusta, così come quella islamica non è una guerra santa, almeno ai nostri occhi. Sarebbe piuttosto una guerra strisciante, tenuta dentro i confini slabbrati della pace ma all’ombra di conflitti sempre più cruenti, e endemici, e globali. Una guerra in cui precipiterebbe e andrebbe in frantumi l’ideale stesso della modernità, e il suo corredo di valori, abitudini, stili di vita, nato e coltivato in questa parte del mondo. Cosa ci guadagneremmo, allora? A cosa potremmo mettere fine, e cosa invece si prolungherebbe indefinitamente se ci lasciassimo trascinare sul piano che gli attacchi terroristici ogni volta propongono: il numero delle vittime, le modalità dell’attentato, la cultura e l’identità religiosa come motivo di scontro? Non sarebbe questa ritornata barbarie la fine stessa del sogno europeo come lo abbiamo coltivato negli ultimi decenni?

(Il Mattino, 20 giugno 2017)

Le intercettazioni e la pesca a strascico

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Questo articolo è stato già scritto, su questo giornale, un anno fa, il 15 giugno 2016, a commento di un’inchiesta sull’ospedale Santobono a seguito della quale, oltre a finire in carcere dodici persone, era stata coinvolta – si ricorderà – la professoressa Maria Triassi. Che ieri il gup ha assolto con formula piena. Anche gli altri pubblici ufficiali coinvolti sono usciti dal processo.  Lo scorso anno sui giornali era precipitato il solito diluvio di intercettazioni, e in mezzo a quelle dettagliate ricostruzioni, tutte ovviamente ispirate dall’ipotesi accusatoria, era passato quasi inosservato il fatto che il tentativo di un gruppo criminale di ottenere un appalto per l’impresa Kuadra era fallito, e l’appalto assegnato a un’altra impresa. «Ciononostante – scriveva Il Mattino, insinuando qualche dubbio – il manager dell’ospedale, che non risulta aver mai avuto alcun contatto diretto con i presunti corruttori, e un’autorità della sanità campana come Maria Triassi vengono indagati con ipotesi di reato che vanno dalla corruzione alla turbativa d’asta, senza che peraltro nessuna autorità investigativa abbia mai sentito l’esigenza di interrogarli».

Quei dubbi, da soli, non bastavano certo a correggere la marea montante che saliva dai titoli e dagli articoli, dai commenti e dalle interviste. È la maledizione del circo mediatico-giudiziario che ogni volta miete vittime innocenti. Già, ma di quel circo si finisce col vedere solo il lato più appariscente – quello mediatico, appunto – mentre il lato giudiziario della faccenda finisce in secondo piano. La vicenda del Santobono fa venire però qualche dubbio anche da quel lato. E siccome non vi sono coinvolti politici di primo piano si può forse provare questa volta a ragionarne con maggiore tranquillità.

Ci sono almeno due o tre cose sulle quali sarebbe necessaria gettare da parte dell’opinione pubblica una luce più netta. Perché l’inchiesta del Santobono portata avanti dal pm John Henry Woodcok sembra avere caratteristiche che tornano con troppa frequenza in vicende analoghe. La prima: le intercettazioni sono sicuramente uno strumento di indagine indispensabile. Piercamillo Davigo lo ripete fino alla nausea: se non lo fate intercettare, come volete che il povero pubblico ministero possa scoprire il patto corruttivo? Non è come col furto o con l’assassinio: nel caso della corruzione le parti sono d’accordo nella commissione del reato, ed è quindi più difficile scoperchiare il malaffare. Il che è vero, ma non può voler dire che tutta l’attività investigativa si risolve nell’assemblaggio di brani di intercettazione, fatte magari a strascico perché qualcosa comunque finirà impigliata nella rete. Intercettare non è provare: sarebbe bene metterselo in testa. Eppure, nella discussione della riforma giunta al voto finale del Parlamento, nessuno ha osato mettere in discussione la sacralità dell’intercettazione, proponendone una più rigorosa delimitazione come mezzo di prova. Continua a valere l’argomento classicamente inquisitorio: non vuoi essere intercettato? Si vede che hai qualcosa da nascondere. Male non fare, paura non avere! E invece intercettare può far male, molto male, a chi è coinvolto ingiustamente, e spesso nuoce pure alla qualità dell’indagine, divenendo l’alfa e l’omega di tutta l’attività investigativa.

Il Santobono è solo l’ultimo esempio: quando l’inchiesta ha così fragili basi, finisce troppe volte con l’essere ridimensionata, anzi smantellata dalle decisioni del giudice. Le prove: queste sconosciute! Ma siccome il primo tempo se lo aggiudica comunque l’accusa, al momento in cui l’indagine deflagra sui giornali, viene il dubbio che non la sentenza, ma la condanna pronunciata dall’opinione pubblica sulle sole basi delle carte accusatorie sia il vero fine dell’inchiesta.

Seconda caratteristica: queste inchieste partono con ipotesi di reato in cui, immancabilmente c’entra la camorra. Non è terra di camorra, questa? Interrogativo retorico. Poi però, in corso d’opera, quelle inchieste divengono indagini sulla corruzione nella pubblica amministrazione. Benemeriti indagini, sia chiaro: nessuno è contento della corruzione fra i letti d’ospedale. Ma vorrà dire qualcosa se questo schema si ripete in maniera sistematica: non sarà una di quelle manovre che servono per accapararsi inchieste che, di nuovo, hanno maggiore impatto sulla stampa di quanto possa esserlo cercare la mafia o la camorra inseguendo la pista della droga? Il dubbio è lecito, e investe un nodo, relativo al funzionamento degli uffici giudiziari e all’autonomia e indipendenza di cui godono i singoli pm (o che i singoli pm si prendono), che vale la pena affrontare, anche se esistono già, su di esso, montagne di discussioni. Ma è un punto rilevante, che riguarda tutti i cittadini raggiunti dall’azione giudiziaria, non solo gli «interna corporis» di una Procura.

Infine. Già lo scorso anno «il Mattino» notava che tirar dentro il livello manageriale dell’ospedale e della sanità campana – a prescindere, senza troppo curarsi di come sarebbe potuta andare a finire in aula (benché a questo giornale fosse chiaro già un anno fa) – serviva a dare risalto mediatico all’inchiesta. Il guaio è che produce anche un altro effetto, di depauperamento di risorse, competenze e qualità professionali a disposizione della pubblica amministrazione. Se un’intercettazione equivale a una condanna e il tuo nome viene associato a quello di un clan, la voglia di assumere certe responsabilità finisce che ti passa. Chi è impegnato a denunciare e perseguire le contiguità fra mondo legale di sopra e mondo criminale di sotto non ci bada troppo; chi ha il governo della cosa pubblica e deve provare a costruire il profilo di una nuova dirigenza pubblica – specie nel settore così disastrato della sanità campana – è invece costretto a pensarci, per trovare qualche soluzione.  E non è facile.

(Il Mattino, 14 giugno 2014)

Le ambizioni politiche e la città dimenticata

Napoli

Un «buon risultato», dice Luigi De Magistris, che trae dal voto amministrativo di domenica motivi di soddisfazione per gli esiti di Arzano e Bacoli, dove i candidati appoggiati dal Sindaco di Napoli hanno raggiunto il ballottaggio. Non è andata così nelle altre città dove compariva il simbolo della lista DemA, ma, parola del Sindaco, «era importante cominciare». Certo, in tempi di estrema volatilità del voto, tutto può essere: persino che un giorno l’attuale primo cittadino siederà a Palazzo Chigi, con un consenso capace di andare oltre la cinta daziaria del capoluogo partenopeo, ma intanto che cosa si fa? Di fronte all’esiguità dei numeri raggranellati domenica, è più facile ipotizzare per Dema un destino simile nelle percentuali alla infausta «Rivoluzione civile» di Antonio Ingroia, che non improvvisi sfondamenti elettorali, sul modello di Podemos in Spagna. Il dato medio di Dema si aggira infatti tra il 5% e il 6%: non propriamente un successo. De Magistris pesca inoltre in un’area nella quale sono già presenti numerose formazioni politiche di sinistra-sinistra – da Pisapia a Sinistra Italiana, da Civati a Mdp di Bersani e D’Alema –, senza dire che il voto dato in nome della trasparenza, della giustizia, della partecipazione ha già, a livello nazionale, un forte catalizzatore nel Movimento Cinquestelle.

Ma vada come vada: cosa si fa, intanto? Tutte le sinistre massimaliste hanno avuto, da sempre, il limite di non curarsi troppo dei programmi «minimi», cioè delle cose da fare nel frattempo, prima che scocchi l’ora X della rivoluzione. La differenza è che però De Magistris rimanda tutti a un appuntamento politico fissato a data da destinarsi, o comunque molto lontano nel tempo, mentre si trova a fare personalmente il sindaco, mentre cioè siede a Palazzo san Giacomo e ha doveri amministrativi piuttosto impellenti. La sua Amministrazione ha i cantieri aperti su via Marina o da aprire per la manutenzione di corso Vittorio Emanuele: in quel caso, l’importante non è affatto cominciare, ma finire, possibilmente nel rispetto dei tempi previsti per la realizzazione delle opere, limitando i disagi ai cittadini. Ha difficoltà nel rispettare gli adempimenti contrattuali con la ditta impegnata nella revisione dell’impianto della Funicolare Centrale, col rischio che i lavori non vengano ultimati a causa del ritardo dei pagamenti. Ha da inventarsi una strategia per il sistema dei trasporti pubblici e un’Azienda pubblica sull’orlo del fallimento, costretta a aumentare il costo dei biglietti (scattato ieri) senza poter offrire miglioramenti dal lato dei servizi erogati. Ha da ristrutturare i servizi colabrodo di riscossione delle multe e dei canoni di locazione, ha da realizzare vendite di immobili da anni al palo, ha da costruire un’idea di organizzazione e gestione dei flussi turistici che vada al di là dell’entusiasmo estemporaneo per l’aumento delle presenze. Ha, infine, da impegnarsi su Bagnoli mettendo da parte i calcoli politici: smettendola di cercare soddisfazioni simboliche in nome dell’orgoglio, dell’indipendenza, dell’autonomia e della sovranità della città, per accomodarsi più modestamente a una seria collaborazione istituzionale.

La mistura ideologica del progetto DemA non è, ad oggi, formula che giustifichi le ambizioni politiche del suo inventore, ma quand’anche lo fosse, non dovrebbe funzionare come un’arma di distrazione di massa. Tra l’attuazione della Costituzione e l’attuazione di un programma amministrativo solido e concreto, la preferenza va accordata alla seconda: se non altro perché proprio la Costituzione e la legge gliene assegnano il compito. E poi: va bene fare il bilancio del voto nell’hinterland, o farsi venire la curiosità di registrare quanti voti DemA ha preso a Taranto (poco più dell’1%) o a Carrara (quasi il 2%), ma per i cittadini napoletani i problemi di bilancio del Comune e lo stato di pre-dissesto, tra debiti fuori bilancio e inefficienze ammnistrative, costituiscono una preoccupazione ben più pressante.

A chiusura del Maggio dei monumenti, De Magistris ha sottolineato il grande successo della manifestazione e ha poi aggiunto: «Ora siamo impegnati anche a rafforzare finanziariamente ed economicamente l’Ente e mettere in campo le azioni per migliorare tutti i servizi». Ecco: se quell’«anche» diventasse nei mesi prossimi un: «innanzitutto e quasi esclusivamente», siamo sicuri che se ne gioverebbe il suo profilo di Sindaco e soprattutto ne guadagnerebbe la città.

(Il Mattino, 13 giugno 2017)

Se la fiducia oscura la protesta

4 stelle

Un voto che è una bocciatura. Per i Cinquestelle, il turno amministrativo di ieri si sta rivelando, stando ai primi risultati, una piccola débâcle. In proporzioni diverse da quelle che hanno subito le altre forze populiste nell’ultimo anno – e in particolare nel Regno Unito, con il crollo di giovedì scorso del partito indipendentista UKIP, e in Francia, ieri sera, con il forte ridimensionamento del Front National di Marine Le Pen alle elezioni legislative – ma in misura comunque assai significativa. Per i Cinquestelle, spesso non c’è raffronto possibile con le precedenti elezioni, quando in molte realtà locali non erano ancora presenti;  l’esito del voto di ieri va tuttavia commisurato alle ambizioni di una formazione politica che presentava se stessa come il primo partito del Paese, e che nell’ultimo post apparso sul blog di Beppe Grillo rivendicava il dato di una presenza  su tutto il territorio nazionale persino superiore a quella del partito democratico, che in molte città e comuni ha rinunciato al simbolo per correre sotto liste e raggruppamenti civici. Se queste erano le ambizioni di partenza, lo scenario che gli exit poll prefigurano forniscono un prospettiva molto chiara: al ballottaggio, avremo quasi sempre sfide tra candidati di centrosinistra e candidati di centrodestra; di grillini, almeno nei principali centri andati ieri al voto, non ce ne sarà quasi nessuno. Certo, un voto amministrativo, distribuito a macchia di leopardo sul territorio nazionale, non consente facile estrapolazioni, e spesso il dato complessivo tradisce la specificità di situazioni locali. In alcuni casi, poi, gli errori commessi dai Cinquestelle sono stati macroscopici: a Palermo è scoppiata la grana delle firme false; a Parma pesava il fenomeno Pizzarotti, l’espulso eccellente che ha continuato a godere, nonostante la rottura con Grillo e Casaleggio, di un largo consenso in città; a Genova, infine, c’è stato il clamoroso annullamento delle primarie vinte dalla Cassamatis, che Grillo proprio non voleva candidare a sindaco. Ovunque, insomma, la fragilità dell’organizzazione e le faide interne ai pentastellati hanno reso difficile la partita, e nelle urne si è visto. Ma i Cinquestelle si ritrovano fuori dal secondo turno anche negli altri capoluoghi: a Verona, a l’Aquila, a Catanzaro.

Fatte salve analisi più ravvicinate del voto, la giornata di ieri sembra imporre un brusco stop alle ambizioni di Di Maio & Co. Difficile dire se l’incertezza seguita al referendum del 4 dicembre abbia avuto l’effetto di spaventare almeno una parte dell’elettorato, in cerca di elementi di stabilizzazione del quadro politico piuttosto che di nuove spallate o nuove avventure. Difficile anche proiettare il voto di domenica sulle future elezioni politiche, in una fase di estrema volatilità del voto. Difficile infine trarre auspici sulla tenuta del sistema, come se il largo discredito del ceto politico, che rimane il carburante principale del motore a Cinquestelle, fosse  stato definitivamente riassorbito. Certo è che la bocciatura di ieri impone comunque, a Grillo e ai suoi, una riflessione di carattere strategico: la delusione dipende dall’attenuazione della spinta protestataria e qualunquista, o al contrario dal non avere saputo assumere fino in fondo i lineamenti di una forza politica matura? Dopo un’intera legislatura, molti nodi non sono stati ancora sciolti, e il voto amministrativo, tradizionalmente più indigesto per le forze meno strutturate, evidenzia il mancato scioglimento del dilemma.

Ma i risultati di ieri dimostrano anche qualche altra cosa: da un lato, che il centrosinistra dispone ancora, sui territori, di un personale politico sufficientemente radicato da reggere il peso della sfida, e che anche il centrodestra, il cui profilo a livello nazionale si fa fatica a indovinare, diviene competitivo sul piano locale quando ritrova una parvenza di unità. Esiste ancora, insomma, un elettorato di centrodestra che chiede di essere adeguatamente rappresentato. Il resto lo fa la legge. I sistemi elettorali non sono la panacea di tutti i mali, ma qualche effetto lo producono. La legge sui sindaci polarizza i comportamenti degli elettori, che premiano proposte di governo delle città, più che scelte di semplice appartenenza. È un modello di democrazia che, dopo tutto, mostra di funzionare. E si prende la sua rivincita sui tentativi di azzerarlo.

(Il Mattino, 12 giugno 2017)

Recalcati, Renzi e PPP

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Telefono a Rocco Ronchi. Lo conosco da anni, forse mi fa velo l’amicizia ma lo considero tra i pochi che fanno oggi filosofia in Italia senza rinunciare a pensare, invece di rimasticare pensieri altrui. Il suo ultimo libro, «Canone minore», uscito poche settimane fa da Feltrinelli, è tra i libri più importanti dell’ultimo decennio (mi tengo basso). Lo chiamo però per chiedergli non di Platone, Bergson o Deleuze, ma per via del suo ultimo intervento, apparso sul sito online Doppiozero, in difesa di Massimo Recalcati. Psicanalista lacaniano ormai noto anche al grande pubblico, Recalcati ha avuto l’improntitudine di schierarsi al fianco di Renzi e del Pd durante le primarie; ha partecipato all’evento del Lingotto, ha accettato di dirigere la scuola di formazione del partito; l’ha infine intestata all’ultima, controversa icona laica della sinistra, Pier Paolo Pasolini. Apriti cielo! Sono fioccate le scomuniche, l’ultima delle quali ha avuto del clamoroso: a ripudiare Recalcati ci ha pensato infatti, intervistato da Il Fatto quotidiano, nientemeno che Jacques-Alain Miller, il patrono di tutti o quasi i lacaniani del mondo, che ha dipinto Recalcati come una sorta di malefico Rasputin.

Ronchi è in treno. La conversazione procede tra continui salti di linea, che si traducono in pause di riflessione. Ma provo ugualmente a chiedergli perché un risentimento così diffuso: è una disputa che riguarda l’eredità della psicanalisi, si tratta solo dell’invidia per l’intellettuale di successo?

Il successo di Recalcati non è un successo puramente mediatico, ma si innesta su un bisogno condiviso: quello di comprendere la “mutazione antropologica” – ancora in corso – di cui il berlusconismo è stata la più compiuta espressione. Utilizzando uno dei più sofisticati modelli concettuali, la psicoanalisi lacaniana, Recalcati ha elaborato una diagnosi del nostro presente storico. Si può non essere d’accordo con lui – io, ad esempio, non lo sono – ma si deve comunque riconoscere che Recalcati non ha mai evaso la sua responsabilità di intellettuale. Recalcati ha preso posizione e ha trovato udienza. Il suo successo è, quindi, il successo di una proposta teorica. Il presenzialismo non c’entra. E il successo, anche e soprattutto teorico, dà fastidio. Meglio, perciò, attribuirne le ragioni ai media e alla dabbenaggine del pubblico.

Quello che più mi ha colpito nel tuo articolo su Doppiozero è la descrizione di come funziona il significante “Renzi”, sentina di ogni risentimento. Da cosa dipende secondo te un simile atteggiamento? È questione politica, storica, antropologica? È questione tipicamente italiana?

Io tratto Renzi come un significante. Non mi interessa la verità su Renzi, ma gli effetti di senso che produce nel discorso pubblico. E tra questi, il fastidio è senza dubbio quello più eclatante. Presso un certo mondo intellettuale di sinistra (dunque in quasi tutta la sinistra), esso sfocia addirittura nella ripulsa. Quando ci si ritrova a conversare ai margini di un convegno o nei corridoi dell’università l’antirenzismo è dato per scontato, ritenuto perfino troppo ovvio per poter essere ribadito. Fascisti e razzisti godono di migliore trattamento. Perché? Che cosa disturba e spaventa a tal punto la sinistra e gli intellettuali (che sono la stessa cosa)? La risposta che mi do, ben conscio di scontare un profondo isolamento, è che il significante “Renzi” (che si associa automaticamente ai significanti “riforma”, “governo”, “potere”) stana la sinistra intellettuale dall’angolino appartato in cui si è confinata per condurre un’esistenza comoda all’insegna del primato della morale e dell’indignazione nei confronti dei “mali del mondo”. Il cantuccio, però, si trasforma in un luogo privilegiato quando coincide, com’è il caso della sinistra, con la sede centrale della buona coscienza che gode del monopolio delle cause “buone e giuste”. Ecco: il significante “Renzi” è insopportabile perché disturba il sonno della sinistra, il suo compiaciuto considerarsi “l’angolino pulito del mondo”.

C’è un altro aspetto che mi pare torni in questa querelle, e riguarda la potenza (o l’impotenza?) nello spazio pubblico del sentimento di indignazione, la cui titolarità sembra appartenere in via esclusiva a una certa tribuna intellettuale, quella che sta – come dici tu – nell’angolino. A me i suoi effetti sono sempre sembrati puramente reattivi. Ti domando: si può costruire un progetto politico collettivo fondandolo sull’indignazione?

L’indignazione è un sentimento reazionario. Non solamente pre-politico ma decisamente anti-politico. L’indignato parla in nome del bene violato. La purezza è il suo vessillo. L’impurità sta tutta dalla parte dell’altro, senza mediazioni né sfumature. Bisogna diffidare a priori di qualsiasi movimento sociale che abbia il suo collante nell’indignazione, così come bisogna diffidare a priori, nelle relazioni personali, di qualsiasi individuo che sia privo del senso dell’umorismo. L’umorismo è il rovescio dell’indignazione o, se si vuole, è l’indignazione politicamente educata e fattasi tollerante.

Mi pare di capire che tu trai motivo per una diagnosi più generale sulla cultura contemporanea. Puoi indicarci quali sono i tratti che secondo te l’affaire mette in luce, quali nodi vengono al pettine. C’è forse bisogno di rottamare anche pezzi se non della cultura, delle istituzioni culturali del nostro Paese? (Il termine “rottamazione” è mal scelto, anche per Recalcati. Allora diciamo: bisogna tornare a filosofare col martello?).

Filosofare col martello significa filosofare in modo efficace e restituire alla cultura (che, nella sua radice, è filosofia e solo filosofia) una potenza reale. L’impotenza – o come più dottamente si dice “l’inoperosità” – è, invece, il liquido amniotico in cui galleggia l’intellettuale moderno. Come dice sempre Nietzsche «i moderni ne sanno troppo per poter agire». Soprattutto ne sanno troppo su se stessi. Le sole ragioni che l’intellettuale moderno sa esibire sono, infatti, ragioni per non agire. Di qui l’indignazione che solitamente prova nei confronti di qualsiasi azione e che, contrariamente a quanto si crede, non è diretta al suo contenuto quanto, piuttosto, alla sua “semplice” forma (ecco perché il significante “Renzi” produce effetti così negativi). Per l’intellettuale moderno agire è il male. Non agire è il bene. Il problema più grave è, però, che molto spesso si confonde l’inoperosità col giudizio critico e si eleva quest’ultimo a criterio normativo cui conformarsi e con cui passare al vaglio il resto del mondo il quale, nella misura in cui agisce e non può non agire, è condannabile e condannato. A salvarsi è infatti sempre e solo chi giudica perché solo chi giudica fa il “bene”.

Posso chiederti se c’è però anche qualcosa, nella linea che Recalcati ha indicato nei suoi libri (da «Cosa resta del padre?» in poi) su cui ti sentiresti di aprire a tua volta un confronto con la sua interpretazione di Lacan?

La lettura che Recalcati offre di Lacan è una lettura esistenzialista e cristiana di stampo levinassiano. Nelle sue mani il volto di Lacan si confonde con quello di Levinas perché il desiderio lacaniano, nell’interpretazione che ne dà Recalcati, assomiglia molto al desiderio che, secondo il filosofo francese, struttura l’esperienza: desiderio dell’infinitamente Altro, vertiginosa trascendenza. Lettura affascinante. ma molto distante dal mio pensiero e dal mio modo di intendere Lacan, modo che, per certi versi, è più prossimo a quello del maestro-nemico di Recalcati: Jaques Alain Miller. Per me Lacan è un filosofo dell’immanenza assoluta, un pensatore radicalmente monista che rifiuta il primato dell’uomo in tutte le sue forme. Là dove Recalcati vede un’etica io vedo, infatti, una filosofia della natura.

Un altro punto su cui ti soffermi nel tuo articolo è la figura di Pasolini, al quale Recalcati ha deciso di dedicare la scuola del Pd. Non si tratta ovviamente di arruolare Pasolini, ma le critiche dell’ultimo Pasolini all’istituzione scolastica a me sembrano poco compatibili con una simile scelta. Senza dire della sua profonda distanza dall’imperativo ‘progressista’, di modernizzazione, che sembra appartenere all’identità del partito democratico, non certo a Pasolini…

Non è solo per la sua critica dell’istituzione scolastica (una critica, invero, banale e non originale: Ivan Illich aveva detto meglio) che mi sembra insensato battezzare con il nome di Pasolini una scuola di partito. Tutto Pasolini, e in particolare il Pasolini “corsaro”, è in contraddizione con un progetto politico riformista e pragmatico. La critica pasoliniana della modernità è senza scampo; la sua opzione reazionaria è definitiva. Il suo populismo estetizzante e demagogico ne fa, semmai, una buona bandiera per i tanti movimenti identitari che fioriscono nel mondo. Niente a che fare, insomma, con un significante, come quello di “Renzi”, che, nei suoi effetti di senso, si lega, nel bene e nel male, a quelli di “cambiamento”, “sperimentazione” e “progresso”. Perciò chi vede nella scelta di dedicargli una scuola di partito il tentativo di stravolgerne la “genuina natura eretica” si sbaglia. È piuttosto vero il contrario: quella scelta fa di un intellettuale organico, campione della tradizione (soprattutto immaginaria), il titolare di un progetto modernista ed eretico (per la storia italiana).

Il tuo ultimo libro «Il canone minore» ha in realtà un’enorme ambizione, che è quella di tirar via il discorso filosofico dalle secche in cui si è cacciato: senza più pretese speculative, la filosofia è divenuta solo una voce nella conversazione dell’umanità, come diceva Richard Rorty. Ma è ancora possibile coltivare quelle pretese? Come oltrepassare l’orizzonte del relativismo contemporaneo?

Dici bene. L’ambizione è enorme e non è detto che le mie forze ne siano all’altezza, ma sono certo che l’obiettivo è quello giusto. La filosofia che mi ha cresciuto, in tutte le sue declinazioni (dall’ermeneutica al pensiero debole, dal decostruzionismo alla filosofia analitica) si fondava sulla persuasione che la filosofia fosse impossibile. Braccandosi furiosamente, procedeva a “smascheramenti” sempre più radicali e, sottoposta a questa sfinente autocritica, la filosofia è diventata solo un “gioco linguistico” tra gli altri. Un filosofo moderno, si diceva, è colui che sospende e relativizza il progetto imperialista dell’Occidente mostrandone la natura di “favola”. Non è allora un caso se la fine del secolo scorso ha visto trionfare, su scala planetaria, i gender e i cultural studies, veri eredi dell’autodissoluzione del filosofico. Il canone minore di cui parlo resiste a questo “destino” maggioritario e, tracciando nuovi sentieri speculativi nel contemporaneo, prova a schizzare un’altra storia. Una storia nuova, che accoglie però un’antica sfida, quella formulata da Platone nel «Parmenide»: provare a delineare le condizioni alle quali la filosofia possa finalmente cominciare.

(Il Mattino, 11 giugno 2017)

Il caso Consip, la Polizia e i cavalieri senza macchia

PinocchioChiostri8

Con il titolo: «Io servo lo Stato, non il governo», «Repubblica» ha pubblicato ieri, nelle pagine interne, un’intervista al Capo della Polizia Franco Gabrielli che avrebbe meritato la prima pagina. Gliela diamo noi oggi. Non potendo citarla per esteso, ci limitiamo a riproporne un brano su cui vale la pena soffermarsi, il seguente: «il livello di disonestà intellettuale utilizzato nella vicenda Consip per sostenere che in questo Paese esistono pochi cavalieri bianchi le cui mani vengono legate da vertici di Polizia corrivi con la Politica e le sue convenienze, servi di un progetto eversivo che avrebbe dovuto cambiare prima la Costituzione e poi mettere in un angolo la magistratura, è pari solo allo sconforto che provo pensando al pregiudizio da cui questa falsità muove».

Si tratta della vicenda Consip. Che però viene collocata dal Capo della Polizia in un contesto molto più grande, in cui si muoverebbe chi trama per fermare un progetto politico che con la connivenza dei vertici di Polizia avrebbe puntato a cambiare in senso eversivo la Costituzione e a colpire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (che tuttavia, giova ricordarlo, non era minimamente toccata dalla riforma costituzionale sottoposta a referendum).

Gabrielli non dice se pensa a settori dell’opinione pubblica o a corpi dello Stato. Ma proprio tra le pagine di «Repubblica» (e degli altri quotidiani che ne han riportato la notizia, come «Il Mattino») si trova un brano della possibile risposta. Nuove rivelazioni hanno infatti riguardato ieri la figura del capitano Scafarto, responsabile di manipolazioni nella trascrizione delle intercettazioni che puntavano a inguaiare il padre del Presidente del Consiglio, Tiziano Renzi. Finora stava ancora in piedi, almeno a livello teorico, l’ipotesi che le falsificazioni fossero dovuto a errori materiali, a fretta o a negligenza. Trattandosi di un’indagine che lambiva le massime cariche dello Stato, era già da chiedersi come il Noe, il nucleo investigativo del capitano Scafarto, potesse continuare a godere di così piena fiducia da parte della Procura napoletana e dei pm che conducevano l’inchiesta. Ma ieri si è saputo che la Procura di Roma, che indaga sull’operato del prode capitano, gli ha contestato messaggi da cui trasparirebbe in maniera evidente, per non dire letterale, il carattere intenzionale della manipolazione, orchestrata per mandare in galera Tiziano Renzi. Questo Scafarto chiede infatti ai colleghi di reparto di verificare da chi fosse stata pronunciata la famosa frase sull’incontro con Tiziano. E avuta conferma che a pronunciarla era stato non Romeo, ma Bocchino, Scafarto avrebbe chiesto di poter avere lui stesso le trascrizioni, per poi modificarne il senso in modo da ricondurre la frase all’imprenditore ora in carcere. Se confermato, non vi sarebbe altro modo per descrivere un simile comportamento se non: fabbricare prove false a carico di un familiare del premier, per distruggerne la figura politica. Domanda: è di questa pasta che è fatto il partito dei cavalieri bianchi che combattono a difesa della legalità? Se è così, è in gioco molto di più di una semplice disonestà intellettuale.

Ovunque vadano a parare indagini che sono ancora in corso, siamo di fronte a scenari che definire inquietanti equivale a minimizzare. Difficile trovare episodi di uguale gravità nel passato recente. Il fatto che Gabrielli debba concedere una lunga intervista, nel corso della quale lascia intravedere quali possano essere le motivazioni dei bianchi cavalieri per costruire simili macchinazioni (fermare Renzi, colpire chi vuole mettere la mordacchia alla magistratura), non può non destare il più vivo allarme. Tanto più che Gabrielli è costretto a scendere in campo non certo per difendere il potere politico, ma solo per difendere il suo onore e quello della polizia.

In discussione è infatti la norma, introdotta lo scorso anno, che prevede l’obbligo per la polizia giudiziaria di trasmettere lungo la scala gerarchica le notizie sulle informative di reato. In parole povere, a seguire gli sviluppi delle indagini non è solo la magistratura ma anche la polizia. Questa norma è avversata dal CSM, che la vorrebbe modificare perché vi ravvisa – spiega Gabrielli – «un tentativo fraudolento di sterilizzare l’azione della magistratura. Una grave interferenza nel segreto delle sue indagini. Come se il sottoscritto e i vertici delle forze dell’ordine non avessero giurato fedeltà alla Costituzione, ma alla maggioranza di governo del momento». Di nuovo: sono parole che per la loro gravità meriterebbero la prima pagina. Ma Gabrielli ha ragione da vendere. E non ha solo le ragioni di un servitore dello Stato, la cui lealtà non può essere messa in dubbio, e quelle del buon senso, dal momento che, oltre ad essere offensivo, è pure sciocco credere che il capo della Polizia non abbia comunque, da prefetti e questori, le notizie che gli consentono il pieno esercizio delle sue responsabilità, ma ha anche le ragioni che il caso Consip mette purtroppo sotto i nostri occhi: nuclei investigativi che finiscono alle dirette dipendenze del pm di fiducia, che stringono con lui un rapporto diretto e personale all’ombra del quale possono, a quanto pare, depistare indagini o costruire prove false.

Sia chiaro, il Csm non difende nessuna delle alterazioni compiute nel corso delle indagini napoletane su Tiziano Renzi. Difende però un potere, quello del pubblico ministero, dominus delle indagini preliminari, di disporre direttamente e pienamente della polizia giudiziaria senza interferenze e senza, soprattutto, che intervengano altri profili di responsabilità, in una relazione che vicende come il caso Consip mostrano però quanto intimo, anzi arbitrario e incestuoso, possa diventare quel rapporto, e quanto sostegno possa dare al protagonismo di certa magistratura requirente. Che, in un sistema che non prevede la separazione delle carriere, gode della stessa autonomia di statuto del giudice, ma finisce con l’avere in più, nella fase preliminare in cui incomparabilmente maggiore è la sua libera discrezionalità nel portare avanti le indagini, una guardia scelta di pretoriani nella propria stretta disponibilità.

Così succede che mentre l’attuale ordinamento viene difeso con l’argomento dell’unitarietà della cultura della giurisdizione, che pm e giudici devono condividere (ma a proposito: che fine fa, in questa bella condivisione, l’avvocato? Che parte rimane alla difesa?), nel Paese e presso l’opinione pubblica finisce col prevalere un’unica, monolitica cultura: quella dell’accusa, al punto che perfino Franco Gabrielli, il capo della Polizia, si vede costretto a doversi difendere sdegnato sulle pagine di un giornale.

Theresa e il rigore fallito a porta vuota

 

manuale del gol

Un disastro, secondo il Financial Times: Theresa May ha sbagliato un rigore a porta vuota. Ha voluto le elezioni anticipate per rafforzare la sua maggioranza e guidare la Brexit forte di un più chiaro e netto mandato politico. Ha scelto il momento che le sembrava più opportuno, quando i sondaggi davano i conservatori in vantaggio di circa venti punti sui laburisti di Jeremy Corbyn e ha lanciato la sua sfida. Ma con il passare delle settimane il distacco si è progressivamente ridotto e ieri sera, nelle urne, la May non ha raccolto alcun plebiscito a sua favore. Nessuna larga vittoria, e dunque nessun consolidamento della sua leadership. Dato l’alto numero di collegi in bilico, bisognerà aspettare i risultati ufficiali, per sapere se davvero i Tory non avranno la maggioranza assoluta e se dunque la formazione del governo sarà possibile – se sarà possibile – solo grazie ad accordi con forze minori (anzitutto i minuscoli partiti unionisti dell’Irlanda del Nord, visto che, stando alle proiezioni, agli indipendentisti dell’Ukip non dovrebbero andare seggi, mentre non è affatto semplice trovare un accordo con la quindicina di deputati liberal-democratici). Di certo, però, anche Theresa May ha avuto la sua non-vittoria.

Tutt’altra musica in casa laburista. Jeremy Corbyn è stato eletto nello scetticismo delle componenti blairiane e centriste del partito, persuase che con un leader con una piattaforma così sbilanciata a sinistra la vittoria non avrebbe più arriso al Labour Party. E in effetti, stando agli exit poll, i laburisti sono ben lontani dalla maggioranza assoluta. Ma Corbyn ha ridotto di parecchio le distanze dai tories, e soprattutto è andato meglio del predecessore Ed Miliband. Tra ali di giovanilissimo entusiasmo, il leader dalla barba brizzolata e dalle maniche rimboccate ha proposto una piattaforma programmatica fatta di massicci investimenti pubblici in sanità e trasporti, tassazione pesantemente progressiva dei redditi a scapito dei ceti medio-alti, lotta alla precarietà del lavoro; abolizione delle tasse universitarie, nazionalizzazione delle ferrovie. Corbyn ha saputo così ricostruire un rapporto con i ceti popolari, spaventati dalla immigrazione ma anche stufi delle politiche di austerity, dei tagli alla spesa e della riduzione dei servizi pubblici.

Populismo della più bella marca? Può darsi. Ma se il partito laburista ha virato a sinistra è anche perché le aperture al centro del New Labour, negli anni del blairismo, hanno molto meno senso quando lo spazio politico del centro si riduce, le diseguaglianze aumentano e invece diminuisce l’indice di fiducia (e la stessa consistenza) delle classi medie. Che è quello che sta accadendo oggi, in Gran Bretagna e non solo.

Un paio di ulteriori elementi hanno sicuramente pesato sul voto. Il primo è la minaccia terroristica. Nonostante i toni duri assunti dopo gli attentati degli ultimi giorni, ha pesato sull’immagine della May la riduzione delle forze di polizia, decisa per ragioni di bilancio quando era al Ministero dell’Interno. Un errore che Corbyn non ha mancato di sottolineare durante la campagna elettorale, e che ha reso molto meno credibile il profilo decisionistico della premier.

L’altro elemento è la linea da tenere nei prossimi mesi nelle trattative con l’Unione europea. È evidente infatti che vi saranno riflessi anche nei rapporti con gli altri Paesi europei. La May ha usato parole molto ferme, in queste settimane: è, del resto, sull’onda di un risultato che sorprese l’allora premier conservatore Cameron che si è consumato il passaggio di consegne fra i due. Nelle urne, però, questa posizione non ha pagato. Ne è una riprova il deludente risultato dell’UKIP, in verità in crisi di leadership, che a quanto pare non riuscirebbe a portare a Westminster un solo parlamentare. Il Labour ha invece tenuto sulla Brexit una linea molto più morbida, che ha avuto grandi riscontri soprattutto tra le giovani generazioni, preoccupate da una prospettiva marcatamente isolazionista. La distanza così ridotta fra i primi due partiti rende in definitiva molto più incerto il percorso che il Regno Unito seguirà nel confronto con Bruxelles.

E così la May si troverà a gestire, con tutta probabilità, un esito molto lontano dalle sue iniziali aspettative. È presto per dire se esso avrà conseguenze sul suo stesso destino politico. Certo è che in Parlamento e nel partito Theresa May non avrà d’ora innanzi vita facile. Se i risultati finali non consegneranno ai conservatori una maggioranza chiara, lasciando il Paese sul filo del rasoio (tutto il contrario di quel che si ripete guardando con ammirazione un po’ ingenua quei sistemi politici ed elettorali che garantirebbero maggioranza e governo un minuto dopo la chiusura dei seggi: non è così), la dialettica politica non potrà che accendersi, e non è escluso che anche Londra dovrà misurarsi, nel prossimo futuro, con scenari accompagnati da una accentuata incertezza.

(Il Mattino, 9 giugno 2017)

Labour rivitalizzati. L’impresa di Corbyn

blair foot

È come aver trovato un vecchio disco in vinile, averlo messo su un giradischi d’antan e avere all’improvviso scoperto che tutta la musica ascoltata negli ultimi vent’anni su cd e mp3 è semplicemente da buttare. Così appare agli entusiasti sostenitori del Labour Jeremy Corbyn, il leader che ha preso in mano nel 2015 il partito che fu di Tony Blair, nel 2015, per lanciare la sfida di un laburista d’altri tempi alla premier Theresa May, in cerca di una vittoria che sarebbe tanto imprevista quanto clamorosa.

In realtà, tra Blair e Corbyn ci sono stati prima Gordon Brown e poi Ed Miliband. E quando quest’ultimo perse le elezioni, tutto ci si aspettava meno che la vittoria di

dell’outsider Corbyn alle primarie del partito. Vecchio deputato – in Parlamento dall’inizio degli anni Ottanta – su posizioni perennemente di minoranza, pacifiste e socialisteggianti, Corbyn ha invece conquistato il Labour tra ali di giovanilissimo entusiasmo, spostandolo parecchio a sinistra: massicci investimenti pubblici in sanità e trasporti, tassazione pesantemente progressiva dei redditi a scapito dei ceti medio-alti, lotta alla precarietà del lavoro; abolizione delle tasse universitarie, nazionalizzazione delle ferrovie. Rispetto ai programmi socialisti e socialdemocratici di una volta qualche differenza però c’è, e attiene al contesto europeo e internazionale in cui si situa oggi il Regno Unito del dopo Brexit. Perché un conto è muoversi in una fase espansiva, di crescita dell’economia nazionale e internazionale, un altro è proporsi di attuare un programma del genere con la formula, di sovietica memoria, del socialismo in un paese solo. La ritrovata sovranità del Paese (che peraltro nell’Unione europea già godeva, prima del referendum dello scorso anno, di condizioni di particolare favore) è diventata intanto la retorica dominante non solo del partito conservatore, che molla i valori di apertura del liberalismo in nome della sicurezza e di un ritrovato orgoglio nazionale, ma anche dei socialisti in cerca di un rinnovato rapporto con i ceti popolari spaventati dalla immigrazione e stufi delle politiche di austerity, dei tagli alla spesa e della riduzione dei servizi pubblici.

Populismo della più bella marca? Può darsi. Ma se il partito laburista ha virato a sinistra è anche perché le aperture al centro del New Labour, negli anni del blairismo, hanno molto meno senso quando lo spazio politico del centro si riduce, le diseguaglianze aumentano e invece diminuisce l’indice di fiducia (e la stessa consistenza) delle classi medie. Che è quello che sta accadendo oggi, in Gran Bretagna e non solo.

Così Corbyn, col suo ritorno allo Stato e al welfare, forse non vincerà ma intanto convince. O meglio: fra i suoi, cioè nelle primarie per la leadership del Labour party, vince non una ma due volte: nel 2015 e poi di nuovo nel 2016. E lievita il numero degli iscritti al partito. Nonostante i gruppi parlamentari contrari, nonostante Tony Blair (o magari proprio grazie alla sua avversione, visto il discredito in cui in patria è caduto fra gli elettori di sinistra per via delle bugie sulla guerra in Iraq), nonostante lo scetticismo dei grandi giornali, nonostante i sondaggi che gli riconoscono una bassa credibilità come Primo Ministro: nonostante tutto Corbyn si è preso il partito.

Dopodiché le cose di sinistra che ha cominciato a dire hanno fatto breccia, soprattutto nell’elettorato giovanile (con un consenso che presso le giovani generazioni ha viaggiato intorno al 70%). In piazza e nei comizi il vecchio Jeremy, barba brizzolata e maniche rimboccate, ha funzionato alla grande, anche se ingessato dentro l’etichetta ufficiale del Regno, tra un cappellino della Regina Elisabetta e un the a Downing Street, solo in pochi riescono ad immaginarlo.

Questa poi è la ragione per cui Corbyn ha dovuto vincere scetticismi e diffidenze. Che lo si vota a fare un leader che rassicura la propria base sociale di riferimento, ma ha nulle o quasi nulle possibilità di conquistare la maggioranza del Paese?

I critici malevoli hanno perciò paragonato Jeremy Corbyn a Michael Foot. Foot fu un leader molto popolare del partito laburista, che ebbe però la sventura di scontrarsi alle elezioni contro la Lady di Ferro, Margaret Thatcher. E di perdere rovinosamente. Molto amato, molto stimato, Foot aveva grandi capacità oratorie e un profilo morale indiscutibile. Ma parlava solo agli iscritti e ai simpatizzanti tradizionali del partito, senza riuscire a rimescolare almeno un po’ le carte. Ora è vero: Corbyn ha un profilo politico assai simile, ma soprattutto riesce a dare una visione forte dei compiti e degli obiettivi di un partito di sinistra, dopo anni da tutti trascorsi a spiegare che le ideologie sono finite. Invece no. E lui, che sembrava finito ai margini della politica, ha invece potuto conquistare a sorpresa il centro della scena. Un gran risultato, anche se alla fine gli applausi dovessero toccare alla nuova signora della politica britannica.

(Il Mattino, 9 giugno 2017)