Archivi del giorno: giugno 10, 2017

Il caso Consip, la Polizia e i cavalieri senza macchia

PinocchioChiostri8

Con il titolo: «Io servo lo Stato, non il governo», «Repubblica» ha pubblicato ieri, nelle pagine interne, un’intervista al Capo della Polizia Franco Gabrielli che avrebbe meritato la prima pagina. Gliela diamo noi oggi. Non potendo citarla per esteso, ci limitiamo a riproporne un brano su cui vale la pena soffermarsi, il seguente: «il livello di disonestà intellettuale utilizzato nella vicenda Consip per sostenere che in questo Paese esistono pochi cavalieri bianchi le cui mani vengono legate da vertici di Polizia corrivi con la Politica e le sue convenienze, servi di un progetto eversivo che avrebbe dovuto cambiare prima la Costituzione e poi mettere in un angolo la magistratura, è pari solo allo sconforto che provo pensando al pregiudizio da cui questa falsità muove».

Si tratta della vicenda Consip. Che però viene collocata dal Capo della Polizia in un contesto molto più grande, in cui si muoverebbe chi trama per fermare un progetto politico che con la connivenza dei vertici di Polizia avrebbe puntato a cambiare in senso eversivo la Costituzione e a colpire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (che tuttavia, giova ricordarlo, non era minimamente toccata dalla riforma costituzionale sottoposta a referendum).

Gabrielli non dice se pensa a settori dell’opinione pubblica o a corpi dello Stato. Ma proprio tra le pagine di «Repubblica» (e degli altri quotidiani che ne han riportato la notizia, come «Il Mattino») si trova un brano della possibile risposta. Nuove rivelazioni hanno infatti riguardato ieri la figura del capitano Scafarto, responsabile di manipolazioni nella trascrizione delle intercettazioni che puntavano a inguaiare il padre del Presidente del Consiglio, Tiziano Renzi. Finora stava ancora in piedi, almeno a livello teorico, l’ipotesi che le falsificazioni fossero dovuto a errori materiali, a fretta o a negligenza. Trattandosi di un’indagine che lambiva le massime cariche dello Stato, era già da chiedersi come il Noe, il nucleo investigativo del capitano Scafarto, potesse continuare a godere di così piena fiducia da parte della Procura napoletana e dei pm che conducevano l’inchiesta. Ma ieri si è saputo che la Procura di Roma, che indaga sull’operato del prode capitano, gli ha contestato messaggi da cui trasparirebbe in maniera evidente, per non dire letterale, il carattere intenzionale della manipolazione, orchestrata per mandare in galera Tiziano Renzi. Questo Scafarto chiede infatti ai colleghi di reparto di verificare da chi fosse stata pronunciata la famosa frase sull’incontro con Tiziano. E avuta conferma che a pronunciarla era stato non Romeo, ma Bocchino, Scafarto avrebbe chiesto di poter avere lui stesso le trascrizioni, per poi modificarne il senso in modo da ricondurre la frase all’imprenditore ora in carcere. Se confermato, non vi sarebbe altro modo per descrivere un simile comportamento se non: fabbricare prove false a carico di un familiare del premier, per distruggerne la figura politica. Domanda: è di questa pasta che è fatto il partito dei cavalieri bianchi che combattono a difesa della legalità? Se è così, è in gioco molto di più di una semplice disonestà intellettuale.

Ovunque vadano a parare indagini che sono ancora in corso, siamo di fronte a scenari che definire inquietanti equivale a minimizzare. Difficile trovare episodi di uguale gravità nel passato recente. Il fatto che Gabrielli debba concedere una lunga intervista, nel corso della quale lascia intravedere quali possano essere le motivazioni dei bianchi cavalieri per costruire simili macchinazioni (fermare Renzi, colpire chi vuole mettere la mordacchia alla magistratura), non può non destare il più vivo allarme. Tanto più che Gabrielli è costretto a scendere in campo non certo per difendere il potere politico, ma solo per difendere il suo onore e quello della polizia.

In discussione è infatti la norma, introdotta lo scorso anno, che prevede l’obbligo per la polizia giudiziaria di trasmettere lungo la scala gerarchica le notizie sulle informative di reato. In parole povere, a seguire gli sviluppi delle indagini non è solo la magistratura ma anche la polizia. Questa norma è avversata dal CSM, che la vorrebbe modificare perché vi ravvisa – spiega Gabrielli – «un tentativo fraudolento di sterilizzare l’azione della magistratura. Una grave interferenza nel segreto delle sue indagini. Come se il sottoscritto e i vertici delle forze dell’ordine non avessero giurato fedeltà alla Costituzione, ma alla maggioranza di governo del momento». Di nuovo: sono parole che per la loro gravità meriterebbero la prima pagina. Ma Gabrielli ha ragione da vendere. E non ha solo le ragioni di un servitore dello Stato, la cui lealtà non può essere messa in dubbio, e quelle del buon senso, dal momento che, oltre ad essere offensivo, è pure sciocco credere che il capo della Polizia non abbia comunque, da prefetti e questori, le notizie che gli consentono il pieno esercizio delle sue responsabilità, ma ha anche le ragioni che il caso Consip mette purtroppo sotto i nostri occhi: nuclei investigativi che finiscono alle dirette dipendenze del pm di fiducia, che stringono con lui un rapporto diretto e personale all’ombra del quale possono, a quanto pare, depistare indagini o costruire prove false.

Sia chiaro, il Csm non difende nessuna delle alterazioni compiute nel corso delle indagini napoletane su Tiziano Renzi. Difende però un potere, quello del pubblico ministero, dominus delle indagini preliminari, di disporre direttamente e pienamente della polizia giudiziaria senza interferenze e senza, soprattutto, che intervengano altri profili di responsabilità, in una relazione che vicende come il caso Consip mostrano però quanto intimo, anzi arbitrario e incestuoso, possa diventare quel rapporto, e quanto sostegno possa dare al protagonismo di certa magistratura requirente. Che, in un sistema che non prevede la separazione delle carriere, gode della stessa autonomia di statuto del giudice, ma finisce con l’avere in più, nella fase preliminare in cui incomparabilmente maggiore è la sua libera discrezionalità nel portare avanti le indagini, una guardia scelta di pretoriani nella propria stretta disponibilità.

Così succede che mentre l’attuale ordinamento viene difeso con l’argomento dell’unitarietà della cultura della giurisdizione, che pm e giudici devono condividere (ma a proposito: che fine fa, in questa bella condivisione, l’avvocato? Che parte rimane alla difesa?), nel Paese e presso l’opinione pubblica finisce col prevalere un’unica, monolitica cultura: quella dell’accusa, al punto che perfino Franco Gabrielli, il capo della Polizia, si vede costretto a doversi difendere sdegnato sulle pagine di un giornale.

Theresa e il rigore fallito a porta vuota

 

manuale del gol

Un disastro, secondo il Financial Times: Theresa May ha sbagliato un rigore a porta vuota. Ha voluto le elezioni anticipate per rafforzare la sua maggioranza e guidare la Brexit forte di un più chiaro e netto mandato politico. Ha scelto il momento che le sembrava più opportuno, quando i sondaggi davano i conservatori in vantaggio di circa venti punti sui laburisti di Jeremy Corbyn e ha lanciato la sua sfida. Ma con il passare delle settimane il distacco si è progressivamente ridotto e ieri sera, nelle urne, la May non ha raccolto alcun plebiscito a sua favore. Nessuna larga vittoria, e dunque nessun consolidamento della sua leadership. Dato l’alto numero di collegi in bilico, bisognerà aspettare i risultati ufficiali, per sapere se davvero i Tory non avranno la maggioranza assoluta e se dunque la formazione del governo sarà possibile – se sarà possibile – solo grazie ad accordi con forze minori (anzitutto i minuscoli partiti unionisti dell’Irlanda del Nord, visto che, stando alle proiezioni, agli indipendentisti dell’Ukip non dovrebbero andare seggi, mentre non è affatto semplice trovare un accordo con la quindicina di deputati liberal-democratici). Di certo, però, anche Theresa May ha avuto la sua non-vittoria.

Tutt’altra musica in casa laburista. Jeremy Corbyn è stato eletto nello scetticismo delle componenti blairiane e centriste del partito, persuase che con un leader con una piattaforma così sbilanciata a sinistra la vittoria non avrebbe più arriso al Labour Party. E in effetti, stando agli exit poll, i laburisti sono ben lontani dalla maggioranza assoluta. Ma Corbyn ha ridotto di parecchio le distanze dai tories, e soprattutto è andato meglio del predecessore Ed Miliband. Tra ali di giovanilissimo entusiasmo, il leader dalla barba brizzolata e dalle maniche rimboccate ha proposto una piattaforma programmatica fatta di massicci investimenti pubblici in sanità e trasporti, tassazione pesantemente progressiva dei redditi a scapito dei ceti medio-alti, lotta alla precarietà del lavoro; abolizione delle tasse universitarie, nazionalizzazione delle ferrovie. Corbyn ha saputo così ricostruire un rapporto con i ceti popolari, spaventati dalla immigrazione ma anche stufi delle politiche di austerity, dei tagli alla spesa e della riduzione dei servizi pubblici.

Populismo della più bella marca? Può darsi. Ma se il partito laburista ha virato a sinistra è anche perché le aperture al centro del New Labour, negli anni del blairismo, hanno molto meno senso quando lo spazio politico del centro si riduce, le diseguaglianze aumentano e invece diminuisce l’indice di fiducia (e la stessa consistenza) delle classi medie. Che è quello che sta accadendo oggi, in Gran Bretagna e non solo.

Un paio di ulteriori elementi hanno sicuramente pesato sul voto. Il primo è la minaccia terroristica. Nonostante i toni duri assunti dopo gli attentati degli ultimi giorni, ha pesato sull’immagine della May la riduzione delle forze di polizia, decisa per ragioni di bilancio quando era al Ministero dell’Interno. Un errore che Corbyn non ha mancato di sottolineare durante la campagna elettorale, e che ha reso molto meno credibile il profilo decisionistico della premier.

L’altro elemento è la linea da tenere nei prossimi mesi nelle trattative con l’Unione europea. È evidente infatti che vi saranno riflessi anche nei rapporti con gli altri Paesi europei. La May ha usato parole molto ferme, in queste settimane: è, del resto, sull’onda di un risultato che sorprese l’allora premier conservatore Cameron che si è consumato il passaggio di consegne fra i due. Nelle urne, però, questa posizione non ha pagato. Ne è una riprova il deludente risultato dell’UKIP, in verità in crisi di leadership, che a quanto pare non riuscirebbe a portare a Westminster un solo parlamentare. Il Labour ha invece tenuto sulla Brexit una linea molto più morbida, che ha avuto grandi riscontri soprattutto tra le giovani generazioni, preoccupate da una prospettiva marcatamente isolazionista. La distanza così ridotta fra i primi due partiti rende in definitiva molto più incerto il percorso che il Regno Unito seguirà nel confronto con Bruxelles.

E così la May si troverà a gestire, con tutta probabilità, un esito molto lontano dalle sue iniziali aspettative. È presto per dire se esso avrà conseguenze sul suo stesso destino politico. Certo è che in Parlamento e nel partito Theresa May non avrà d’ora innanzi vita facile. Se i risultati finali non consegneranno ai conservatori una maggioranza chiara, lasciando il Paese sul filo del rasoio (tutto il contrario di quel che si ripete guardando con ammirazione un po’ ingenua quei sistemi politici ed elettorali che garantirebbero maggioranza e governo un minuto dopo la chiusura dei seggi: non è così), la dialettica politica non potrà che accendersi, e non è escluso che anche Londra dovrà misurarsi, nel prossimo futuro, con scenari accompagnati da una accentuata incertezza.

(Il Mattino, 9 giugno 2017)

Labour rivitalizzati. L’impresa di Corbyn

blair foot

È come aver trovato un vecchio disco in vinile, averlo messo su un giradischi d’antan e avere all’improvviso scoperto che tutta la musica ascoltata negli ultimi vent’anni su cd e mp3 è semplicemente da buttare. Così appare agli entusiasti sostenitori del Labour Jeremy Corbyn, il leader che ha preso in mano nel 2015 il partito che fu di Tony Blair, nel 2015, per lanciare la sfida di un laburista d’altri tempi alla premier Theresa May, in cerca di una vittoria che sarebbe tanto imprevista quanto clamorosa.

In realtà, tra Blair e Corbyn ci sono stati prima Gordon Brown e poi Ed Miliband. E quando quest’ultimo perse le elezioni, tutto ci si aspettava meno che la vittoria di

dell’outsider Corbyn alle primarie del partito. Vecchio deputato – in Parlamento dall’inizio degli anni Ottanta – su posizioni perennemente di minoranza, pacifiste e socialisteggianti, Corbyn ha invece conquistato il Labour tra ali di giovanilissimo entusiasmo, spostandolo parecchio a sinistra: massicci investimenti pubblici in sanità e trasporti, tassazione pesantemente progressiva dei redditi a scapito dei ceti medio-alti, lotta alla precarietà del lavoro; abolizione delle tasse universitarie, nazionalizzazione delle ferrovie. Rispetto ai programmi socialisti e socialdemocratici di una volta qualche differenza però c’è, e attiene al contesto europeo e internazionale in cui si situa oggi il Regno Unito del dopo Brexit. Perché un conto è muoversi in una fase espansiva, di crescita dell’economia nazionale e internazionale, un altro è proporsi di attuare un programma del genere con la formula, di sovietica memoria, del socialismo in un paese solo. La ritrovata sovranità del Paese (che peraltro nell’Unione europea già godeva, prima del referendum dello scorso anno, di condizioni di particolare favore) è diventata intanto la retorica dominante non solo del partito conservatore, che molla i valori di apertura del liberalismo in nome della sicurezza e di un ritrovato orgoglio nazionale, ma anche dei socialisti in cerca di un rinnovato rapporto con i ceti popolari spaventati dalla immigrazione e stufi delle politiche di austerity, dei tagli alla spesa e della riduzione dei servizi pubblici.

Populismo della più bella marca? Può darsi. Ma se il partito laburista ha virato a sinistra è anche perché le aperture al centro del New Labour, negli anni del blairismo, hanno molto meno senso quando lo spazio politico del centro si riduce, le diseguaglianze aumentano e invece diminuisce l’indice di fiducia (e la stessa consistenza) delle classi medie. Che è quello che sta accadendo oggi, in Gran Bretagna e non solo.

Così Corbyn, col suo ritorno allo Stato e al welfare, forse non vincerà ma intanto convince. O meglio: fra i suoi, cioè nelle primarie per la leadership del Labour party, vince non una ma due volte: nel 2015 e poi di nuovo nel 2016. E lievita il numero degli iscritti al partito. Nonostante i gruppi parlamentari contrari, nonostante Tony Blair (o magari proprio grazie alla sua avversione, visto il discredito in cui in patria è caduto fra gli elettori di sinistra per via delle bugie sulla guerra in Iraq), nonostante lo scetticismo dei grandi giornali, nonostante i sondaggi che gli riconoscono una bassa credibilità come Primo Ministro: nonostante tutto Corbyn si è preso il partito.

Dopodiché le cose di sinistra che ha cominciato a dire hanno fatto breccia, soprattutto nell’elettorato giovanile (con un consenso che presso le giovani generazioni ha viaggiato intorno al 70%). In piazza e nei comizi il vecchio Jeremy, barba brizzolata e maniche rimboccate, ha funzionato alla grande, anche se ingessato dentro l’etichetta ufficiale del Regno, tra un cappellino della Regina Elisabetta e un the a Downing Street, solo in pochi riescono ad immaginarlo.

Questa poi è la ragione per cui Corbyn ha dovuto vincere scetticismi e diffidenze. Che lo si vota a fare un leader che rassicura la propria base sociale di riferimento, ma ha nulle o quasi nulle possibilità di conquistare la maggioranza del Paese?

I critici malevoli hanno perciò paragonato Jeremy Corbyn a Michael Foot. Foot fu un leader molto popolare del partito laburista, che ebbe però la sventura di scontrarsi alle elezioni contro la Lady di Ferro, Margaret Thatcher. E di perdere rovinosamente. Molto amato, molto stimato, Foot aveva grandi capacità oratorie e un profilo morale indiscutibile. Ma parlava solo agli iscritti e ai simpatizzanti tradizionali del partito, senza riuscire a rimescolare almeno un po’ le carte. Ora è vero: Corbyn ha un profilo politico assai simile, ma soprattutto riesce a dare una visione forte dei compiti e degli obiettivi di un partito di sinistra, dopo anni da tutti trascorsi a spiegare che le ideologie sono finite. Invece no. E lui, che sembrava finito ai margini della politica, ha invece potuto conquistare a sorpresa il centro della scena. Un gran risultato, anche se alla fine gli applausi dovessero toccare alla nuova signora della politica britannica.

(Il Mattino, 9 giugno 2017)

Terrore e modernità: le radici dell’Isis spiegate agli occidentali

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Disponiamo di tre paradigmi principali di interpretazione del terrorismo jihadista: il primo può esser fatto risalire alla teorizzazione dello scontro di civiltà del politologo americano Samuel Huntington; il secondo si situa nell’eredità del marxismo, e mette sotto accusa le gravi diseguaglianze economiche e sociali fra le diverse aree del pianeta; il terzo chiama in causa la religione, e più in particolare una certa visione, fortemente eretica, dell’islam. Nessuna di queste interpretazioni è sufficiente: le civiltà non sono blocchi monolitici, la povertà non basta da sola ad armare il terrorista; la religione non è vero affatto che significhi violenza, ogni qual volta voglia darsi una presenza e una rilevanza nella vita pubblica. Queste importanti correzioni si trovano, con dovizia di argomenti, nell’ultimo libro di Donatella Di Cesare, «Terrore e modernità» (Einaudi, € 12), e consentono, tra le altre cose: di opporre forte resistenza alla lettura neo-conservatrice della guerra fra l’Occidente e l’Islam; di spiegare certi sbandamenti della sinistra internazionale, indecisa se riconoscere nell’islamismo radicale un avversario o un alleato nella lotta contro il capitale; di limitare infine le pretese del laicismo di ergersi a unico, comune denominatore dei regimi democratici, col risultato di acuire, invece di risolvere, lo scontro fra cultura religiosa e cultura laica.

Ma il libro è utile anche per altre due ragioni. Perché, in primo luogo, mostra, in una prospettiva storica, il disegno politico entro il quale vanno collocati gli attacchi terroristici recenti, muovendo anzitutto dalle radici teoriche, rintracciabili nel pensiero di Sayyd Qutb (di cui tanto Osama bin Laden quanto il leader dell’autoproclamato Stato islamico, il califfo al-Baghdadi, si sono riconosciuti discepoli), e cioè nel «progetto di una teocrazia assoluta, realizzato nella umma, e affidato a una “avanguardia” rivoluzionaria che, grazie al jihad, deve fare tabula rasa di tutte le ideologie e di tutte le istituzioni precedenti». Ed è utile perché, in secondo luogo, fornisce il contesto più ampio entro il quale provare a comprendere (che non vuol dire giustificare) il fenomeno. Il contesto è descritto da tre parole: globalizzazione, modernità, sovranità. Ciascuna di queste parole designa un tratto tipico della civiltà occidentale, del quale difficilmente potremmo fare a meno: non riusciamo infatti a pensare una forma politica che deponga la categoria della sovranità; non riusciamo a pensare una civiltà che non si autocomprenda come moderna, laica e illuministica; non riusciamo a pensare le sfere dell’economia, della tecnica e della comunicazione se non in termini globali, come fenomeni illimitatamente espansivi. La tesi del libro, però, è che il terrorismo appartiene costitutivamente a questo spazio, ed è dunque illusorio ritenere che più modernità, più globalizzazione, più sovranità bastino a cancellarlo. C’è anzi il rischio che l’«insonnia poliziesca» – così la chiama la Di Cesare con un’immagine felice, presa in prestito dalla filosofia di Emmanuel Lévinas – riduca gli spazi della democrazia. La conclusione del saggio resta così aperta, com’è aperta la storia del mondo, nonostante l’utopia neoliberale della “fine della storia”: da un lato la guerra al terrore sta infatti erodendo le istituzioni democratiche; dall’altro, però, la democrazia mostra di possedere, a differenza dei regimi autocratici, «una sua insita elasticità, che potrebbe dar prova di un’inattesa resistenza nella lunga durata».

(Il Mattino, 6 giugno 2017)