Telefono a Rocco Ronchi. Lo conosco da anni, forse mi fa velo l’amicizia ma lo considero tra i pochi che fanno oggi filosofia in Italia senza rinunciare a pensare, invece di rimasticare pensieri altrui. Il suo ultimo libro, «Canone minore», uscito poche settimane fa da Feltrinelli, è tra i libri più importanti dell’ultimo decennio (mi tengo basso). Lo chiamo però per chiedergli non di Platone, Bergson o Deleuze, ma per via del suo ultimo intervento, apparso sul sito online Doppiozero, in difesa di Massimo Recalcati. Psicanalista lacaniano ormai noto anche al grande pubblico, Recalcati ha avuto l’improntitudine di schierarsi al fianco di Renzi e del Pd durante le primarie; ha partecipato all’evento del Lingotto, ha accettato di dirigere la scuola di formazione del partito; l’ha infine intestata all’ultima, controversa icona laica della sinistra, Pier Paolo Pasolini. Apriti cielo! Sono fioccate le scomuniche, l’ultima delle quali ha avuto del clamoroso: a ripudiare Recalcati ci ha pensato infatti, intervistato da Il Fatto quotidiano, nientemeno che Jacques-Alain Miller, il patrono di tutti o quasi i lacaniani del mondo, che ha dipinto Recalcati come una sorta di malefico Rasputin.
Ronchi è in treno. La conversazione procede tra continui salti di linea, che si traducono in pause di riflessione. Ma provo ugualmente a chiedergli perché un risentimento così diffuso: è una disputa che riguarda l’eredità della psicanalisi, si tratta solo dell’invidia per l’intellettuale di successo?
Il successo di Recalcati non è un successo puramente mediatico, ma si innesta su un bisogno condiviso: quello di comprendere la “mutazione antropologica” – ancora in corso – di cui il berlusconismo è stata la più compiuta espressione. Utilizzando uno dei più sofisticati modelli concettuali, la psicoanalisi lacaniana, Recalcati ha elaborato una diagnosi del nostro presente storico. Si può non essere d’accordo con lui – io, ad esempio, non lo sono – ma si deve comunque riconoscere che Recalcati non ha mai evaso la sua responsabilità di intellettuale. Recalcati ha preso posizione e ha trovato udienza. Il suo successo è, quindi, il successo di una proposta teorica. Il presenzialismo non c’entra. E il successo, anche e soprattutto teorico, dà fastidio. Meglio, perciò, attribuirne le ragioni ai media e alla dabbenaggine del pubblico.
Quello che più mi ha colpito nel tuo articolo su Doppiozero è la descrizione di come funziona il significante “Renzi”, sentina di ogni risentimento. Da cosa dipende secondo te un simile atteggiamento? È questione politica, storica, antropologica? È questione tipicamente italiana?
Io tratto Renzi come un significante. Non mi interessa la verità su Renzi, ma gli effetti di senso che produce nel discorso pubblico. E tra questi, il fastidio è senza dubbio quello più eclatante. Presso un certo mondo intellettuale di sinistra (dunque in quasi tutta la sinistra), esso sfocia addirittura nella ripulsa. Quando ci si ritrova a conversare ai margini di un convegno o nei corridoi dell’università l’antirenzismo è dato per scontato, ritenuto perfino troppo ovvio per poter essere ribadito. Fascisti e razzisti godono di migliore trattamento. Perché? Che cosa disturba e spaventa a tal punto la sinistra e gli intellettuali (che sono la stessa cosa)? La risposta che mi do, ben conscio di scontare un profondo isolamento, è che il significante “Renzi” (che si associa automaticamente ai significanti “riforma”, “governo”, “potere”) stana la sinistra intellettuale dall’angolino appartato in cui si è confinata per condurre un’esistenza comoda all’insegna del primato della morale e dell’indignazione nei confronti dei “mali del mondo”. Il cantuccio, però, si trasforma in un luogo privilegiato quando coincide, com’è il caso della sinistra, con la sede centrale della buona coscienza che gode del monopolio delle cause “buone e giuste”. Ecco: il significante “Renzi” è insopportabile perché disturba il sonno della sinistra, il suo compiaciuto considerarsi “l’angolino pulito del mondo”.
C’è un altro aspetto che mi pare torni in questa querelle, e riguarda la potenza (o l’impotenza?) nello spazio pubblico del sentimento di indignazione, la cui titolarità sembra appartenere in via esclusiva a una certa tribuna intellettuale, quella che sta – come dici tu – nell’angolino. A me i suoi effetti sono sempre sembrati puramente reattivi. Ti domando: si può costruire un progetto politico collettivo fondandolo sull’indignazione?
L’indignazione è un sentimento reazionario. Non solamente pre-politico ma decisamente anti-politico. L’indignato parla in nome del bene violato. La purezza è il suo vessillo. L’impurità sta tutta dalla parte dell’altro, senza mediazioni né sfumature. Bisogna diffidare a priori di qualsiasi movimento sociale che abbia il suo collante nell’indignazione, così come bisogna diffidare a priori, nelle relazioni personali, di qualsiasi individuo che sia privo del senso dell’umorismo. L’umorismo è il rovescio dell’indignazione o, se si vuole, è l’indignazione politicamente educata e fattasi tollerante.
Mi pare di capire che tu trai motivo per una diagnosi più generale sulla cultura contemporanea. Puoi indicarci quali sono i tratti che secondo te l’affaire mette in luce, quali nodi vengono al pettine. C’è forse bisogno di rottamare anche pezzi se non della cultura, delle istituzioni culturali del nostro Paese? (Il termine “rottamazione” è mal scelto, anche per Recalcati. Allora diciamo: bisogna tornare a filosofare col martello?).
Filosofare col martello significa filosofare in modo efficace e restituire alla cultura (che, nella sua radice, è filosofia e solo filosofia) una potenza reale. L’impotenza – o come più dottamente si dice “l’inoperosità” – è, invece, il liquido amniotico in cui galleggia l’intellettuale moderno. Come dice sempre Nietzsche «i moderni ne sanno troppo per poter agire». Soprattutto ne sanno troppo su se stessi. Le sole ragioni che l’intellettuale moderno sa esibire sono, infatti, ragioni per non agire. Di qui l’indignazione che solitamente prova nei confronti di qualsiasi azione e che, contrariamente a quanto si crede, non è diretta al suo contenuto quanto, piuttosto, alla sua “semplice” forma (ecco perché il significante “Renzi” produce effetti così negativi). Per l’intellettuale moderno agire è il male. Non agire è il bene. Il problema più grave è, però, che molto spesso si confonde l’inoperosità col giudizio critico e si eleva quest’ultimo a criterio normativo cui conformarsi e con cui passare al vaglio il resto del mondo il quale, nella misura in cui agisce e non può non agire, è condannabile e condannato. A salvarsi è infatti sempre e solo chi giudica perché solo chi giudica fa il “bene”.
Posso chiederti se c’è però anche qualcosa, nella linea che Recalcati ha indicato nei suoi libri (da «Cosa resta del padre?» in poi) su cui ti sentiresti di aprire a tua volta un confronto con la sua interpretazione di Lacan?
La lettura che Recalcati offre di Lacan è una lettura esistenzialista e cristiana di stampo levinassiano. Nelle sue mani il volto di Lacan si confonde con quello di Levinas perché il desiderio lacaniano, nell’interpretazione che ne dà Recalcati, assomiglia molto al desiderio che, secondo il filosofo francese, struttura l’esperienza: desiderio dell’infinitamente Altro, vertiginosa trascendenza. Lettura affascinante. ma molto distante dal mio pensiero e dal mio modo di intendere Lacan, modo che, per certi versi, è più prossimo a quello del maestro-nemico di Recalcati: Jaques Alain Miller. Per me Lacan è un filosofo dell’immanenza assoluta, un pensatore radicalmente monista che rifiuta il primato dell’uomo in tutte le sue forme. Là dove Recalcati vede un’etica io vedo, infatti, una filosofia della natura.
Un altro punto su cui ti soffermi nel tuo articolo è la figura di Pasolini, al quale Recalcati ha deciso di dedicare la scuola del Pd. Non si tratta ovviamente di arruolare Pasolini, ma le critiche dell’ultimo Pasolini all’istituzione scolastica a me sembrano poco compatibili con una simile scelta. Senza dire della sua profonda distanza dall’imperativo ‘progressista’, di modernizzazione, che sembra appartenere all’identità del partito democratico, non certo a Pasolini…
Non è solo per la sua critica dell’istituzione scolastica (una critica, invero, banale e non originale: Ivan Illich aveva detto meglio) che mi sembra insensato battezzare con il nome di Pasolini una scuola di partito. Tutto Pasolini, e in particolare il Pasolini “corsaro”, è in contraddizione con un progetto politico riformista e pragmatico. La critica pasoliniana della modernità è senza scampo; la sua opzione reazionaria è definitiva. Il suo populismo estetizzante e demagogico ne fa, semmai, una buona bandiera per i tanti movimenti identitari che fioriscono nel mondo. Niente a che fare, insomma, con un significante, come quello di “Renzi”, che, nei suoi effetti di senso, si lega, nel bene e nel male, a quelli di “cambiamento”, “sperimentazione” e “progresso”. Perciò chi vede nella scelta di dedicargli una scuola di partito il tentativo di stravolgerne la “genuina natura eretica” si sbaglia. È piuttosto vero il contrario: quella scelta fa di un intellettuale organico, campione della tradizione (soprattutto immaginaria), il titolare di un progetto modernista ed eretico (per la storia italiana).
Il tuo ultimo libro «Il canone minore» ha in realtà un’enorme ambizione, che è quella di tirar via il discorso filosofico dalle secche in cui si è cacciato: senza più pretese speculative, la filosofia è divenuta solo una voce nella conversazione dell’umanità, come diceva Richard Rorty. Ma è ancora possibile coltivare quelle pretese? Come oltrepassare l’orizzonte del relativismo contemporaneo?
Dici bene. L’ambizione è enorme e non è detto che le mie forze ne siano all’altezza, ma sono certo che l’obiettivo è quello giusto. La filosofia che mi ha cresciuto, in tutte le sue declinazioni (dall’ermeneutica al pensiero debole, dal decostruzionismo alla filosofia analitica) si fondava sulla persuasione che la filosofia fosse impossibile. Braccandosi furiosamente, procedeva a “smascheramenti” sempre più radicali e, sottoposta a questa sfinente autocritica, la filosofia è diventata solo un “gioco linguistico” tra gli altri. Un filosofo moderno, si diceva, è colui che sospende e relativizza il progetto imperialista dell’Occidente mostrandone la natura di “favola”. Non è allora un caso se la fine del secolo scorso ha visto trionfare, su scala planetaria, i gender e i cultural studies, veri eredi dell’autodissoluzione del filosofico. Il canone minore di cui parlo resiste a questo “destino” maggioritario e, tracciando nuovi sentieri speculativi nel contemporaneo, prova a schizzare un’altra storia. Una storia nuova, che accoglie però un’antica sfida, quella formulata da Platone nel «Parmenide»: provare a delineare le condizioni alle quali la filosofia possa finalmente cominciare.
(Il Mattino, 11 giugno 2017)