Archivi del giorno: luglio 1, 2017

Gli egoismi che disfano l’Europa

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La risposta dell’Unione europea non si sa se arriverà; di sicuro però si farà attendere. Conta poco che il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, abbia definito eroici gli sforzi che l’Italia è chiamata a compiere per dare accoglienza ai migranti, in realtà siamo alle solite: non c’è, allo stato, alcuna comune volontà dei Paesi europei di far fronte alla situazione. Così ascoltiamo quello che pensa la Francia, che parla per bocca di Macron e dichiara disponibilità ad accogliere i soli rifugiati, non i «migranti economici». Poi sentiamo la Cancelliera Merkel affermare con maggiore generosità (almeno a parole) che l’Italia e la Grecia non vanno lasciate sole. Registriamo gli apprezzamenti per l’impegno italiano e lamentiamo invece che alcuni paesi europei se ne lavino le mani; ma in questo confuso concerto di voci discordi, regolate esclusivamente dagli interessi nazionali, si disperde il significato stesso dell’unità europea. Non si capisce dove si trovi, chi la rappresenti, in che modo si senta chiamata in causa. In realtà, non c’è, in questo momento, nessun altro tema nell’agenda europea che sia declinato su base nazionale più del tema migrazioni. E d’altra parte non c’è nessun altro tema che, più di questo, possa mai trovare soluzione su un piano meramente nazionale. Perché non è una soluzione la chiusura delle frontiere, così come non lo è l’apertura. Respingere, così come accogliere, sono verbi che richiedono di essere costruiti in una frase: quando, dove, come.

Lo si vede bene dal gesto spazientito che ha spinto il governo italiano a minacciare la chiusura dei porti alle organizzazioni non governative che portano sulle nostre coste, quotidianamente, migliaia di migranti. A parte i complessi problemi legati al diritto internazionale (ma un’emergenza è un’emergenza: e il diritto, soprattutto il diritto internazionale, finisce di solito con l’adeguarsi), è chiaro che per il ministro dell’Interno, Marco Minniti, non si tratta di una soluzione, ma di una misura resa necessaria, oltre che dal numero eccezionale di sbarchi di queste ore, dalla difficoltà a spiegare cosa mai impedisca alle navi di attraccare in altri porti: maltesi, spagnoli o francesi. Minniti ha detto: «sarei orgoglioso se di tutte le navi che operano nel Mediterraneo centrale una sola, una soltanto, anziché arrivare in Italia arrivasse in un altro porto europeo». Doveva solo aggiungere che sarebbe stato orgoglioso di essere europeo, ed è proprio questa l’aggiunta che manca. Una gestione comune del fenomeno, sia in termini di rimpatri che in termini di ricollocamento nei Paesi dell’Unione, non c’è. Il piano Juncker di ripartizione pro quota dei nuovi arrivi (che pure vale solo per i rifugiati, aventi diritto alla protezione internazionale) è un clamoroso fallimento. E soprattutto non c’è una politica estera comune verso i Paesi africani.

È bene essere chiari: le politiche di accoglienza sono politiche umanitarie: benemerite, ma da sole non possono bastare. Diviene anzi sempre più difficile mantenerle, se non sono affiancate da tutto ciò che uno Stato (e una comunità di Stati, se esiste) può fare per regolare i rapporti coi Paesi viciniori. Finché la Libia rimarrà nell’attuale situazione di instabilità, rimarrà anche il corridoio lungo il quale si riverseranno tutti coloro che cercano in Europa migliori condizioni di vita. Possiamo resistere all’idea che i barconi carichi di migranti debbano essere respinti, solo se non ci limitiamo ad attrezzarci per i salvataggi in mare, ma proviamo anche a ridurre a monte i flussi migratori. Diversamente, non ci tireremo via dalla trappola umanitaria che gli egoismi degli altri Stati membri dell’Unione scarica sul nostro Paese. Perché non è per una cieca fatalità che la meta preferita degli scafisti che attraversano il Mediterraneo è l’Italia, e la rotta libica il percorso più affollato. Ciò dipende da un calcolo preciso, da una diversa probabilità di successo, assicurata lungo queste vie, e per esempio dalla forte riduzione dell’agibilità della rotta balcanica. Dunque non si tratta di fenomeni fuori da ogni controllo. È anzi evidente che qualora diminuissero dovessero diminuire le aspettative di un buon esito, diminuirebbero anche gli sbarchi.

Orbene, se non si vuole tradurre questo assioma spietato ma evidente in una politica attiva di respingimenti, bisogna almeno che si rendano disponibili altre leve di azione. Se quelle detenute dall’Unione latitano, e quelle a disposizione del nostro Paese si rivelano insufficienti, allora non ci sarà accoglienza che tenga. E il rischio che cresca il numero di coloro che saranno accolti solo dalle onde del mare aumenterà enormemente, macchiando per sempre l’onore dell’Europa.

(Il Mattino, 1° luglio 2017 – pubblicato su Il Messaggero col titolo “Paghiamo le furbizie dell’Europa)

Napoli, la Procura scoperta e i giochini delle correnti

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Dal momento in cui il procuratore Colangelo ha lasciato la Procura di Napoli sono trascorsi 148 giorni, circa cinque mesi. L’ufficio statistico del Csm, che ha analizzato l’attività del Consiglio mettendola a confronto con quella svolta nelle precedenti consiliature, non troverebbe questo numero elevato, tutt’altro. I tempi medi che intercorrono tra l’apertura della pratica e la delibera di conferimento dell’incarico ammontano infatti a 295 giorni. E sono pure in calo, visto che nella consiliatura precedente erano 344: quasi un anno. Il ritardo, dunque, non è affatto anomalo. E però lo stesso Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, mentre faceva presente a questo giornale, lo scorso 29 marzo, che la pratica è spinosa, che il Csm ha da smaltire un numero eccezionale di nomine, e che la sua produttività è stata comunque superiore a quella degli anni passati, formulava comunque l’auspicio che la sede della procura più grande d’Italia potesse avere un procuratore presto, «prima dell’estate».

Ora, se si riferiva all’inizio dell’estate astronomica, l’auspicio non si è realizzato perché l’estate è cominciata puntuale – il 21 giugno, alle 4,24, ora del solstizio – e il procuratore a Napoli non c’è ancora. Se invece intendeva riferirsi alla conclusione della stagione, allora mancano ancora poco meno di tre mesi: ma davvero la Procura di Napoli può attendere altri tre mesi senza la nomina del suo vertice?

A leggere le pagine dei giornali su inchieste scottanti, fughe di notizie clamorose, avvisi di garanzia mai spiccati prima, intercettazioni e manipolazioni, c’è da dubitarne. Naturalmente nessuno mette in discussione la serietà, l’impegno e le capacità del procuratore aggiunto, Nunzio Fragliasso, che sta reggendo la Procura in questi mesi. Ma la complessità di un ufficio gravato da una enorme mole di lavoro, con molte inchieste delicate per le mani, esposto anche a polemiche e sollecitazioni le più diverse, esige che si proceda con la massima sollecitudine. Tanto più che si tratta di indicare una figura istituzionale di assoluto rilievo, a cui spettano non solo grandi responsabilità ma anche una cifra simbolica ragguardevole, soprattutto in una città come Napoli.

Ora, non c’è bisogno di chissà quale retroscena per comprendere le ragioni per cui si temono ulteriormente slittamenti, oltre la prossima riunione della Commissione deputata, fissata per il 6 luglio, e, a quel punto, ben oltre il solleone agostano. Quelle ragioni stanno infatti nelle parole molto franche e molto trasparenti usate dallo stesso Legnini, nella citata intervista napoletana: «Tutti sappiamo che la scelta del Capo di un ufficio è il frutto della coniugazione di valutazioni di merito con il voto in Commissione e in Plenum, essendo il Csm un organo elettivo e democratico». Manca la parola “politico”, ma è chiaro che dove c’è democrazia e dove ci sono elezioni c’è, legittimamente, la politica. Con questo Csm, c’è poco da fare: questo è il metodo. Altre volte Legnini ha spiegato, parlando del lavoro del Csm in materia di nomine, che bisogna riconoscere il cambiamento in atto: «è in corso un eccezionale ricambio alla guida degli uffici, che ridisegnerà il volto del sistema giudiziario italiano, con magistrati scelti per incarichi di vertice in base al merito».  Ma per esplorare i meriti dei principali candidati in lizza, non ci vogliono tutti questi mesi. Indipendenza e professionalità non sono in discussione: il punto forte del curriculum di Federico Cafiero de Raho è la sua esperienza investigativa; il punto forte del curriculum di Giovanni Melillo è la competenza in materia di organizzazione degli uffici. Questa essendo la materia della decisione, si tratta appunto di decidere. Se non si vuole dare l’impressione che la «coniugazione di valutazione di merito» passi del tutto in secondo piano rispetto al coniuge con cui la si deve coniugare, cioè alla composizione degli equilibri fra le correnti, bisogna allora estrarre senza indugi dal pacchetto delle nomine la procura di Napoli e procedere, con una piena assunzione di responsabilità da parte del Csm.

Anche perché se non c’è oggi un vuoto di direzione, c’è sicuramente bisogno di un cambiamento di direzione rispetto a situazioni consolidate, a modalità di lavoro e a linee di azione giustificate più dall’abitudine che dai risultati. E più dalla ricaduta nel dibattito pubblico che da quella nelle dinamiche processuali in aula.

Il progetto di innovazione portato avanti nei mesi scorsi dalla procura di Napoli, e i cambiamenti radicali che saranno comportati dalla piena digitalizzazione dei fascicoli penali, impongono un ripensamento degli assetti operativi, organizzativi e tecnologici degli uffici. La lentezza della giustizia non è infatti solo un problema normativo, ma è anche un problema organizzativo: a Napoli, e in tutta Italia. Certo però che se, per far maturare il «frutto della coniugazione» ci vuole così tanto tempo, allora non c’è innovazione né organizzazione che tenga: si rischia di rimane chissà quanto sotto l’albero del Csm col braccio teso, ad aspettare.

(Il Mattino, 29 giugno 2017)