Archivi del mese: agosto 2017

Il brutto clima e le decisioni da prendere

Nauman

B. Nauman, Body Pressure (1974)

Ho l’impressione che occorra affrontare una domanda preliminare per mettere un po’ di riflessione sui fatti intorno ai quali si arroventano le polemiche di questi giorni. Parlo naturalmente della questione migratoria, che si presenta ora sotto l’aspetto degli sbarchi, ora sotto quello degli sgomberi, ora nei rapporti con l’Unione europea, ora nelle responsabilità dei sindaci. Nulla e nessuno ne viene risparmiato, se a Pistoia il vescovo deve mandare il suo vicario generale a concelebrare la messa con don Massimo Biancalani, dopo l’annunciata partecipazione di «militanti forzanuovisti» di estrema destra, preoccupati di vigilare de visu sull’effettiva dottrina professata dal sacerdote pro-migranti. È sicuramente un episodio, ma un episodio indicativo di un clima parecchio invelenito, in cui qualunque gesto di accoglienza o di integrazione viene considerato complice di una sconsiderata politica immigrazionista che mina alle radici, in un irresistibile climax, prima l’ordine pubblico e la sicurezza, poi il benessere degli italiani, infine l’identità della Nazione e i suoi fondamenti storici, etici e spirituali. Ma è vero altresì che qualunque iniziativa presa dal Viminale o dalle Prefetture, per il solo fatto che a muoversi sono le forze dell’ordine, diviene espressione di intolleranza e di autoritarismo. Ogni volta che la polizia usa un idrante c’è qualcuno che cita Pinochet. Lo sgombero dello stabile di via Curtatone non è stato certo un capolavoro di efficienza – come del resto non lo sono stati gli anni in cui l’edificio è rimasto occupato nell’indifferenza generale – ma la polizia che interviene non assume, per il solo fatto di intervenire, l’aspetto di una falange fascista. Solidarietà e accoglienza non si fanno gettando per strada i rifugiati, ma non si fanno nemmeno stipandoli per anni in un palazzo in cui gli operatori sociali non riescono nemmeno a entrare.

Clima invelenito, polemiche surriscaldate dal lucro politico che sulla questione migranti è possibile realizzare facilmente, per cui i soldi spesi per le politiche di integrazione sono tolti agli italiani che se la passano male e i migranti sono quelli che stanno tutti in alberghi a quattro stelle (e ora don Biancalari li porta pure in piscina). Ma sono polemiche complicate anche dalle astratte posizioni di principio che rifiutano di guardare di volta in volta, nella concretezza delle situazioni reali, cosa mai da quei principi principia. Cioè succede davvero. È stato così con il codice Minniti, che addirittura per taluni non sarebbe figlio di una cultura democratica, anche se le politiche messe in campo dal governo ci hanno risparmiato un’estate di immani tragedie in mare: non solo meno sbarchi, ma anche meno morti nelle acque del Mediterraneo.

Qual è allora la domanda preliminare? Eccola: cosa significa essere cittadini? Questa domanda ha sicuramente un risvolto teorico, e chiama in causa secoli e secoli di riflessione filosofico-politica, accompagnando praticamente tutto il corso della storia umana. Ma ha poi anche un lato sociologico, pratico, che riguarda la maniera in cui gli italiani si sentono cittadini. Attenzione: non cosa significa essere italiani, ma cosa per gli italiani significa essere cittadini. E cioè: cosa ritengono che essi debbano alla condizione della cittadinanza, quali diritti e quali doveri sono ad essa legati, chi sono disponibili a considerare cittadini alla loro stessa stregua, quali formazioni simboliche sono coinvolte nel modo in cui essi si sentono cittadini, in che modo si sentono effettivamente accumunati da questa condizione, e così via. Ho il timore che anche nel dibattito sul cosiddetto ius soli (che dovrebbe riprendere a settembre, ma chissà) questa domanda non sia stata seriamente presa in considerazione. Eppure è lì la chiave: prima ancora di capire chi siano i migranti, cosa dobbiamo o non dobbiamo loro in termini morali, giuridici o politici, noi dovremmo sapere chi siamo noi, quale comunità politica formiamo in quanto cittadini di una democrazia costituzionale. Ho paura infatti che la dimensione normativa connessa all’idea della cittadinanza sia per noi italiani veramente troppo gracile, e finisca spesso per essere completamente schiacciata dal peso degli umori e dei sentimenti. E, certo, anche dei pregiudizi e delle ideologie. Solo così si spiega perché ogni appello alla legge, in questo Paese, suona invariabilmente di destra. Ma si spiega pure perché troppo spesso alla destra slitti la frizione, dimenticandosi che essere italiani significa esserlo come cittadini, dentro un quadro costituzionale di diritti e di garanzie, a sua volta inserito ormai in una cornice di diritto europeo e internazionale che è parte altrettanto irrinunciabile della nostra cittadinanza. Così ci sono quelli che rifiutano anche solo l’idea che si possa mettere fine a un’occupazione illegale, e quegli altri che se sentono parlare di diritto del mare o di protezione internazionale gridano subito alla sovranità violata. Gli uni e gli altri non fanno che agitare bandiere. Gli uni in nome di un umanitarismo di fatto inconcludente condannano lo Stato italiano (e dunque loro stessi) all’impotenza; gli altri in nome di un malinteso sovranismo perpetuano condizioni di emarginazione, esclusione e conflitto, riducendo gli spazi di libertà e di democrazia (e quindi i loro stessi spazi). Le politiche di integrazione non si fanno né in un modo né nell’altro, ovviamente. Però vanno fatte. E siccome sono politiche, cioè cose che richiedono tempo perché dispieghino i loro effetti – soprattutto innanzi a fenomeni di lunga portata come le migrazioni in corso – bisogna che ci sia una cultura preparata a sostenerle. Malauguratamente, a volte, i luoghi dove ospitare i rifugiati non sono l’unica cosa che manca. E la cultura: non c’è prefetto, purtroppo, che possa requisirla da qualche parte.

(Il Mattino, 28 luglio 2017)

I ragazzi qualsiasi che diventano fanatici dell’odio

morris Blind Time Drawnings

R. Morris, Blind Time Drawings (1973)

Tristi. Isolati. Vili. Sono così i terroristi? Così li ha dipinti, con convinzione, Kevin Spacey, l’attore americano ieri a Roma per presentare il suo ultimo film. Ma davvero erano così i fratelli Kouachi – 33 anni l’uno, 32 l’altro – e il loro amico Amedy Coulibaly, anni 32, responsabili i primi dell’assalto alla redazione di Charlie Hebdo, l’ultimo della strage al supermercato kosher di Parigi, nel gennaio 2015? E i giovani della strage del Bataclan, sempre a Parigi? E Mohamed Lahouaiej Bouhlel: che uomo era Bouhlel, che vita conduceva colui che, sulla promenade di Nizza, ha lanciato il camion sulla folla che festeggiava il 14 luglio? Ed erano così anche gli attentatori di Londra, di Bruxelles o di Madrid? Così erano Moussa Oubakier, 17 anni, Mohamed Hychami, 24 anni, Said Aallaa, di anni 18, e gli altri membri della cellula terroristica che ha seminato il terrore sulle ramblas di Barcellona?

È impossibile tracciare un unico profilo psicologico, così come è impossibile desumere dalle loro abitudini di vita una qualche relazione con la scelta terroristica. Usano i social network, frequentano il quartiere e la moschea, a volte continuano a vivere in famiglia, le loro esistenze non sono molto diverse da quelle dei loro coetanei. Non sono più isolati dei loro compagni; probabilmente non sono nemmeno più tristi di loro: abbiamo anzi foto che li ritraggono sorridenti con un’arma da fuoco tra le mani.  Quanto alla viltà, chi può dirlo? Forse, accusandone la viltà, proviamo anzitutto a fare coraggio a noi stessi.

Però odiano con tutte le loro forze l’Occidente, l’Europa, il Paese in cui vivono. Di che natura è questo odio? Il sociologo francese Dominique Moïsi ha tracciato dopo l’11 settembre un quadro delle relazioni internazionali dominato dalle emozioni: dalla paura in Occidente, dalla speranza nei paesi asiatici emergenti, dall’umiliazione nella galassia musulmana. Questi giovani odiano perché vivono come un’umiliazione la loro storia passata e la loro presente condizione. Non basta la povertà o l’emarginazione: non tutti vivono in situazioni di disagio economico e sociale, e d’altra parte molti, la più gran parte che versa in simili condizioni, rimangono lontanissimi da scelte violente. Ma tutti sono convinti che l’Islam debba sollevarsi contro il Satana occidentale, contro i cristiani, contro i sionisti. E tutti accusano la sudditanza dei governi islamici verso gli Stati Uniti e i loro alleati. Tutti inneggiano al jihad e tutti gridano vendetta. E, certo, nessuna radicalizzazione è possibile senza che si accetti questa potente costruzione ideologica, spinta fino al parossismo dell’odio politico e religioso.

Ma di nuovo: perché questa narrazione riesce a far presa? Robert Musil diceva che l’anima è come il tarlo che scava nel legno: «può contorcersi come vuole, perfino tornare indietro, ma si lascia sempre alle spalle uno spazio vuoto». C’è un vuoto, un vuoto d’anima, dietro certe storie, certe biografie. Certo, è più facile pensare che i terroristi siano per lo più disadattati, o persone affette da seri disturbi psichici. O almeno persone fortemente condizionabili, su cui un imam infervorato può esercitare una forte influenza. Oppure, chissà, ragazzi senza arte né parte, nullità che nel gesto supremo dell’attentato, in cui sono persino disponibili a dare la loro stessa vita, provano a riscattare un’intera esistenza: innanzi ai loro stessi occhi e a quelli della loro cerchia di parenti ed amici. Secondo alcuni studiosi, occorre una forte componente narcisistica, per prendere la strada della radicalizzazione e del martirio. Ma forse, al fondo, è quel vuoto, è l’insopportabile sensazione di non aderire veramente, di non esser davvero parte del mondo pubblico in cui tutti viviamo, che li spinge sino a desiderare il “martirio”. La propria morte per la morte di quel mondo.

Neanche questa è una spiegazione, naturalmente. Ma almeno ci evita di farla semplice, di considerare i terroristi come folli o come bestie, come assolutamente altri da noi. Non è così: non lo era per i nazisti, come comprese Primo Levi; non lo sono nemmeno i vendicatori suicidi dell’Islam. Che giocano alla playstation, frequentano palestre e moschee, comprano magari quelle stesse merci che simboleggiano lo sfrenato consumismo occidentale. Fino però al giorno in cui si radicalizzano, gettandosi a capofitto nella spirale del fanatismo. Un percorso che spesso non è nemmeno lungo, che non richiede un indottrinamento particolarmente approfondito, ma che versa fiumi di benzina in quel vuoto che nessuna emancipazione sociale, economica o giuridica promette di colmare, e che in mancanza di uno spazio politico percorribile si fa incendio. Vogliono di più, vogliono sentirsi integri, giusti, puri. Vogliono disprezzare tutto ciò che ai loro occhi appare immorale, debole, meschino. E vogliono passare all’atto, combattere gli infedeli, rovesciare le democrazie atee dell’Occidente.

Hanno nomi stranieri, difficili da pronunciare, che li gettano inevitabilmente in una grande lontananza da noi. Ma l’estetica della violenza, la volontà di potenza, il vincolo di fratellanza che li stringe in un’unica sorte li abbiamo già conosciuti. E li abbiamo chiamati: fascismo.

(Il Mattino, 21 agosto 2017)

La gioventù cancellata dall’odio

Gilliam

S. Gilliam, Fire (1972)

Muoiono, e sono giovani. Uccidono, e sono giovani. Conoscete la canzone «Under the mango tree»? A Vilnius Lancastre, il protagonista del romanzo «Un’aria da Dylan» dello scrittore barcellonese Enrique Vila-Matas, il calipso leggero e scanzonato della canzone dona una lieve felicità: «e allora?», chiede. Che cosa c’è di male ad essere felici grazie a una canzonetta? Che cosa c’è di male se ogni tanto sentiamo il bisogno di respirare un po’ di leggerezza? E cos’altro respiravano, a Barcellona, Luca Russo e Bruno Gullotta, i due italiani vittime dell’attentato sulle ramblas della città catalana? Entrambi erano in vacanza a Barcellona. Bruno era con la sua famiglia, con i suoi figli, con la moglie, quando il furgone lo ha falciato, lasciandolo morire a terra dinanzi agli occhi dei suoi bambini. Luca era con la fidanzata: lei è ferita, per fortuna in modo non grave, lui è stato travolto dal furgone, volato via dalla vita e dalla gioventù per la follia omicida di terroristi forse ancora più giovani di lui.

Che cosa allora significa essere giovani? Avere la feroce determinazione di chi conduce una guerra cieca e indiscriminata contro tutto ciò che odia, o avere la libera spensieratezza di chi vuole vivere qualche giornata da turista in una delle città più giovanili d’Europa?

Nel romanzo di Vila Matas, lo scrittore incontra a un certo punto, in aeroporto, un collega, oppresso al pensiero che ai tavolini dei bar non si parli di libri, ma solo di sport, o «dell’ultimo omicidio in serie o dell’ultimo capo militare arabo detronizzato». E che sui giornali ci siano solo «Wall Street, la Siria, la Libia, l’Iraq, la Grecia, il Giappone o la florida Cina». Ma cosa c’è, nelle nostre vite? Cosa ha diritto di esserci nella vita di un giovane che vive in Occidente, in Italia, che ad agosto va in vacanza a Barcellona, che passeggia sulle ramblas, che magari il giorno prima strabuzza gli occhi dinanzi alla Sagrada Familia di Gaudì e progetta di andare il giorno dopo su, al Parc Güell, che prenota una visita al Museo Picasso o che porta i bambini allo stadio dei mitici blaugrana? E come invece si riempiono le giornate di quegli altri giovani, quelli che trascorrono quelle stesse giornate di caldo e di mare in qualche luogo nascosto, preparando l’attentato, procurandosi armi, studiando percorsi, cospirando e odiando?

Lontano da giorni tragici come quelli che viviamo, siamo disposti a considerare la superficie delle nostre vite, o quella dei nostri ragazzi, non ricca e preziosa, ma vuota e banale: l’ombrellone, la partita di calcio, una settimana da turisti perché a chi non piace viaggiare? Poi quei giorni si avvicinano, piombano tra le nostre strade – a Parigi, a Madrid, ora a Barcellona –. Succede che altri giovani, che hanno in odio (hanno in odio, o segretamente invidiano?) tutta la libertà e il consumismo dell’Occidentale laico, secolarizzato e senza Dio, si mettano al volante di un camion e seminino il terrore tra la folla. D’improvviso la prospettiva cambia. D’improvviso capiamo: non siamo noi i nichilisti, non siamo noi a rendere tutto insignificante ed insensato, non è la nostra libertà senza scopo; è il loro scopo ad essere insensato, è il loro fondamentalismo a strappare alla vita le sue ore più amichevoli e più lievi.

Quando si è giovani è strano: così cantava Guccini nella canzone per un’amica. È strano che la sorte arrivi e ti prenda per mano. Per Bruno e Luca è stata la sorte, una fatalità terribile e assurda: se solo si fossero decisi per la passeggiata un’ora prima o un’ora dopo… Ma per gli assassini che hanno lanciato il furgone contro di loro, e contro tutte le altre persone che camminavamo nella luce piena e indivisa di un pomeriggio agostano, non è stata la sorte: è stata una volontà precisa, deliberata, assoluta. È stata un progetto, un disegno, una missione di morte.

A partire dall’Ottocento, essere giovani è divenuto una categoria e insieme una forza della politica. Se ne sono nutrite le nazioni e le guerre che hanno fatto la storia d’Europa, e del mondo. Oggi alimenta una grande parte del risentimento che solleva il fondamentalismo islamico contro l’Occidente, che venga dall’altra sponda del Mediterraneo o invece sia coltivata nelle periferie delle nostre città, fra giovani radicalizzati della seconda o terza generazione di immigrati musulmani. La democrazia, per costoro, non è una via per l’integrazione e la partecipazione alla vita pubblica. Essere giovani significa voler rovesciare l’ingiustizia del mondo, che offende il loro Dio e le loro stesse esistenze. Può darsi che non scelgano soltanto, ma siano scelti, per i luoghi e le persone con cui si trovano ad essere: il modo, infatti, in cui una scelta si intreccia con una vita è spesso imperscrutabile. Ma noi sappiamo che non hanno ragione. Ci sgomentano le loro grida, e ancor più ci sgomenta la loro età. Perché noi sappiamo che si ha tutto il diritto essere giovani e felici prendendosi qualche giorno di ferie, e che anzi non c’è gioventù che valga la pena di difendere più di questa. Chissà, forse negli spazi infrasottili dell’ironia con cui si scrivono le nostre vite più leggere, anche un dio più amabile e più umano amerà sorridere tra le note di qualche sciocca melodia

(Il Mattino, 19 agosto 2017)

Le inchieste ridimensionate dai tribunali

Hamilton

R. Hamilton, The Critic Laughs (1971)

Investito dalla Cassazione, il Tribunale del Riesame di Roma è tornato a decidere sulle misure di restrizione della libertà a carico di Alfredo Romeo, e questa volta ha mandato libero l’imprenditore napoletano. A marzo dentro, ad agosto fuori. Non c’è nulla che non sia andato secondo le procedure: il gip firma gli arresti, la difesa ricorre e il Tribunale conferma; la difesa ricorre ancora e la Cassazione rinvia al riesame, che questa volta accoglie la richiesta dei legali di Romeo. Tutto regolare, salvo che nel frattempo Romeo ha trascorso quasi sei mesi agli arresti: prima in carcere, poi, nell’ultimo mese e mezzo, ai domiciliari.

C’era, comunque, da aspettarselo: quando, nel luglio scorso, si era pronunciata la Cassazione, era saltato fuori che, a giudizio della Suprema Corte, il Tribunale aveva motivato in maniera largamente insoddisfacente la propria decisione. Ritornando sui propri passi, il Tribunale dà ragione al massimo vertice giurisdizionale. Ma nelle pieghe di quella sentenza si trovava anche affermato un giudizio non proprio lusinghiero sul modo in cui si era proceduto sin lì: la Cassazione non riusciva a capire dove diavolo fosse il «sistema Romeo», o il «metodo Romeo», di cui gli inquirenti erano andati a caccia, e avanzava dubbi anche sul modo in cui gli inquirenti avevano fatto ricorso, per le intercettazioni, ai famigerati trojan informatici: supponendo legami con la criminalità organizzata al solo scopo di vedersi autorizzati gli strumenti investigativi più invasivi. Infine, provava a dare un senso preciso alla previsione del carcere come «extrema ratio», così come richiesto dalla legge, e come invece disinvoltamente troppo spesso ci si dimentica.

Ora la situazione è questa, che l’ipotesi accusatoria da cui tutto era partito, con gli appalti all’ospedale Cardarelli in odore di camorra (secondo la Procura di Napoli), di colpo si rivela costruita male, grazie a qualche forzatura di troppo (secondo la Suprema Corte), mentre sull’altro versante delle indagini, che puntava su Roma e sulla centrale acquisti della pubblica amministrazione, la Consip, sono venute fuori addirittura manipolazioni di prove da parte del capitano dei carabinieri Giampaolo Scafarto, insieme a fughe di notizie a ripetizione che forse hanno intralciato le indagini ma che di sicuro hanno costruito una enorme cassa di risonanza mediatica per il lavoro della magistratura inquirente.

Naturalmente, non siamo dinanzi a sentenze definitive e la vicenda non è chiusa. L’accusa farà la sua parte, così come cerca di farlo la difesa (possibilmente, su un piede di parità). Ma se uno riavvolge il film di questi mesi si accorge di quale enorme distorsione si sia prodotta. E si produca ogni volta. Con indagini, arresti e intercettazioni il quadro accusatorio si fa subito chiarissimo, lampante, praticamente certo, mentre le controdeduzioni della difesa devono aspettare mesi e mesi perché riescano a farsi strada prima nei tribunali e poi sui giornali. Con imputazioni e incriminazioni accade l’esatto opposto: prima le accuse arrivano sui giornali; poi, in tribunale, si vedrà (se si vedrà).

Uno potrebbe dire: come però la carcerazione preventiva non significava colpevolezza, così il ritorno alla libertà non vuol dire che l’accusa sia stata smontata. Il che è vero, ma è vero pure che di mezzo ci sono messi in carcere e ai domiciliari, e c’è una campagna di stampa che di fatto trasforma indagati e imputati in colpevoli ben prima di qualunque verdetto. E tanti saluti ai diritti e alle garanzie.

In questa inchiesta, poi, qualcosa non è stato chiaro persino nel metodo. Non dico solo delle gravissime alterazioni del contenuto delle intercettazioni, con cui si è cercato di mettere nei guai il padre di Matteo Renzi, Tiziano, ma dico proprio del modo in cui l’indagine ha potuto estendersi. Invece di andare in profondità, è sembrato fin da subito che si volesse solo andare in lungo e in largo. In giro, insomma, a tirar dentro di tutto e di più: una volta è la camorra, un’altra sono le fughe di notizie, un’altra ancora sono opportuni “aggiustamenti” delle carte. Una volta è un’ipotesi accusatoria, un’altra sono i trojan, un’altra ancora sono intercettazioni a strascico. Inchieste dal raggio sempre più grande – dal Cardarelli a Consip, da Napoli a Roma – purtroppo affette da un’inesorabile proporzione inversa: più allarghi e meno vai a fondo; più gonfi, enfatizzi e ingrandisci e meno il tutto si fa distinto e regge alla prova del processo.

Che però è ancora di là da venire, e chissà se e quando arriverà. Quel che però si capisce, è che non vi arriverà come era stato annunciato, ma solo dopo una robusta tosatura. Come quella a cui gli antichi prìncipi sottoponevano le monete, riducendone progressivamente il contenuto aureo, così va con l’ipotesi di processo che continua a circolare sui giornali, che ad ogni nuova notizia vale, lentamente ma inesorabilmente, ogni giorno di meno.

(Il Mattino, 17 agosto 2017)

Un Paese in cerca d’identità tra voglia d’Europa e populismi

Richter_ Wolken 1970

G. Richter, Nuvole (1970)

I flussi e i luoghi, i fantasmi e le superstizioni, i leader e gli immaginari collettivi. E poi i migranti, l’Europa, Renzi e Berlusconi, Salvini e i Cinquestelle: è difficile tirare una linea diritta tra le parole e i pensieri che si raggomitolano attorno al futuro del nostro Paese. È difficile sbrogliare l’intrico di ipotesi, svolgere le subordinate più o meno probabili, delineare gli scenari più o meno lontani. Bisogna percorrere almeno idealmente la Penisola, per provare a sentire più voci, per seguire più ragionamenti e così provare a tracciare la mappa sulla quale si disegneranno le traiettorie politiche nel breve e nel medio periodo.

E bisogna per forza cominciare dalla Sicilia, perché lì si vota in autunno, e da quel voto può dipendere molto.

«Dipende tutto», mi corregge Pietrangelo Buttafuoco, «tutto dipende dalla Sicilia. Malgrado Renzi abbia detto che il voto non ha una valenza politica nazionale, il voto regionale siciliano costituirà un test per capire molte cose». Buttafuoco conosce bene la Sicilia, la sua terra, e non ha molti dubbi: «in questo momento in Sicilia si vedono solo Musumeci (di Forza Italia) e i Cinque Stelle. C’è da chiedersi allora quale sarà il contraccolpo che subirà il partito democratico da una sconfitta quasi certa. Ma il voto dirà anche se il M5S è in grado di assorbire la fallimentare esperienza di Virginia Raggi a Roma. E dirà soprattutto se il centrodestra saprà ritrovare l’unità. Lì, come direbbe il Poeta, si parrà la nobilitate di Berlusconi». Nei sanguigni ragionamenti di Buttafuoco, tutto dipende dal voto siciliano, ma tutto dipende anche dalle strategie berlusconiane. Se Alfano non sarà con lui, gli alfaniani però già lo sono: se bisognerà mozzare la testa del serpente, la testa del serpente cadrà. E una volta vinta la Sicilia, Berlusconi dovrà trovare un federatore del centrodestra: «O lo prendono dalla politica, penso in quel caso a Luca Zaia; o lo prendono dal parco tecnici, e il Cavaliere ha già cominciato i sondaggi; o infine giocano la carta di casa, Marina Berlusconi, perché io non sono affatto convinto delle smentite che ci sono state in passato». Poi, continua Buttafuoco, per prosciugare i Cinque Stelle il Cavaliere varerà una mriadi di liste di varia umanità: quella degli animalisti, quella degli indignati, quella degli arrabbiati, magari quella del Sud per controbilanciare la Lega». E dall’altra parte, il Pd? «Se in Sicilia perde male, la leadership di Renzi è a rischio. Ma l’unica cosa che possono fare per non perdere è nascondersi dietro qualche paravento, come hanno cercato di fare con il Presidente del Senato Pietro Grasso».  Che però ha detto di no a una sua candidatura. C’è una cosa che tuttavia non mi convince: vada pure male per il Pd, che centrodestra sarà quello che col vento in poppa del voto siciliano si presenterà alle elezioni politiche nazionali? Non ci sono profonde differenze fra Berlusconi e Salvini, fra moderati e populisti, fra sovranisti ed europeisti? Qui però Buttafuoco mi ferma: «Quella dell’europeismo è solo una superstizione, una stupidaggine. La vera partita è sul Mediterraneo, e i governi nazionali ignorano Bruxelles. Chi si impossessa del Mediterraneo decide. Lo ha capito la Francia di Macron, lo ha capito la Russia di Putin che, checché se ne dica, è la grande potenza europea».

Qui sono io a fermarmi. Ho bisogno di capire di più su questa storia dell’Europa: una stupidaggine o una sfida reale, persino decisiva? Risalgo la Penisola. Lascio il mare della Sicilia e vado a trovare Sergio Fabbrini, pesarese, in vacanza sulle Dolomiti: «Il mio argomento – mi dice Fabbrini – è che il sistema dei partiti della Seconda Repubblica, disposto più o meno secondo una logica bipolare destra/sinistra, ancora in continuità con la lunga vicenda postbellica novecentesca, non è più sulla linea decisiva, che è quella che divide i favorevoli e i contrari all’integrazione europea». Fabbrini non è un europeista senza se e senza ma, nel senso che ha più di una critica da muovere ad una vicenda che negli ultimi anni è andata avanti senza un chiaro disegno strategico, e che «ha prodotto più integrazione senza sovranazionalizzazione». Non è una formula difficile da spiegare: con il metodo intergovernativo, sono stati progressivamente svuotati di peso le istituzioni dell’Unione: il Parlamento di Strasburgo, la Commissione, la Corte di giustizia. Le decisioni più importanti vengono prese dal Consiglio europeo, dove siedono i governi nazionali. «E i governi si esprimono non attraverso atti legali, direttive o regolamenti, ma attraverso atti politici, che emarginano le istituzioni comunitarie». Che cosa ne viene all’Italia? Beh, molto poco e molto male: «dal momento che l’Italia non è in grado di esprimere governi coesi e stabili, più pesano i governi nazionali meno pesa l’Italia. L’Italia dovrebbe allora compiere, almeno in teoria, una doppia capriola: darsi anzitutto un governo stabile, e lavorare per superare il metodo intergovernativo, io dico in direzione di un modello originale di unione federale. Questa proposta in Europa spetta a noi, perché nessuno penserebbe che noi la facciamo per ragioni egemoniche. A fianco del primato politico-militare della Francia e del primato economico della Germania dobbiamo costruire un nostro primato culturale, ideale». Con l’attuale sistema dei partiti, con l’attuale legge elettorale? Realisticamente parlando, la legge elettorale non cambierà, Fabbrini ne conviene: né Renzi né Berlusconi hanno interesse ad accettare logiche coalizionali, che darebbero un forte potere di condizionamento alle altre forze di un’eventuale coalizione. Ma con questa legge noi siamo come la Francia del primo turno: solo il secondo turno di ballottaggio ha permesso alla Francia di superare la divisione in quattro poli e di avere Macron. In questa situazione, io penso che le forze europeiste dovrebbero riorganizzarsi intorno a un patto scritto che preveda anzitutto una razionalizzazione delle istituzioni politiche». Si tratta della prima capriola: il governo stabile.: «Sì: bisogna togliere la fiducia al Senato, inserire la sfiducia costruttiva alla Camera, e solo dopo discutere di legge elettorale». Poi la seconda capriola: «La classe politica che si riconosce nei valori europei dovrebbe contribuire a portare in Europa una netta opposizione all’Europa intergovernativa di oggi».

Lascio le montagne, torno al mare, questa volta al mare di Ostuni, spazzato da un fortissimo maestrale. Lì trovo Biagio De Giovanni, che ha lasciato la sua Napoli in questi caldissimi mesi estivi. L’approccio descrittivo del filosofo è abbastanza diverso da quello prescrittivo dello scienziato della politica, ma la passione europea è comune a entrambi. De Giovanni esprime più volte la preoccupazione che il suo ragionamento suoni troppo scolastico, troppo ordinato, ma il perno è anche per lui la «forma nuova del problema europeo», soprattutto dopo la Brexit, che ha lasciato l’asse franco-tedesco senza il contrappeso d’Oltremanica. Sta dunque all’Italia «implicarsi» in quel sistema, o altrimenti il nostro Paese pagherà un prezzo molto alto. In una parola: l’irrilevanza. Se questa è la questione dirimente, allora è da capire dove si trovano le forze che, in Italia, possono salvare il «principio europeo»? Non certo dalle parti di Salvini o dei Cinque Stelle. «Il rischio è però che queste forze prevalgano. Non so se stabiliranno un’intesa politica esplicita, quel che io vedo è però la loro complementarietà. Qualcuno giunge persino a ipotizzare che Salvini e Meloni alzino i toni ed esasperino i contrasti con il centro moderato per prepararsi poi a dare un appoggio “esterno” e consentire un governo Cinque Stelle». A questo scenario De Giovanni contrappone una coalizione fra forze popolari e forze socialiste, o quel che resta delle rispettive tradizioni, in Italia: «il Pd, i centristi, Forza Italia». Ma soprattutto anche per De Giovanni, come per Fabbrini, il displuvio europeo divide centrodestra e centrosinistra al loro interno: «non c’è vera comunicazione tra Mdp e Pd, a sinistra, come non c’è vera comunicazione fra Lega e Forza Italia, a destra».

Resto in Puglia. In Puglia c’è Marcello Veneziani, intellettuale di destra che mi pare veda le cose in maniera speculare a come le vede De Giovanni. Sull’immediato futuro Veneziani non formula previsioni – «c’è una tale aleatorietà – mi dice – che nemmeno i protagonisti della vita politica saprebbero formularle» – ma quel che gli sembra invece un dato di realtà ormai consolidato è la formazione di un chiaro bipolarismo in termini di culture civili. «Il dramma è che queste culture civili non trovano corrispondenza sul piano politico». Veneziani guarda in particolare al campo politico del centrodestra: «c’è un comune sentire, un’area di opinione su tutta una serie di questioni – dai migranti alla famiglia, dai temi del politicamente corretto alla tortura – che però non trova espressione politica, se non in parte, nel centrodestra, e rimane quasi dispersa allo stato brado». Anche lui fa il confronto con la Francia: non con l’europeismo di Macron, ma con il Front National di Marine Le Pen. Che non è arrivata all’Eliseo, ma «ha determinato un fatto politico reale».

La mia impressione è che tanto il centrodestra quanto il centrosinistra siano in cerca di una nuova definizione, e che le forze politiche che si spartiscono il campo facciano molta difficoltà a dotarsene. Dario Antiseri, romano d’adozione, è meno preoccupato di me delle culture politiche dei partiti italiani. «Scomparso il partito ideologico che aveva la verità su tutto, i partiti devono attrezzarsi per la soluzione dei problemi del Paese: scuola, sanità, Europa». Antiseri accenna a una sorta di medicina liberale per il Paese, in particolare nell’ambito dell’istruzione: «buona scuola e abolizione del valore legale del titolo di studio per mettere in competizione le istituzioni scolastiche e universitarie». Anche la proposta di una legge uninominale a doppio turno è figlia, credo, dell’idea di introdurre meccanismi concorrenziali in politica. Mi colpisce però che questi accenti abbiano il tono spazientito di chi non vuol troppo saperne dell’attuale classe dirigente, di questo «Parlamento ben pagato» che non riesce a fare la legge elettorale, di questi parlamentari che cambiano idea e gruppi «e così la sovranità non appartiene più al popolo». Un po’ troppo sbrigativo, per le mie abitudini intellettuali.

Decido allora, restando a Roma, di sentire Giuseppe De Rita. Che ha voglia di parlare e di volare alto. Come Antiseri vuole cercare soluzioni ai problemi a portata di mano, senza appelli alle grandi verità, così De Rita esordisce invece parlando di scopi e di visioni e di immaginario collettivo. Per me, è quasi un toccasana sentir dire che neppure la mitica “ripresa” può essere lo scopo di una politica. È questo mi pare essere l’errore che imputa a Renzi: un deficit di narrazione, si può dir così? In ogni caso De Rita tiene a mettere in chiaro due cose. Che la politica ha bisogno di darsi uno scopo, e che il problema delle coalizioni per governare questo Paese non può essere risolto in termini puramente tattici o politicistici: «Non si può governare senza una logica di scopo. Può trattarsi dell’orizzonte europeo, in una logica merkeliana, o più avventurosamente di una politica mediterranea e verso l’Africa. Oppure può trattarsi di rifare la macchina amministrativa del Paese (come accadde nel secondo dopoguerra). Ma uno scopo, che dia un minimo di carica all’immaginario collettivo del Paese è indispensabile». Non basta: quel che ancora ci vuole è rispondere a due domande radicali, che vedo formulate in tutto il mondo, ma che arrivano anche in Italia: una domanda radicale di sicurezza, e una domanda altrettanto radicale di dare senso all’esperienza umana collettiva». Sembra complicato, ma non lo è: «Minniti e Del Rio». Già, ma mettere d’accordo le due “domande”, non dico i due ministri, non è sempre facile: Gli esempi che De Rita mi sciorina (Putin che usa il polso fermo e però stringe la mano al patriarca ortodosso di Mosca; la Cina che costruisce sicurezza ma promuove anche il confucianesimo come etica collettiva di massa) mi lasciano un dubbio, che le democrazie secolarizzate dell’Occidente abbiano qualche difficoltà sia sul versante della sicurezza che su quello della ricerca di senso, ma De Rita non ha dubbi: «se partiti e coalizioni non si daranno uno scopo, queste domande radicali diverranno i poli che ridisegneranno la cultura politica del Paese».

Con Roma ho finito. Voglio tornare al Nord: devo ancora passare per Bologna, Milano, Torino. A Torino c’è Luca Ricolfi: cosa c’è di meglio di un sociologo empirico, tutto numeri e verifiche fattuali? Ricolfi è di Torino, però in questi giorni sente anche lui bisogno del mare. È a Stromboli, e le domande devo formulargliele via mail. Alle mie preoccupazioni risponde con perfetto stile anglosassone, in modo conciso e diretto: «la legge elettorale cambierà poco, anche se non escluderei un piccolo premio di governabilità al primo partito; il quadro delle forze politiche resterà abbastanza simile a quello attuale, a meno che non compaia un leader nuovo e carismatico; in caso di stallo non escludo la ripetizione del voto, come in Spagna». Tra le voci fin qui sentite, Ricolfi mi pare abbastanza in controtendenza. O forse è lo stile asciutto che mi fa sembrare sottostimato l’effetto che il nuovo ambiente proporzionale potrà avere sul sistema dei partiti: «L’Italia percorrerà la strada del gattopardo, annunciare il cambiamento lasciar marcire i problemi». Anche sulle questioni più scottanti, come quella dei migranti. Ricolfi è tranchant: «si voterà in inverno, con il mare grosso e meno sbarchi, la questione immigrazione sarà meno saliente di oggi».

Sarà. Ma io ho di nuovo bisogno di uno sguardo più ampio, di una visione più larga del futuro. A Milano c’è Aldo Bonomi. Al telefono, tra una sigaretta e l’altra, mi spiega le due cose che più gli premono. La prima: d’accordo, il sistema politico italiano ha conosciuto in questi anni profonde trasformazioni, e le ricomposizioni sono sempre seguite da fasi di scomposizione più o meno pronunciate. Bonomi parla di «metamorfosi» e «diaspora», ma guarda i due fenomeni dal lato della società, degli effetti sulla composizione sociale del Paese. Se centrodestra e centrosinistra non sono più gli stessi è perché è cambiata quella che una volta si diceva la loro base sociale. La seconda cosa che gli preme richiamare è il vero e proprio «salto d’epoca» che stiamo attraversando. Bonomi ne parla anche come di un «salto di paradigma». Se potessi fare un disegno, esporrei meglio il suo ragionamento. «Un tempo, dice, c’era il conflitto capitale/lavoro, con lo Stato in mezzo, con funzioni di mediazione. E per Stato intendo l’insieme delle istituzioni e dei corpi intermedi chiamati a mediare il conflitto. Oggi invece ci sono i flussi – l’economia finanziarizzata, la Rete, l’immigrazione –  che impattano sui luoghi, e il territorio è la dimensione che emerge da questa rapporto». Territorio vuol dire essenzialmente: non più Stato nazionale. Il che però ha delle conseguenze evidenti sulla stessa forma partito: «Il partito è la forma che la politica ha assunto nel ‘900 dentro lo schema capitale/lavoro». Capire i flussi e mettersi in mezzo: questo il compito della politica. E l’impressione di Bonomi è che i partiti siano parecchio in ritardo.

Ma chi meglio di Carlo Galli, tra i maggiori studiosi del Novecento europeo, può allora darmi un ultimo ragguaglio sul sistema italiano dei partiti? Galli è in Parlamento, ha lasciato il Pd, nelle cui file è stato eletto, ma non ha dismesso l’abito dell’intellettuale rigoroso. Mi disegna in breve lo scenario politico dinanzi al quale siamo. Una lezione di realismo: «L’unico che ha interesse a costruire una coalizione è Berlusconi. Non è facile perché a destra ci sono due entità, l’una moderata, l’altra riformista. Renzi non vuole coalizioni, perché per lui significherebbe rinunciare a Palazzo Chigi. Naturalmente peserà il risultato siciliano: se andasse male, Renzi sarebbe forse costretto a proporre lo schema Gentiloni, adottato in quest’ultima fase della legislatura, anche per la prossima. In una logica profondamente diversa, però, perché non più legata semplicemente all’emergenza. Anche alla sinistra del Pd ci sono però due diverse formazioni. Una – Sinistra Italiana, Montanari – si riassume nella formula “mai col Pd”; l’altra – Pisapia, Mdp – si riassume invece nella formula “mai con Renzi, sì col Pd derenzizzato”. Se il Pd andasse molto male in Sicilia, potrebbe prevalere uno schema in cui da un lato si troverebbero riuniti i partiti anti-establishment, dall’altro i partiti pro-establishment, in una sorta di arroccamento Renzi-Berlusconi. Centristi che darebbero l’immagine di un sistema assediato. Migliore sarà il risultato in Sicilia, più prevarrà l’idea di andare da soli al voto politico nazionale, cercando magari dopo il voto accordi con gli alleati naturali». Quanto siano però naturali per Pd e Forza Italia gli alleati delle ali estreme non saprei dire.

Ho finito il mio viaggio. Torno a Milano per sentire Massimo Recalcati. Con lui provo a sviluppare un’ultima riflessione sulla grande minaccia del populismo, che in tutti i ragionamenti che ho sentito è quasi sempre rimasto ai margini, come il baratro che rischia di aprirsi dinanzi all’Italia. Recalcati ci riflette da tempo: «viviamo una fase di evaporazione della politica per via da un lato della crisi economica e sociale portata dalla dimensione strutturalmente nichilista del capitalismo finanziario; dall’altro della retorica populista montante. In Italia, questa retorica è espressa da un lato dal populismo etnico di marca leghista, dall’altro dai grillini, che considero la faccia più pericolosa del populismo. Io parlo di un “fantasma incestuoso”, cioè dell’idea che l’unica forma di democrazia degna sia quella diretta. Il rifiuto di ogni mediazione istituzionale e la contrapposizione fra la purezza del popolo e la falsa rappresentanza politica, accompagnata dalla squalifica morale dell’avversario (non semplicemente delle sue tesi) ha generato un clima pesantissimo, tra odio, invidia sociale, giustizialismo». Provo a chiedere come allora uscirne: «Perché la politica ritrovi peso e resistenza è centrale la scommessa europea- Solo nella dimensione europea la politica può riuscire a governare la crisi. Per l’Italia l’Europa è un destino. Certo, vi è il rischio che essa appaia quasi come un corpo morto, che tutte le sue pratiche (l’Europa è essa stessa una pratica, un’esperienza politica) siano vissute come scorporate dagli interessi reali e concreti delle persone. Per questo ho parlato di fantasma incestuoso, perché come il bambino non vede altro che l’abbraccio della madre, così i populisti negano ogni dimensione diversa da quella più immediata e diretta».

Se questo è vero, quanto lontano dovrebbero essere da un viaggio così lungo, così complicato, con voci tanto diverse come quello che ci ha portato fin qui? Un filo di scetticismo mi attraversa: a che servono tutti questi ragionamenti? Chi è in grado di riprenderli e di costruirvi un futuro comune? Ma oltre lo scetticismo c’è per fortuna anche per me, domani, una giornata di mare.

(Il Mattino, 14 agosto 2017)

Se il voto spezza le vecchie identità

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F. Bacon, Three Studies of Lucian Freud (1969)

Vi sono due punti interrogativi dinanzi al sistema politico italiano, che proverà a misurarsi con essi nei prossimi mesi. Il primo riguarda la legge elettorale: quella che ci è stata consegnata dai pronunciamenti della Corte costituzionale e dal risultato del referendum del 4 dicembre non viene giudicata soddisfacente da nessuno degli attori politici in campo. Ma nessuno degli attori politici in campo sembra avere forza sufficiente per cambiare il sistema di voto. Sicché, al di là di piccoli aggiustamenti “tecnici”, è molto probabile che ci terremo un proporzionale con un premio di maggioranza fissato a un’altezza irraggiungibile (40%).

Il secondo interrogativo è rappresentato naturalmente dalle elezioni politiche della prossima primavera. Al confronto si recheranno forze politiche profondamente diverse da quelle che si sono misurate nel 2013. Le due principali forze politiche, di centrodestra e di centrosinistra, intorno alle quali è stato imperniato il confronto politico nel corso di tutta la seconda Repubblica hanno subito scissioni e lacerazioni che ne hanno mutato la fisionomia. L’appello che Berlusconi rivolge oggi ad Angelino Alfano ed a Giorgia Meloni non ha, nelle parole stesse del Cavaliere, il significato di una proposta politica pronta per affrontare il voto nazionale. Eppure Alfano e Meloni, nel 2013, stavano nella stessa coalizione, il Popolo della Libertà (si è persa memoria del nome). E in quella stessa coalizione c’era la Lega (però a guida Maroni, non ancora a guida Salvini), la cui traiettoria ha seguito tutt’altra linea da quella presa nel corso della legislatura dai centristi di governo.

Anche a sinistra le cose sono cambiate. Al tornante dei suoi dieci anni di vita, il Pd vede di nuovo spuntare alla sua sinistra quella molteplicità di formazioni che, nel progetto originario di Veltroni, dovevano essere superate dalla vocazione maggioritaria del nuovo partito. L’impresa non è riuscita. La forza centripeta di Renzi ha innescato spinte centrifughe anche fra i democratici, se persino il candidato premier del 2013, Pierluigi Bersani, milita oggi in un nuovo movimento, che galleggia fra il Pd e le altre piccole forze politiche che del Pd non vogliono più saperne. Grosso modo, si tratta di un’area che nel 2013 si raccoglieva sotto la bandiera della Rivoluzione civile di Antonio Ingroia: anche di questo nome si è persa memoria.

(L’unica cosa che non è cambiata è il Movimento Cinque Stelle. Il che si spiega ovviamente con il giudizio di estraneità, anzi di ripulsa, reso nei confronti degli altri, screditatissimi partiti e finanche della dialettica parlamentare. Ma anche lì qualcosa dovrà prima o poi cambiare, se i grillini vorranno tentare manovre di avvicinamento al governo del Paese).

Il secondo interrogativo è dunque: come è possibile ipotizzare che dopo il voto questo insieme di forze – così avventizio, frutto più della fortuna che di strategie precise – continuerà ad offrire la stessa fotografia che si presenterà agli italiani nella domenica elettorale? Certo, nei prossimi mesi, i tentativi di mettere mano al sistema elettorale – veri o fittizi che siano, soltanto declamati o anche praticati – proseguiranno. Non c’è solo la doverosa preoccupazione del Presidente della Repubblica per la tenuta del futuro Parlamento; c’è un evidente impasse in cui il Paese intero rischia di cacciarsi, per l’impossibilità di offrire una soluzione di governo all’indomani del voto. Ma guardiamo le cose in maniera rovesciata: se i partiti non sono in condizione di cambiare la legge elettorale, e se con questa legge ben difficilmente potranno assicurare stabilità e governabilità, non finirà con l’accadere il contrario, che cioè saranno i partiti a cambiare? Chi scommetterebbe, del resto, sulla resistenza nella lunga durata del quadro politico attuale, prodotto dal fallimento dei percorsi di riforma esperiti in questa legislatura, non certo dai suoi successi?

C’è però una differenza rispetto al passato. Tutte le legislature dell’ultimo quarto di secolo hanno conosciuto una stessa deriva verso la scomposizione di coalizioni faticosamente costruite per affrontare la prova del voto. La politica aveva le sue sistoli e le sue diastole, le fasi di avanzamento in cui l’accento era posto, per necessità elettorale, sull’unità, seguite dalle fasi di rilasciamento, in cui l’accento tornava indietro, verso la divisione. E tutti i capi di governo ne hanno fatto esperienza: Prodi e Berlusconi, ma anche, in tempi a noi più vicini, Letta e Monti. E infine Renzi, che in verità era riuscito a rimandare l’appuntamento con il Big Bang della frantumazione fino al giorno del referendum. Poi, liberi tutti.

Questi movimenti erano però gli spasmi di un sistema maggioritario rispetto ai quali i partiti riluttavano, e che quindi accettavano alla vigilia del voto solo per disfarlo il giorno dopo. Ora è il contrario: con una legge proporzionale, il moto avrà segno opposto, l’appuntamento con le urne esalterà le differenze, che il giorno dopo le elezioni bisognerà trovare il modo di superare. Ma per questo diverso andamento del ciclo politico nessuno dei partiti oggi in campo è preparato, e tutti tentano di allontanare da sé l’inconfessabile sospetto di voler “inciuciare” con gli altri (cosa invece richiesta dal sistema proporzionale). Bisognerà dunque farsi una nuova cultura politica, e non sarà semplice. E questo, a pensarci, è un terzo interrogativo, più grande ancora dei primi due: i partiti di centrodestra e di centrosinistra non vedranno ridisegnata in profondità la loro fisionomia, la loro identità e la loro stessa leadership da questa nuova necessità?

(Il Mattino, 13 agosto 2017)

Sud & storia. Ma la memoria non è una sola

Penone

G. Penone, Continuerà a crescere tranne in un punto (1968)

«Ricordo che quando andai a Caprera, in Sardegna, nel periodo in cui lavoravo al film, il custode della casa – museo di Garibaldi volle mostrarmi la pallottola che avevano estratto dalla gamba del Generale. E mi disse che quella era la pallottola con cui i Borboni avevano sparato a Garibaldi. I Borboni, mi disse: non l’esercito italiano».

In procinto di girare il suo prossimo film, Mario Martone ha accettato volentieri di tornare a riflettere sul Risorgimento italiano, al quale ha dedicato un film importante, bello e teso, «Noi credevamo», uscito nel 2010. L’occasione è la proposta di una giornata in memoria delle vittime meridionali dell’unificazione nazionale, che, su proposta del Movimento Cinque Stelle, ha avuto il voto di quasi tutto il consiglio regionale pugliese, compreso quello del Presidente Emiliano.

«Una proposta assurda, figlia di una grande confusione, di tutto quello che denunciavo quando ho fatto «Noi credevamo». Noi italiani abbiamo un rapporto falsato col passato. Abbiamo tutta una serie di incrostazioni, di letture sbagliate della storia che chiaramente inquinano anche il nostro presente. E questa proposta ne è la dimostrazione. Ma proprio perciò le ho raccontato del custode di Caprera: perché mostra come per il senso comune Garibaldi non potesse essere stato ferito dall’esercito italiano (come in realtà fu). Questo vuol dire che la realtà storica è semplicemente ignota o incomprensibile per larga parte degli italiani.

Martone non sceglie esempio casuale. Il suo film si chiudeva proprio con i fatti del 1862, quando tra i monti dell’Aspromonte avvenne lo scontro a fuoco tra i volontari garibaldini e l’esercito regolare intenzionato a bloccare il generale che tentava di risalire nuovamente la penisola per conquistare Roma. L’Unità d’Italia era stato il capolavoro politico di Cavour, non certo la vittoria di Garibaldi. E il film racconta fin dal titolo quante contraddizioni, quante disillusioni e anche quali fallimenti furono vissuti in quegli anni all’ombra delle grandi imprese risorgimentali.

«Nel senso comune manca un’idea dei contrasti che vi furono allora. Non è entrata l’idea che le visioni dell’Italia durante il Risorgimento sono state non semplicemente diverse, ma contrapposte – da un lato i monarchici, dall’altro i repubblicani; da un lato i moderati, dall’altro i democratici –. Queste cose naturalmente ci sono nei libri di storia. Ma nel senso comune questa verità non è passata. Gli italiani hanno un loro pantheon di signori con la barba, che mette insieme indistintamente Vittorio Emanuele, Giuseppe Garibaldi, il conte di Cavour, Mazzini. È ovvio che in questa fase di populismi, di demagogia dilagante, diventino un unico avversario da abbattere in blocco. Ma è una falsificazione della realtà storica. Non ci si rende conto così che Mazzini e Cavour non possono trovarsi insieme in uno stesso Pantheon. Furono acerrimi nemici. Avevano idee politicamente opposte: su come costruire l’Unità d’Italia, come affrontare il rapporto col Meridione, come affrontare tutti gli aspetti della vita civile».

Martone parla con grande rispetto del lavoro storiografico. E racconta di quanto lui stesso, insieme a Giancarlo De Cataldo, hanno potuto attingere dai libri di storia nella preparazione del film. Ma il punto che evidentemente gli preme non riguarda la mera accuratezza della ricostruzione storica, quanto piuttosto “l’uso della storia per la vita”, cioè nel presente, nell’Italia di oggi.

«Dovunque son andato, in giro nel Mezzogiorno, per presentare il film (eravamo a ridosso del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia) ho sentito le critiche, la rabbia, il fastidio verso le celebrazioni, a volte l’odio. Era ed è molto doloroso. Ma domando: tutto questo può mai trasformarsi in una nostalgia per i Borboni? Non significa tornare indietro, e dico: indietro rispetto non tanto ai dibattiti sul passato, ma ai dibattiti sul nostro presente? D’altra parte, cosa vuoi dire a un ragazzo del Sud oggi, cosa dire a generazioni completamente sfiduciate, quando gli racconti cosa è successo allora? Io penso che si tratta non di alimentare nostalgie per il regime borbonico; semmai, di fargli conoscere Pisacane, di farlo appassionare alla sua storia. Ma per questo il blocco unico del Pantheon ufficiale non aiuta. Pisacane era un repubblicano, stava per dir così sul lato opposto rispetto a quelli che hanno fatto l’Unità d’Italia con i Savoia. E lo stesso Garibaldi: tutti ricordiamo il suo famoso “Obbedisco!”. Voleva dire: mi piego per ragioni di opportunità politica. Fu la scelta giusta, che altro doveva fare? In quel momento le condizioni storiche portavano a questo, e la liberazione di Napoli significò la consegna del Regno a Vittorio Emanuele II. Ma Garibaldi aveva tutt’altro animo, era anche lui un repubblicano. E del resto la vera impresa eroica di Garibaldi fu la Repubblica romana. La Repubblica romana è la vera luce del risorgimento.  Allora io farei una giornata della memoria: ma per ricordare le vittime della Repubblica romana, le vittime di un sogno che è stato calpestato.

Le armi borboniche, in effetti, erano puntate contro la Repubblica romana. Ma voglio ricordare cosa ha scritto Alessandro Leogrande a proposito del suo film: “Che siano esistiti dei patrioti meridionali, dei democratici meridionali, e che questi siano stati stritolati da una Storia travagliata, è la miglior risposta da dare a chi oggi intende riscrivere il nostro Ottocento. Non solo da Nord (da un certo Nord) sparando su tutto ciò che odora di unità. Ma anche da Sud (da un certo Sud), sostenendo che il Risorgimento è stato fatto unicamente da «criminali» al sevizio dei piemontesi «simili ai nazisti», e che quello delle Due Sicilie era in fondo un regno fiorente e liberale».

«Ma certo. Il sentimento dell’unità d’Italia è stato un sentimento straordinario, costruttivo, moderno. Sputare su di esso è orribile. Che modo di ragionare è quello di dividere geograficamente, invece di confrontarsi politicamente? Altro però è chiedersi, come io ho provato a fare, quali opposte visioni si scontrarono. Altro è lo scontro politico interno al processo risorgimentale, che – io credo – si prolunga ancora adesso. A che serve allora una generica giornata per le vittime meridionali? Dentro l’unificazione hanno convissuto non uno, ma due sentimenti unitari. Mazzini è morto da clandestino. Cavour aveva deciso per tempo in quale piazza doveva andare eseguita la sua condanna capitale. Quella piazza è a Genova, e oggi c’è invece un monumento a Mazzini. Ma il sentimento che animava i repubblicani – i Mazzini, i Garibaldi, i Pisacane – non si misurava nel senso dell’annessione ma nel senso dell’unione».

Lei ha detto che nel senso comune c’è solo una versione semplicistica, e in fondo agiografica, del Risorgimento. A me colpisce quanto poco il cinema (che sa entrare nell’immaginario collettivo di un popolo) si sia occupato di Risorgimento. Non c’è paragone, mi pare, con l’epopea resistenziale. Ci sono i film di Visconti, c’è un film di Rossellini, i Taviani di Allonsanfàn, Florestano Vancini, i film in costume di Luigi Magni e naturalmente anche qualcos’altro. Ma non mi pare ci sia la costruzione di una vera e corale narrazione risorgimentale.

«Che i film non siano stati tanti dimostra quel che dicevo, la difficoltà di rapporto del nostro Paese con la sua storia e con l’unità d’Italia. L’Ottocento risorgimentale avrebbe potuto dar luogo a una vera e propria mitologia: come gli americani sono riusciti a fare con il West, trasformando in un mito (mito universale, che vale anche per noi) la nascita di una nazione. Ma un mito va affrontato prendendolo di petto. Cosa che noi non abbiamo fatto. Abbiamo invece costruito il nostro Pantheon posticcio. E alla costruzione ha ovviamente dato un contributo decisivo il Ventennio fascista. Ma più in generale io continuo a domandarmi se non rimanga vero che la complessità dei fatti risorgimentali rimanga fuori dalla coscienza collettiva. Come se certe cose non si potessero dire. Come se certi conflitti non si potessero esplicitare. Ed è un problema del nostro Paese, per cui o i conflitti si affrontano con le armi in mano oppure li si rimuove e non li si riesce fare terreno di una dialettica vera, reale.

Tra le cose che nel senso comune passano in maniera distorta c’è anche, a me pare, il rapporto con il Mezzogiorno. O forse è vero che questo rapporto è stato profondamente distorto nell’ultimo quarto di secolo. Il film vede le cose dalla prospettive meridionale, inizia e finisce il suo racconto al Sud. Lei trova che anche su questo tema delle divisioni d un Paese troppo lungo vi sia una vulgata che si tratta di mettere in questione?

Temo di dire cose note. Il processo di unificazione è stato un processo di annessione. È un fatto: si è sviluppato in questo modo. Basti pensare a un episodio, la vicenda più amara per Garibaldi, che spiega tutto. Mi riferisco al fatto che la stragrande maggioranza dei garibaldini, i famosi Mille, sono stati di fatto abbandonati; non furono stati arruolato nell’esercito italiano. È stata la cosa che più di ogni altra ha devastato l’animo di Garibaldi, che più gli ha provocato delusione ed amarezza. Se di unità si trattava, chi ha combattuto dallo stesso lato doveva ritrovarsi anche dopo l’Unità d’Italia. Non fu così. Questo dice tutto sul modo in cui è avvenuto il processo unitario. Che è avvenuto a danno del Sud: neanche su questo – mi pare – ci sono più molti dubbi. Ovviamente la mia prospettiva è quella di un uomo del Sud. I protagonisti del mio film sono cilentani. Ma tengo a dire: non è un punto di vista non anti-unitario, ma è il punto di vista di chi racconta la possibilità di un’unità diversa. Che sarebbe potuta essere e che non è stata. E la celebrazione della giornata delle vittime meridionali dell’unificazione sarebbe di offesa per tutti i meridionali che hanno sacrificato la loro vita per la causa unitaria.

Le chiedo ancora qualcosa a partire dal suo film. Dalle cose che vi mancano. Da un lato i grandi eventi, le grandi battaglie, il 1860. La visione laterale fa sì che i momenti cruciali della storia – che so: l’incontro di Teano – non vi compaiano. Qual è il senso di questa scelta? L’altra cosa che manca è la città. Dico la città del Mezzogiorno, Napoli. Per chi conosce il suo rapporto con Napoli, per chi conosce la sua filmografia – a partire al primo film, Morte di un matematico napoletano – è un taglio che colpisce. Nel film si vedono salotti piemontesi (o parigini) e campagne meridionali.

«Ho cercato, insieme a Gianfranco di Cataldo, di portare ad evidenza tutte le zone d’ombra del processo risorgimentale. Perciò non ci sono le pagine famose. Perfino la Repubblica Romana, che pure è centrale per lo svolgimento del film, non c’è. Ho cercato invece di portare sulla scena i conflitti che ai miei occhi di cittadino italiano mi sono sempre parsi nascosti.

D’altro lato, è vero: il Sud certamente è campagna. È una scelta sociale. Il Sud era ben altro che il Paese di Bengodi che i nostalgici borbonici vogliono farci credere. Vigevano leggi di carattere feudale dal punto di vista sociale. Condizioni sociali e di vita faticosissime. Io non discuto quale fosse stato il bilancio e la prosperità del Regno. Mi domando però quali sperequazioni ci fossero al suo interno. Questo era il contenuto sociale dell’idea che del processo di unificazione avevano i repubblicani, ai quali guardo nel film. Quanto questo contenuto poteva stare a cuore dei monarchici? Nulla. Basta invece leggere la Costituzione  della Repubblica Romana, difesa da Garibaldi e Mazzini, per trovarvi cose come il suffragio universale, le terre ai contadini. C’era un’idea di un vero progresso sociale che doveva accompagnare il moto risorgimentale. C’era l’idea di uguaglianza. Con la sconfitta dell’idea unitaria repubblicana è questo il sogno che svanisce. Riportandoli a una dimensione di nostalgia borbonica, noi certo non onoriamo le vite dei meridionali che si sono battute per questo sogno. Ma a questo sogno è dedicato il film».

A proposito del titolo, “Noi credevamo”. Quello che colpisce non è solo la declinazione al passato, che accentua la dimensione del disincanto e della disillusione (lè la chiusa del film: “Eravamo tanti. Eravamo insieme. Noi credevamo”). Ma anche la scelta di un soggetto plurale, collettivo, che sembra essere il soggetto politico mancato, disatteso, di tutta la vicenda nazionale.

«Ma quel noi è vivo ancora adesso. Come sa, il titolo viene dal libro di Anna Banti, così come una robusta parte del film (poi il film racconta molte altre cose, per cui non è una messinscena del romanzo). Ma Noi credevamo implica anche un presente.

Siamo noi, oggi, quelli che credevano ieri?

Ma certo. Il punto in questione siamo noi oggi. Che cosa vogliamo fare del nostro passato e del nostro futuro. riusciamo a recuperare un rapporto sincero, onesto, pieno col passato? Farlo però significa anche recuperare una prospettiva politica: che ha perso, che è stata sconfitta.

Un’ultima domanda vorrei farle. E riguarda il giudizio sulla politica che viene fuori dal film. Non dico sui singoli protagonisti, ma sulla politica nel suo insieme. Uno degli elementi su cui si gioca il film è la contrapposizione fra gli ideali che vivono nella clandestinità, nella cospirazione, nella lotta armata, e il piano lontano, distante, cinico, dei giochi politico-diplomatico-militari. L’impressione è che l’agire politico, schiacciato sulla dimensione della “politique d’abord”, ne esca con le ossa rotte.

«Lei pensa a Francesco Crispi»

Ecco, non voglio dire che la sua figura è più complessa di come compare nel film, non sono uno storico, ma mi interessa una riflessione su questa contrapposizione. Anche dal punto di vista del ragazzo che oggi vede il film .

«Il ragazzo che oggi vede il film non è scoraggiato da ciò che vede, ma da ciò che ha intorno a sé. Il problema non è all’interno del film ma all’interno della politica italiana ed europea. Ecco: partiao dall’Europa. È molto evidente nel difficilissimo rapporto che c’è tra come è governata l’Europa negli alti livelli finanziari, politici, e la sostanza di vita dei cittadini europei. Si ripropone a livello europeo qualcosa che ha attraversato la nostra storia italiana: una sorta di costrizione dei vasi di comunicazione fra i bisogni delle persone e l’elaborazione politica che soffoca il sogno europeo. I vasi continuano a essere molto stretti.

Ciò che portava alla disillusione allora porta alla disillusione oggi. La sperequazione è la stessa. Anche oggi possiamo chiederci: è l’Europa un continente povero? Non che non lo è. Il problema è la distribuzione della ricchezza. Il problema è quello che accade fra la Germania e la Grecia. Come vede, il discorso si riapre. Ed è qui che si infilano le semplificazioni populiste. Ma per rifiutarle occorre vedere il problema in tutta la sua verità e complessità, mettendo in luce i conflitti che attraversano la realtà politica europea, non solo italiana. Glielo dice uno che ama l’idea di un Europa unita. A maggior ragione bisogna allora battersi contro l’idea di un’Europa unita per annessione.

A maggior ragione bisogna provare a declinare un’idea di eguaglianza a livello europeo, e far passare un’idea dell’unificazione non come un’annessione tedesca, ma come qualcosa che spinge da tutti i lati».

Qualcosa che spinge da tutti i lati. In tempi di disaffezione dalla politica, di disincanto e di scarsa partecipazione alla cosa pubblica, questa immagine della vita civile e politica come una cosa mossa da tutti i lati mi sembra davvero uno dei migliori antidoti alle volgarizzazioni populiste e alle nostalgie neo-borboniche. E chissà, magari si ritroverà anche nel prossimo film che Martone si appresta a girare.

(Il Mattino, 11 agosto 2017)

Un futuro per il Sud

 

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M. Pistoletto, Venere degli stracci (1967)

Idiozie, stupidaggini, follie. Non usa mezzi termini, Adriano Giannola, per bollare la proposta di una giornata in memoria delle vittime dell’unificazione italiana, avanzata in Puglia dal gruppo consiliare dei Cinquestelle e sostenuta con voto quasi unanime, compreso quello del Presidente Emiliano. Ma a fargli scuotere il capo non è tanto il merito della proposta, quanto il fatto che il dibattito sulle ragioni del Sud devii verso questioni del tutto anacronistiche, lontane dai problemi veri del Mezzogiorno. Ha una voce sottile ma ferma, che a volte sembra alzarsi come quella di un profeta inascoltato. E parla piano ma senza mai smarrire il filo del ragionamento:

«Si tenta di spiegare il divario Nord/Sud recriminando sulle ingiustizie passate. Il problema è invece rivendicare oggi – con molta determinazione, con argomenti e con buon senso – un ruolo diverso per il Mezzogiorno. C’è un cortocircuito che viene da lontano, almeno dagli anni Novanta, alimentato quasi ad arte da politiche sbagliate. E che oggi si manifesta nel modo più deteriore con queste scorciatoie verso nulla. Queste celebrazioni di nulla».

Nulla, beninteso, cioè priva di significato e persino controproducente è la piega presa da questo meridionalismo recriminatorio che veste i panni nostalgici di un improbabile revival neoborbonico. Non lo è certo una lettura attenta e non agiografica della storia d’Italia:

«Basta prendere Cavour. Cavour muore al momento dell’Unità. E muore raccomandandosi al Re – così racconta la nipote – perché l’Italia del Settentrione è fatta “ma mancano i napoletani”. Intende naturalmente il Regno delle due Sicilie. E si raccomanda proprio al Re, che lo va a trovare nelle sue ultime ore: «Niente stato d’assedio, nessun mezzo di governo assoluto. Tutti son capaci di governare con lo stato d’assedio. Io li governerò con la libertà e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In vent’anni saranno le province più ricche d’Italia. No, niente stato d’assedio. Ve lo raccomando”. Insomma: mi sembra che avesse le idee chiare».

Le aveva, certamente. E aveva qualche ragione anche di dire che “non sarà ingiuriandoli che si modificheranno i Napoletani”.

«Ma lo stato d’assedio ci fu. Massimo D’Azeglio, sempre nell’agosto del 1861, su un giornale francese scrisse: “La questione di Napoli – restarvi o non restarvi – mi sembra dipendente soprattutto dai napoletani, a meno che non si voglia, per la comodità delle circostanze, cambiare i principi che abbiamo sin qui proclamato […]. Anche a Napoli abbiamo cambiato il sovrano per instaurare un governo eletto dal suffragio universale. Ma occorrono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni per tenere il Regno; ed è noto che briganti e non briganti sarebbero d’accordo per non volere la nostra presenza. […] Dunque deve essere stato commesso un errore. Dunque bisogna cambiare le azioni e i principi e trovare il mezzo per sapere dai napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o non ci vogliono”. E poi conclude: “Agli italiani che, pur restando italiani, non intendono unirsi a noi, non abbiamo il diritto di rispondere con le archibugiate invece che con gli argomenti”. In realtà si rispose con le archibugiate e con lo stato d’assedio. Quindi che ci sia stata una guerra civile – anche interna al Mezzogiorno, tra quelli che erano a favore e quelli che erano contro l’unificazione – è fuor di dubbio».

L’uso del concetto di guerra civile a proposito del brigantaggio postunitario è ben presente nel dibattito storiografico degli ultimi decenni (per esempio nei lavori di Salvatore Lupo). Ma il punto, per Giannola, non riguarda affatto la ricerca storica:

«In quegli anni, esattamente in quegli stessi anni, c’è stata la guerra civile negli Stati Uniti. Non mi sembra che lì si ponga una questione del Sud e del Nord negli stessi termini che da noi. Negli USA ci sono stati quattro anni di guerre civili, massacri enormi perpetrati da battaglioni con l’uniforme. Il Nord ha vinto, il Sud ha perso. Ma gli Stati Uniti sono gli Stati Uniti. E certo non stanno a discutere di fare la giornata per le vittime della Secessione.

Che senso ha allora scoprire da noi che c’è stata una guerra civile? I briganti non erano soltanto dei briganti: e allora? Dopo vent’anni di stupidità assoluta in cui il localismo l’ha fatta da padrona – questo il vero dramma – siamo a discutere di cosa? Di quali idiozie? Che cosa pensiamo di rivendicare, con ciò? Bisogna invece fare i conti con la realtà. Non è così che si sostiene la causa del Sud».

Però c’è un partito che sostiene che il Sud si è caricato con l’unificazione di un enorme fardello. Che l’unità d’Italia ha penalizzato l’economia meridionale. Che al momento dell’unificazione il divario fra le diverse aree del Paese non era così ampio com’è stato in seguito:

«In questa diatriba tocca andarci coi piedi di piombo perché è vero che, quale che fosse prima dell’unificazione (ed io penso che c’era ma non era così enorme), il divario Nord/Sud peggiora. Comincia anzi a peggiorare vent’anni dopo l’Unità, per tutta una serie di motivi che la storiografia ha saputo indagare. Ma in generale è vero: connettere il Nord al Sud (i grandi lavori, le ferrovie), in un quadro di politica liberale, fece aumentare il divario perché era più facile concentrare risorse nella parte più sviluppata del Paese. Paradossalmente, l’infrastrutturazione ruppe le barriere per dir così naturali favorendo la concentrazione al Nord.

Ma dal punto di vista sociale (età media, mortalità infantile, analfabetismo) il Mezzogiorno ebbe invece un recupero incredibile. Quindi stiamo attenti perciò a dire che il Mezzogiorno ha pagato economicamente e socialmente. È molto più complesso. Certo, a un certo punto le convenienze di mercato avvantaggiarono il Nord. Ma la differenza di fondo che mi interessa è che allora il Mediterraneo contava molto, molto poco, mentre oggi conta molto di più».

Giannola vuole venire ai giorni nostri, al presente. Al modo in cui ricostruire le ragioni di un nuovo meridionalismo. Alle sfide che l’Italia, non solo il Mezzogiorno, ha dinanzi. Ai nuovi scenari geopolitici che si aprono oggi per il nostro Paese:

«Vogliamo collocare l’Italia in Europa? Vogliamo capire per il Sud cosa significhi questa nuova collocazione? Il baricentro cambia, si va verso Sud. Possiamo essere la sponda del Mediterraneo ora che il nostro mare torna ad essere fondamentale via di commercio. Se l’Italia ha un minimo di consapevolezza e di visione è il momento che il Mezzogiorno abbia il suo ruolo. Queste sono le condizioni da discutere, non è di guerra civile e di Risorgimento che dobbiamo parlare. Costruiamo su queste basi il ragionamento sul Paese, sul Nord e sul Sud. In questi anni non siamo stati vittime, ma (mi perdoni la parola) cretini, perché abbiamo rinunciato a una strategia, perché abbiamo accettato tante idiozie ben vestite sul piano culturale, perché abbiamo smantellato l’unica cosa seria che abbiamo fatto dall’Unità in poi, l’intervento straordinario».

Su cui però il giudizio comune non è così univocamente lusinghiero.

«Dal ‘57 al ‘73-’74, checché se ne dica, è avvenuto questo: con trasferimenti molto contenuti il Sud è cresciuto più del Nord, il divario del reddito pro capite è diminuito di ben dieci punti.

Quel disegno è stato in seguito abbandonato e addirittura demonizzato. Dalla crisi petrolifera in poi si è persa la capacità strategica di destinare risorse allo sviluppo. E i trasferimenti, anche maggiori rispetto agli anni passati, sono diventati solo uno strumento di assistenzialismo improduttivo. Non a caso se sono quelli gli anni in cui nascono le Regioni e i poteri decentrati.

Ma la questione italiana è di nuovo la questione del Paese intero. I segnali ci sono perché il Mezzogiorno torni ad essere centrale: non per idealità, ma per interesse nazionale. Come è stato del resto all’indomani della seconda guerra mondiale, con la riforma agraria e l’intervento per il Mezzogiorno, che insieme posero le basi del miracolo economico».

A me però colpisce il fatto che nel Mezzogiorno prosegue invece lo smottamento dei temi su cui si fonda la legittimazione dello Stato nazionale. Come se dalla disgregazione del tessuto nazionale il Sud avesse da guadagnarci e non da perderci.

«Vediamo allora cosa succederebbe se tornassimo a prima dell’Unità. Checché se ne dica, il Sud riceve dal Nord il 25% delle sue risorse. Non si tratta di carità: l’Italia è uno Stato nazionale e non uno Stato confederale. Vi sono diritti di cittadinanza (la scuola, la sanità) che è giusto – ed è soprattutto efficiente – che le risorse vadano a garantirli in modo uguale a Palermo come in Val d’Aosta. Poi in realtà essi non sono garantiti per cui il Mezzogiorno ha molti crediti, ma certo non per i torti subiti nel passato. Ma se fossimo indipendenti sarebbe un dramma. L’impatto sarebbe immediatamente negativo in termini di trasferimenti di risorse verso Nord e di enormi conseguenze sociali ed economiche».

E allora torniamo all’oggi. Come giudica il lavoro di quest’ultima legislatura?

«Oggi è un momento propizio. Il governo Renzi lanciò il cosiddetto Masterplan per il Sud. Certo, l’iniziativa aveva anche una finalità propagandistica, ma ha consentito di recuperare un minimo di direzione. Oggi il Ministro della Coesione territoriale e Mezzogiorno ha voce in capitolo per indicare priorità. Può addirittura arrivare a dire che almeno il 34% degli investimenti pubblici deve essere fatto nel Mezzogiorno, altrimenti salta il Paese. È una novità non da poco. E non è assistenza, è esattamente il contrario.

Penso, ancora, alle zone economiche speciali. Sono strumenti che dovrebbero diventare immediatamente preda delle Regioni, perché le facciano, perché si coordinino in un disegno nazionale. Rifare i porti di Napoli o di Taranto non è un problema di Napoli o di Taranto ma dell’intero Paese. Un problema di intercettare i flussi di merci che provengono dalla Cina e di sfruttare i vantaggi enormi che ci derivano dalla nostra posizione di perno del Mediterraneo. Mi lasci dire: l’Italia è uscita dal Medioevo grazie alle Repubbliche marinare: dovremmo ricordarcene. Se però facciamo scappare i cinesi in Grecia, nel Pireo, per via di incredibili lungaggini burocratiche, e intanto parliamo della Giornata della memoria, ci rendiamo colpevoli di un fallimento strategico».

Non sarebbe l’unico fallimento strategico, nella storia del Sud d’Italia. Una cesura si è senz’altro prodotta negli anni Settanta, come prima ricordava. Ma un’altra cesura più recente cade con la fine della prima repubblica, quando la questione meridionale viene soppiantata dalla questione settentrionale agitata anzitutto dalla Lega.

«Quegli anni sono anche gli anni in cui finisce formalmente l’intervento straordinario. E coincidono con la prima grande crisi finanziaria europea. Noi siamo stati cacciati dal SME e abbiamo fatto una svalutazione del 40% in un solo anno, che ha rimesso in moto l’economia del Nord, distrutta dal tentativo di entrare nella cosiddetta banda stretta di oscillazione del sistema monetario europeo. Il Sud non era esportatore e quindi non ha beneficiato della svalutazione, ma soprattutto fu oggetto della prima illegale spending review. Delibere già emanate e formalmente valide per contributi a quindicimila imprese vengono cancellate, con una scia di fallimenti e contenziosi che trascinò con sé la crisi del banco di Napoli. Fu questa la causa strutturale, non la mala gestio. L’economia del Sud fu bloccata. Quel periodo fu un periodo di crisi acutissima dell’economia del Mezzogiorno, da cui si pretese velleitariamente di uscire con la nuova programmazione e i patti territoriali. Una pura idiozia. Aver segregato il Mezzogiorno nei fondi strutturali, peraltro sostitutivi e non aggiuntivi, ha significato farne una riserva indiana, dal ’98 in poi».

Gianfranco Viesti ha scritto sul Mattino che la classe dirigente nazionale non sapendo più parlare agli italiani si piega a sollecitare piuttosto gli egoismi locali…

«Non hanno capacità di analisi e sono incapaci di guardare alla storia. Il Mezzogiorno è il nodo. Nel 1903 De Viti De Marco, un ‘autorità mondiale in materia di finanza pubblica, disse una cosa molto semplice. Finché il Sud rimarrà una specie di colonia, l’Italia non conterà nulla in Europa. Sarà insomma una specie di Olanda, solo con un territorio molto più grande e con una popolazione più numerosa, quindi molto più povera. Se si vuole divenire potenza europea – diceva già nel 1903, io dico: se vogliamo essere leader nell’area euro-mediterranea – occorre darsi da fare. Nonostante il rallentamento mondiale, noi siamo talmente sottodimensionati che abbiamo spazi enormi da recuperare. Abbiamo nuovamente, grazie alla posizione centrale nel Mediterraneo, una rendita di posizione da sfruttare. Ma non siamo ancora in grado di valorizzarla. Ci vorrebbe una grande rigenerazione orientata da due o tre priorità che siano priorità del Paese.

La via d’uscita non è celebrare i drammi della guerra civile. È vero che c’è stata. E che c’è una colpa della retorica risorgimentale. Basta vedere il film di Mario Martone, «Come eravamo», per capire ciò che è stato. Dopodiché però siamo diventati parte di un sistema ed è in questo sistema che dobbiamo operare».

(Il Mattino, 10 agosto 2017)

Sud, no alla memoria inutile: il dialogo tra due intellettuali

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B. Newman, Who’s Afraid of Red, Yellow and Blue (1966)

[Quello che segue è il dialogo tra due intellettuali del Sud sulla proposta di istituire una Giornata della memoria sudista votata quasi a maggioranza dal consiglio regionale pugliese su proposta del movimento Cinque Stelle e con l’Ok del governatore Emiliano].

Massimo Adinolfi: «La proposta di istituzione di una giornata della memoria “atta a commemorare i meridionali morti in occasione dell’unificazione italiana” non sembra solo una boutade estiva. Non lo è perché da tempo è in atto un revival sudista, che si esprime nei modi più diversi: alcuni folcloristici, altri meno. Non lo è perché tocca i fondamenti di legittimazione della memoria pubblica nazionale. Non lo è perché agli inizi di luglio è stata avanzata in forma di mozione in seno al consiglio regionale della Puglia da una forza politica, il Movimento Cinque Stelle, che viene accreditata di consensi crescenti nel Paese. Non lo è, infine, perché, ben lungi dall’essere respinta,  è stata approvata a larga maggioranza, con il favore di quasi tutte le forze politiche, e anche quello del governatore Emiliano. Qual è la sua opinione, in merito?».

Gianfranco Viesti: «Mi sembra davvero un’idea infelice, presa con troppa leggerezza, forse stimolata dall’approssimarsi di un turno elettorale».

M. A.: «Io ho molte perplessità sulla sempre più frequente istituzione delle giornate della memoria, sulla proliferazione di leggi dal contenuto memoriale, spesso accompagnate dai relativi obblighi giuridici e morali, su certe modalità ufficiali di risarcimento delle vittime che sembrano voler trasformare il corso della storia in un triste seguito di pagine nere. Come se la storia non fosse altro che una macelleria di uomini e popoli. E come se l’unica posizione moralmente legittima fosse quella che si pone sempre solo dalla parte degli sconfitti.

Dietro a ciò vi sono, a parer mio, due tendenze culturali di fondo. Una l’ha individuata lo storico francese Hartog, nella sua riflessione sui regimi di storicità che corrispondono a modi diversi di vivere il rapporto col passato. Nella nostra epoca, affetta da “presentismo”, si ha sempre meno pazienza e disponibilità nei confronti della profondità storica, e sempre più la tendenza a trasformare la storia in un seguito di ricorrenze. A trasferire sul piano dei simboli ciò che andrebbe invece considerato sul piano dei processi storici effettivi. L’altra tendenza ha a che vedere con la fine dei grandi discorsi, delle grandi narrazioni, che comporta il venir meno di un’idea generale del senso dei processi storici. Prima con la storia si giustificava tutto. Ora siamo all’eccesso opposto, per cui nulla può essere più storicamente giustificato. Insomma, è come se fare l’unità d’Italia – uno dei più grandi risultati dell’età moderna – non rendesse oggi meno inaccettabili i fucili piemontesi puntati contro l’esercito borbonico.

Mi domando se vi sia ancora un terreno di legittimazione dell’unità italiana più ampio, più profondo e più forte di un mero bilancio economico, esprimibile in termini diversi da un computo delle vittime o delle perdite».

G. V.: «La ricerca storica sul processo di unificazione nazionale, così come sui tanti altri eventi del nostro passato, è certamente benvenuta. È bene portare alla luce anche gli eventi più controversi. Non sono uno storico e dunque ho una conoscenza di questi temi solo da lettore interessato. Non posso escludere che, specie nei primi decenni unitari, si sia proposta una lettura parziale degli eventi, anche nello sforzo di costruzione di un’identità nazionale in un paese in cui, per dirne una, erano ben pochi gli italiani in grado di capirsi parlando una lingua comune e non in dialetto. Bene, benissimo, quindi, ogni ricerca storica, e una discussione, su basi scientifiche, senza remore. Se il Consiglio avesse sollecitato questo, nessun problema: ma la giornata della memoria prende una posizione assai controversa. Tra l’altro, vi erano meridionali borbonici; ma tanti anti-borbonici. Per fortuna»

M.A.: «Se le pagine della storia sono tutte nere, e tutte grondano sangue, come si fa a distinguere le une dalle altre? Se ci fosse una giornata in memoria delle vittime dell’unificazione, proprio come vi è una giornata per le vittime della Shoah o per le vittime del terrorismo, non vorrebbe dire che tutte queste vittime sono state allo stesso modo offese da una stessa ingiustizia storica? Ora, francamente, non mi sembra che questo sia il caso. Un conto sono le ingiustizie o le violenze perpetrate in singoli episodi della vicenda (evidentemente: non più epopea) risorgimentale, che la storiografia ufficiale ha teso forse, in passato, a ridimensionare e che è giusto non dimenticare (ma esiste davvero una storiografia ufficiale? La ricerca storica, nel nostro paese, non è sufficientemente aperta, libera, plurale?). Ben altro conto è istituire una giornata della memoria al fine di presentare il processo di unificazione come un mito costruito dai vincitori per occultare una  forma di sopraffazione del Nord ai danni del Sud. Va bene che da tempo la storia non si fa più soltanto riunendosi attorno alle “urne dei forti”, ma questo vuol dire che dell’unità d’Italia il Mezzogiorno fu solamente vittima?».

G.V.: «L’ampia evidenza storica disponibile sul regno borbonico non giustifica particolari nostalgie. Non era l’inferno, comparato ad un paradiso sabaudo. Ma la ricerca converge ad esempio nel valutare come infimo, molto più basso che negli altri stati preunitari, fosse il livello di alfabetizzazione. Un divario, quello nell’istruzione elementare, che sará colmato solo dopo un secolo, e che peserà enormemente sul ritardo economico e civile del Sud. Lo stesso vale per la grande infrastrutturazione di trasporto.
Ancora, sia il processo di unificazione monetaria, sia la scelta del regime liberoscambista possono aver danneggiato l’economia del Sud. Così come alcune delle prime politiche unitarie. È giá all’inizio del Novecento che ne scrive uno dei più grandi italiani del secolo scorso, Francesco Saverio Nitti. Ma in lui non vi è alcuna nostalgia di un regno del Sud: ma la proposta di politiche nazionali, unitarie, più attente anche allo sviluppo del Mezzogiorno, in un quadro di crescita dell’intero paese. La ricerca storico-economica ha poi messo chiaramente in luce come il divario Nord-Sud sia, dopo l’unificazione, e ancora ai tempi di Nitti, relativamente limitato; e esploda invece ai tempi del fascismo, per non richiudersi se non lievemente fino ad oggi».

M.A.: «Terrei poi su un altro piano la discussione sui centocinquant’anni di storia unitaria, e sulle ragioni per cui l’Italia si presenta ancora come un Paese troppo lungo e diviso. Anche se fosse dimostrato – e io in verità credo lo sia – che le cause della arretratezza meridionale non sono tutte imputabili al Sud, questo non vorrebbe dire che dunque sarebbe stato meglio tenersi i Borboni, o che il Regno delle due Sicilie è stato un ineguagliato faro di civiltà. È su altre basi, del tutto diverse dal rivendicazionismo storico, che va riproposta la questione meridionale. Ed è vero, certamente, che accantonarla è servito a coltivare interessi politici ed economici precisi, durante tutto il corso degli ultimi venti-trent’anni. Ma a che serve soffiare sul fuoco separatista dei simboli anti-risorgimentali, o prendersi la soddisfazione di fare dei piemontesi dei brutti ceffi, e dei brutti ceffi dei briganti fare dei nobili Robin Hood?».

G.V.: «Non vi è dubbio che sia oggi diffuso e alimentato un forte pregiudizio antimeridionale. Una lettura a senso unico, aprioristica, della realtà italiana. Lettura pericolosissima sul piano civile. Ma che, ormai da almeno un ventennio, produce effetti concreti sulle politiche; a danno del Mezzogiorno. Lettura contro cui sono pochissime le voci che si levano, specie al di sopra del Po: come messo plasticamente in luce dai silenzi e dalle reticenze, se non dagli ammiccamenti, nei confronti del referendum lombardo-veneto del prossimo 22 ottobre, espressamente mirato contro i cittadini del Centro-Sud. Bene una reazione, anche forte. Ma personalmente non la baserei su mitologie di un passato felice, ma sulla concretezza dei diritti di tutti i cittadini italiani, qui e oggi. Sui fatti del presente e del futuro. Sarebbe stato auspicabile, ad esempio, un maggiore impegno dei consiglieri e dei vertici pugliesi, di centrodestra, pentastellati, del Pd proprio sui temi delle autonomie regionali e dei diritti di cittadinanza, piuttosto che per questa celebrazione. Il punto è che richiederebbe impegno, discussione severa all’interno del proprio schieramento, e non una facile passerella».

M.A.: «Infine, vorrei porre una domanda sul significato di una memoria condivisa. Questo tema è stato posto in Italia a proposito del discrimine fascismo-antifascismo, e a quel riguardo Giorgio Napolitano, da Presidente della Repubblica, ha più volte messo in guardia dalle “false equiparazioni e banali generalizzazioni”. Non è lo steso avviso che bisogna tenere nei confronti delle vittime meridionali dell’unificazione, per evitare di dare al 1861 il significato di una morte della patria meridionale?».

G.V.: «Gli stessi movimenti politici che vogliono il referendum lombardo, ci propongono invece una giornata della memoria pugliese, o inverosimili referendum campani e calabresi, inseguendosi a vicenda. È certamente ricerca di consenso spicciolo in un elettorato scettico e incerto, che si cerca di accarezzare con questi richiami. Spiace coinvolga alcune Istituzioni, e i loro vertici. Ma è anche spia pericolosa dell’incapacità di proporre agli italiani ragionevoli profezie, di sollecitare la loro fiducia su percorsi possibili, di chiamarli a scelte alternative. Finite le grandi narrazioni, si è precipitati nel giorno per giorno. Non sapendo parlare a tutti gli italiani, si solleticano egoismi o orgogli locali: un gioco molto pericoloso».

(Il Mattino, 8 agosto 2017)

Il diritto di un codice

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A. Burri, Bianco plastica B5 (1965)

Mettere centomila persone in uno, due stadi di calcio si può fare. Ma se già abbiamo difficoltà ad assicurare la sicurezza di un normale deflusso dagli impianti in occasione di certi eventi sportivi, figuriamoci se quella può mai essere la soluzione per dare accoglienza ai migranti. Mario Calabresi, nel suo editoriale su Repubblica di ieri, voleva dare un’idea delle proporzioni del fenomeno migratorio rispetto alla popolazione italiana complessiva, ma l’immagine che ha scelto non è molto felice. Quella di stipare i migranti in uno stadio sembra anzi un’idea “concentrazionaria” da Paese sudamericano negli anni Settanta, e dimostra che non sempre, quando si parla di accoglienza, si parla davvero e per intero di politiche di accoglienza, di gestione controllata di flussi migratori, di strategie di medio-lungo periodo per fronteggiare un fenomeno che, da qualunque lato lo si guardi, non ha nulla di passeggero. Accoglienza non è salvataggio degli uomini in mare, e nemmeno mero deposito e magazzinaggio di uomini: è tutto quello che viene dopo, e per cui purtroppo il nostro Paese non si è dimostrato, finora, seriamente attrezzato.

Però Calabresi ha ragione su un punto: il problema non sono, non possono essere le Ong. Ragioniamo per ipotesi: se domani mattina dal Mediterraneo scomparissero d’incanto tutte le navi che oggi prestano soccorso in mare, gli arrivi dall’Africa subsahariana, dalle regioni più povere del mondo, dai teatri di guerra africani e del Medio Oriente si arresterebbero? È illusorio crederlo. Piuttosto, la pressione demografica, che si esercita su Paesi gravati spesso da condizioni politiche, economiche e ambientali assai difficili, continuerebbe a spingere uomini, donne e bambini a tentare altre vie e a inventarsi altri mezzi e maniere per lasciare le loro terre in cerca di migliore fortuna. Né si farebbe miglior figura a dire che però, in questo modo, sarebbero risparmiati i porti e le città italiane. Mentre chiediamo all’Europa di impegnarsi in uno sforzo comune e condiviso, e ci rammarichiamo degli egoismi degli altri Paesi (ma – sia detto per inciso – questi altri Paesi non hanno affatto, in generale, una presenza di stranieri inferiore alla nostra, e noi non siamo affatto sotto minaccia di un’invasione), non si può fondare una politica nazionale solo sul modo in cui deviare i flussi verso altre mete, altri porti e altre città. In ogni caso, pure in questa ipotetica disinfestazione del nostro mare, non si riuscirebbe certo ad interrompere, estinguere, troncare la migrazione in corso. Ed è per questa ragione che non si vuol spedire la palla in tribuna quando si chiede invece all’Unione europea di fare fronte comune. Da un lato, l’Europa tutta non sarà più senza stranieri, senza cioè una quota significativa di popolazione extra-europea, il fenomeno è strutturale e la xenofobia non è una soluzione. Dall’altro, l’Europa prima ancora che l’Italia deve anche sapere, e non può fingere di non sapere, che la rotta centrale del Mediterraneo, che porta i migranti in Italia, è anche quella più costosa in termini di vite umane.

Ma una politica nazionale ci vuole. E accogliere tutti non è una politica: questa è una proposizione “grammaticale”, un’istruzione sull’uso della parola “politica”. Che comporta sempre una qualche correlazione fra fini e mezzi, fra possibilità e realtà, fra fatti e parole. E, certo, anche fra quello che siamo e quello che vogliamo essere. Ora, è comprensibile che un’organizzazione non governativa, in ossequio ai propri principi (che trovano fondamento in norme e convenzioni sovranazionali), agisca secondo finalità strettamente umanitariee e provi a salvare il maggior numero di persone. Ma lo è altrettanto che uno Stato, nelle proprie politiche, tenga conto delle conseguenze di quell’agire. Che denunci l’effetto perverso per cui all’aumentare delle possibilità di salvataggio in mare dei migranti aumenta anche il numero di imbarcazioni che gli scafisti mettono in acqua, lucrando sulla disperazione dei migranti e sulla buona fede dei soccorritori. Ma se non si può chiedere alle Ong di spezzare un simile circolo vizioso, non vuol dire che lo Stato italiano non debba cercare di spezzarlo. Il codice Minniti è un tentativo del genere. Si tratta peraltro di un codice di autodisciplina (che quindi viene liberamente sottoscritto), prova a dare regole comuni alle azioni di salvataggio in mare, e prevede, in certi casi, presenza di polizia giudiziaria: non per militarizzare le Ong, ma per la conduzione di attività di indagine sul traffico di esseri umani.

Entro questi limiti, il tentativo ha senso. Non lo ha più, ed anzi prende un senso perfino sinistro, se ad esso si affida una sorta di prova muscolare con cui dimostrare che non vogliamo più stranieri sull’italico suolo. Non sono troppi, gli stranieri, e non sono nemmeno pochi: sono invece fatti entrare nel peggiore dei modi possibili. Per mani clandestine, a rischio della loro stessa vita, in balia di mercanti senza scrupoli. Ammassati nei barconi, ammassati nei centri di accoglienza, ammassati nelle periferie delle nostre città. E chissà: magari in futuro in uno stadio. Masse, insomma: che perciò fanno numero, e fanno paura. Ma se chiudere ogni via è impossibile, oltre che ingiusto, aprirne di regolari, e controllate, è, invece, una strada percorribile. E per farlo bisogna, credo, aprire un poco anche le nostre menti.

(Il Mattino, 9 agosto 2017)

Opportunità e rischi con un liceo di quattro anni

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L. Fontana, Concetto spaziale. Attese (1964)

Quattro anni invece dei tradizionali cinque anni di liceo. L’aspetto positivo della sperimentazione avviata dal ministero dell’istruzione è che, appunto, si tratta di una sperimentazione. Non dunque di una riforma fatta e finita, ma di un primo passo per provare ad abbreviare i percorsi didattici e accorciare i tempi di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, avvicinandoci così agli altri paesi europei. L’intenzione del governo non è quella di ridurre la quantità e la qualità dell’insegnamento nelle scuole secondarie superiori, ma quello di comprimerlo, in modo da svolgere i programmi in quattro anni anziché in cinque.
Una sperimentazione va valutata dopo un congruo periodo di tempo, sulla base dei risultati, ed è quindi prematuro esprimere un giudizio compiuto. Tuttavia è lecito nutrire qualche dubbio sul fatto che sia questa la strada da preferire per affrontare i problemi della scuola italiana. Che sono certamente legati all’inserimento nel mondo del lavoro e quindi al collegamento di questo mondo con quello dell’istruzione e della formazione, ma che sembrano per questo dipendere molto di più dalle condizioni del sistema universitario, che non dalla durata dei percorsi liceali.
Questo è infatti il primo dubbio: che il Ministero guardi nella direzione sbagliata, e punti a cambiare la scuola quando invece si tratterebbe anzitutto di potenziare la formazione universitaria. L’Italia ha ancora pochi laureati, a confronto con i partner europei. E per portare più giovani a laurearsi è dubbio che possa servire abbreviare gli anni di studio al liceo. Quel che occorre è invece una robusta inversione di tendenza nelle politiche condotte finora verso l’università: in termini di finanziamento del fondo ordinario per gli Atenei, ma anche di orientamento allo studio, e di borse a sostegno del diritto allo studio. Pochi ragazzi hanno chiaro in testa cosa significhi lo studio universitario, e troppo poco fanno le scuole e le università per chiarirglielo. In queste condizioni, togliere un anno non è un contributo alla chiarezza: riduce i tempi, ma c’è il rischio che aumenti le distanze.
Dalla sponda universitaria si vede bene un altro motivo di perplessità di fronte alla sperimentazione annunciata. Un buon sistema educativo assicura una buona formazione di base. Per formazione di base non intendo una formazione elementare, ma una formazione generale, sopra la quale soltanto possono innestarsi percorsi specifici. Questa esigenza è tanto avvertita, che gli ultimi dati attestano un movimento in contro tendenza rispetto agli anni precedenti, con un ritorno significativo agli istituti liceali rispetto agli altri tipi di istruzione secondaria superiore. Quello che i licei assicurano è infatti una formazione ampia, profonda, non specificamente tecnica, non immediatamente professionalizzante, in grado di aprire a ventaglio, non di chiudere e limitare, le possibilità di proseguire gli studi dopo la chiusura del ciclo scolastico. Non è vero affatto, peraltro, che le imprese abbiano bisogno di figure già dotate di abilità precise e ben delimitate: hanno bisogno semmai di giovani sempre più in grado di costruire nuove competenze anche al termine del periodo di formazione scolastico. Per dirla con una metafora biologica: non hanno bisogno di cellule specializzate, ma di cellule totipotenti. Ora, questa capacità, che nel linguaggio contemporaneo si esprime anzitutto in termini di flessibilità, si acquisisce non al termine, ma all’inizio dei processi di formazione scolastica. Di nuovo, dunque, appare il rischio che comprimere lo studio liceale non garantisca un reale vantaggio, ma comporti piuttosto una perdita.
Infine, ripensare la scuola significa ripensare anche le cose che vi si insegnano. Noi restiamo un paese povero di cultura scientifica, che di solito, quando riflette su questa carenza, non trova di meglio che chiedere, per ovviarvi,  meno cultura umanistica. Come se il gioco fra le due culture fosse ancora un gioco a somma zero. Non è così, perché la cultura è una e le sue parti possono e devono sostenersi reciprocamente. Piuttosto, è l’illusione che la scuola possa mettersi a scimmiottare quello che accade in altri luoghi della società e della vita pubblica, e che i ragazzi sono ben in grado di imparare in altro modo e per altri canali, a togliere spazio – ma anche credibilità e autorevolezza – alla formazione scolastica. Svecchiare la scuola non può significare dunque imbellettarla con qualche nuovo strumento tecnologico, dimenticandosi di curare l’impianto formativo di fondo.
Va bene sperimentare, insomma, ma senza illudersi che lo scopo della scuola sia solo quello di far prima. Pochi, maledetti e subito vale forse per qualche affare da concludere rapidamente, ma non può essere la qualità dei nostri ragazzi quando escono dal liceo.
(Il Messaggero, 8 agosto 2017)

La magistratura malata di correntite

 

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R. Morris, Three Rulers (1963)

La nomina del procuratore della Repubblica di Napoli – una buona notizia, dopo mesi di supplenza – sta suscitando un vespaio di polemiche. Il voto al CSM, che ha scelto a maggioranza Giovanni Melillo – non è piaciuto a “Unità per la Costituzione”, che dopo essersi espressa compattamente, in seno al Consiglio, a favore di Federico Cafiero de Raho, ha diramato un lungo comunicato per esprimere la propria insoddisfazione per la linea adottata dall’organo di autogoverno della magistratura.
Nessuno dei motivi ripresi nel comunicato – due, essenzialmente:  la maggiore anzianità in servizio di Cafiero de Raho, e la vicinanza di Melillo al governo, avendo avuto un legame fiduciario con il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, di cui è stato Capo di Gabinetto fino a poco tempo fa – è in realtà rimasto fuori dalle considerazioni svolte nella discussione al CSM. Tuttavia i vertici di “Unità per la Costituzione”, insoddisfatti e per nulla persuasi, hanno voluto ribadirli. E, nel ribadirli, hanno:
ricordato le qualità di Cafiero de Raho che, a loro dire, lo rendevano preferibile per il ruolo di procuratore; mostrato apprezzamento per la “compattezza” dei propri rappresentanti in seno al Consiglio; preso atto della scelta diversa operata non solo dai membri laici del CSM ma anche dai “prorogati componenti di diritto”, che è un modo obliquo e reticente per dire che la nomina di Melillo è stata, per Unicost, voluta dalla politica, e dai magistrati che devono ringraziare la politica per essere ancora in carica; espresso, infine, perplessità, per la scelta di quei membri togati che hanno preferito Melillo a De Raho (nonostante, è il poco gentile sottinteso, la toga che portano).
Il comunicato termina con un augurio di buon lavoro al nuovo procuratore, che dopo tutto quel che si è letto fin lì, suona puramente di circostanza.
Ora, è chiaro che dopo la spaccatura del CSM, Melillo dovrà lavorare per stabilire un clima di collaborazione, di fiducia e di rispetto reciproco, il che è peraltro indispensabile per il buon funzionamento di qualunque struttura complessa. È chiaro pure che le sfide di un territorio come quello napoletano “pervaso da potenti organizzazioni criminali” – come scrive Unicost nell’ultimo rigo del suo comunicato – richiedono anzitutto unità di intenti, e le polemiche non sono certo il miglior viatico per il nuovo Capo della Procura. Ma il commento critico che Unicost non ha saputo evitare di dettare fa soprattutto questo effetto, di ricordare anche al più distratto dei suoi lettori qual è il peso delle correnti in magistratura e quali sono le logiche con cui si muovono.
Gli esponenti di Unicost nel CSM si sono mostrati compatti, e il  Presidente e il Segretario del loro partito esprimono grande apprezzamento, proprio come il capo di una corrente democristiana d’antan poteva congratularsi con i propri esponenti all’indomani di un voto in Parlamento. Tutto il fulcro del ragionamento ruota intorno all’imparzialità che il magistrato deve assicurare: non solo essere, ma anche apparire imparziale. E Melillo, per via dell’incarico a via Arenula, non avrebbe questo fondamentale requisito. La qual cosa, ovviamente, non viene detta così: chiara e tonda; ma lasciata intendere, come nel più tradizionale teatrino delle dichiarazioni che i politici rilasciano a margine di un congresso, o di una riunione di direzione. Dopodiché, però, più della rivendicazione della necessaria distanza dalla politica, quel che si sente distintamente, nelle parole usate dalla corrente, è non una rivendicazione di indipendenza ma una rivendicazione di appartenenza, uno spirito di corpo: i miei e i tuoi, gli amici egli avversari, quelli che stanno con me e quelli che stanno con gli altri, o si fanno comprare dagli altri.
Non è mai troppo tardi per accorgersi della politicizzazione della magistratura e della sua degenerazione correntizia, naturalmente. Ma quando (e se) ce ne si accorge, più che prendersela con il prescelto della corrente avversa, sarebbe bene che si provasse a mettere mano seriamente a una riforma dell’istituzione. E invece l’unica riforma che, in materia di giustizia, non ha fatto nessun passo, né in avanti né indietro, né in bene né in male, è la riforma del CSM. Per forza: il governo ha deciso di aspettare l’autoriforma. Campa cavallo. Così il Consiglio Superiore della Magistratura può limitarsi a emanare serissime e più stringenti circolari, per esempio in materia di incarichi, per poi applicarle, disapplicarle o diversamente applicarle a seconda delle esigenze. E, sempre a seconda delle esigenze, o meglio degli interessi in gioco, troverà quelli che ne lamentano l’applicazione, quelli che ne lamentano la disapplicazione, e quelli che ne lamentano la diversa applicazione. In un festival dell’ipocrisia, per cui stavolta sobbalza Unicost, la prossima volta si inalbera Area, e la volta ancora dopo chissà chi.
Non è, come si vede, questione di come possa lavorare Melillo a Napoli e di quale clima troverà in Procura, ma, purtroppo, di come funziona la giustizia italiana.
(Il Mattino, 1° agosto 2017)