
S. Gilliam, Fire (1972)
Muoiono, e sono giovani. Uccidono, e sono giovani. Conoscete la canzone «Under the mango tree»? A Vilnius Lancastre, il protagonista del romanzo «Un’aria da Dylan» dello scrittore barcellonese Enrique Vila-Matas, il calipso leggero e scanzonato della canzone dona una lieve felicità: «e allora?», chiede. Che cosa c’è di male ad essere felici grazie a una canzonetta? Che cosa c’è di male se ogni tanto sentiamo il bisogno di respirare un po’ di leggerezza? E cos’altro respiravano, a Barcellona, Luca Russo e Bruno Gullotta, i due italiani vittime dell’attentato sulle ramblas della città catalana? Entrambi erano in vacanza a Barcellona. Bruno era con la sua famiglia, con i suoi figli, con la moglie, quando il furgone lo ha falciato, lasciandolo morire a terra dinanzi agli occhi dei suoi bambini. Luca era con la fidanzata: lei è ferita, per fortuna in modo non grave, lui è stato travolto dal furgone, volato via dalla vita e dalla gioventù per la follia omicida di terroristi forse ancora più giovani di lui.
Che cosa allora significa essere giovani? Avere la feroce determinazione di chi conduce una guerra cieca e indiscriminata contro tutto ciò che odia, o avere la libera spensieratezza di chi vuole vivere qualche giornata da turista in una delle città più giovanili d’Europa?
Nel romanzo di Vila Matas, lo scrittore incontra a un certo punto, in aeroporto, un collega, oppresso al pensiero che ai tavolini dei bar non si parli di libri, ma solo di sport, o «dell’ultimo omicidio in serie o dell’ultimo capo militare arabo detronizzato». E che sui giornali ci siano solo «Wall Street, la Siria, la Libia, l’Iraq, la Grecia, il Giappone o la florida Cina». Ma cosa c’è, nelle nostre vite? Cosa ha diritto di esserci nella vita di un giovane che vive in Occidente, in Italia, che ad agosto va in vacanza a Barcellona, che passeggia sulle ramblas, che magari il giorno prima strabuzza gli occhi dinanzi alla Sagrada Familia di Gaudì e progetta di andare il giorno dopo su, al Parc Güell, che prenota una visita al Museo Picasso o che porta i bambini allo stadio dei mitici blaugrana? E come invece si riempiono le giornate di quegli altri giovani, quelli che trascorrono quelle stesse giornate di caldo e di mare in qualche luogo nascosto, preparando l’attentato, procurandosi armi, studiando percorsi, cospirando e odiando?
Lontano da giorni tragici come quelli che viviamo, siamo disposti a considerare la superficie delle nostre vite, o quella dei nostri ragazzi, non ricca e preziosa, ma vuota e banale: l’ombrellone, la partita di calcio, una settimana da turisti perché a chi non piace viaggiare? Poi quei giorni si avvicinano, piombano tra le nostre strade – a Parigi, a Madrid, ora a Barcellona –. Succede che altri giovani, che hanno in odio (hanno in odio, o segretamente invidiano?) tutta la libertà e il consumismo dell’Occidentale laico, secolarizzato e senza Dio, si mettano al volante di un camion e seminino il terrore tra la folla. D’improvviso la prospettiva cambia. D’improvviso capiamo: non siamo noi i nichilisti, non siamo noi a rendere tutto insignificante ed insensato, non è la nostra libertà senza scopo; è il loro scopo ad essere insensato, è il loro fondamentalismo a strappare alla vita le sue ore più amichevoli e più lievi.
Quando si è giovani è strano: così cantava Guccini nella canzone per un’amica. È strano che la sorte arrivi e ti prenda per mano. Per Bruno e Luca è stata la sorte, una fatalità terribile e assurda: se solo si fossero decisi per la passeggiata un’ora prima o un’ora dopo… Ma per gli assassini che hanno lanciato il furgone contro di loro, e contro tutte le altre persone che camminavamo nella luce piena e indivisa di un pomeriggio agostano, non è stata la sorte: è stata una volontà precisa, deliberata, assoluta. È stata un progetto, un disegno, una missione di morte.
A partire dall’Ottocento, essere giovani è divenuto una categoria e insieme una forza della politica. Se ne sono nutrite le nazioni e le guerre che hanno fatto la storia d’Europa, e del mondo. Oggi alimenta una grande parte del risentimento che solleva il fondamentalismo islamico contro l’Occidente, che venga dall’altra sponda del Mediterraneo o invece sia coltivata nelle periferie delle nostre città, fra giovani radicalizzati della seconda o terza generazione di immigrati musulmani. La democrazia, per costoro, non è una via per l’integrazione e la partecipazione alla vita pubblica. Essere giovani significa voler rovesciare l’ingiustizia del mondo, che offende il loro Dio e le loro stesse esistenze. Può darsi che non scelgano soltanto, ma siano scelti, per i luoghi e le persone con cui si trovano ad essere: il modo, infatti, in cui una scelta si intreccia con una vita è spesso imperscrutabile. Ma noi sappiamo che non hanno ragione. Ci sgomentano le loro grida, e ancor più ci sgomenta la loro età. Perché noi sappiamo che si ha tutto il diritto essere giovani e felici prendendosi qualche giorno di ferie, e che anzi non c’è gioventù che valga la pena di difendere più di questa. Chissà, forse negli spazi infrasottili dell’ironia con cui si scrivono le nostre vite più leggere, anche un dio più amabile e più umano amerà sorridere tra le note di qualche sciocca melodia
(Il Mattino, 19 agosto 2017)