Archivi del mese: settembre 2017

La riflessione necessaria per ripartire senza vecchi vizi

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L. Bourgeois, Appointment at 11.00 a. m. (1989)

La decisione di tenere la conferenza nazionale programmatica del partito democratico a Napoli nell’ultimo fine settimana di ottobre rende più che probabile uno slittamento di qualche settimana del congresso provinciale, inizialmente previsto nelle stesse giornate. È una decisione saggia, che introduce un po’ di ponderatezza in un dibattito che rischia altrimenti di dilaniare per l’ennesima volta il Pd. Non c’è nulla di male, ovviamente, nel celebrare un congresso in cui si confrontino più candidati alla guida del partito, ma c’è qualcosa di insano nel farlo, senza che vi sia una ragionevole certezza che almeno questa volta le cose fileranno lisce. Allo stato, questa certezza non c’è, e le esperienze recenti consigliano qualche prudenza in più, visto che il Pd non può certo permettersi di farsi un’altra volta travolgere dalla polemica sul modo in cui si fanno le tessere o si esprimono i voti. Tanto più se questo dovesse succedere a pochi mesi dal voto politico nazionale, e in una città governata dalla più esuberante forma di populismo di sinistra oggi disponibile. Che sembra star lì, a Palazzo San Giacomo, al solo scopo di ricordare in ogni momento l’insufficienza del profilo riformista del Pd.

Il Pd deve o dovrebbe partire proprio da qui: da nuove proposte, da progetti e idee per la città, da una robusta ripresa di contatto con la società civile e, certo, anche da una classe dirigente rinnovata. Nella difficoltà di ricomporre il partito intorno a una scelta unitaria, c’è il rischio che tutto questo passi invece in secondo piano, e prevalgano ancora una volta le macchine notabilari con i pacchetti di tessere a decidere la partita. Il tempo supplementare di cui può godere ora il Pd napoletano, può ancora essere speso per costruire almeno un percorso condiviso nell’avvicinamento al congresso e, magari, anche un segretario individuato con l’accordo delle varie componenti. Non riuscisse il tentativo, ci si può scommettere che il partito democratico si trasformerà per l’ennesima volta nel campo di Agramante, con ricorsi e colpi bassi, contestazioni e richieste di salvifici interventi da Roma. Perché nessuno conosce, al momento, com’è formata la base elettorale di questo congresso, cosa è successo con le iscrizioni online al partito e quali sono i numeri nelle diverse realtà territoriali. Né si vede ancora un partito capace di animare un vero confronto di opinioni, con il coinvolgimento reale di pezzi della società a cui offrire un’alternativa seria e soprattutto credibile alla dilagante retorica arancione.

I limiti del Pd sono, del resto, sotto gli occhi di tutti. Non è un caso che Mdp-Articolo 1 abbia scelto di tenere a Napoli la sua festa: fra le grandi città italiane, è quello che offre sicuramente più spazio alle formazioni della sinistra radicale per cercare un consenso popolare: Roma e Torino sono in mano ai CInquestelle, Milano, Bari, Bologna, Palermo, Firenze hanno amministrazioni a guida democratica con un buon indice di gradimento; resta Napoli, e infatti è qui che cerca di darsi la sua rappresentazione una sinistra più larga e plurale. Di fatto, in questi giorni, mentre i dirigenti locali sono alle prese con il rebus del congresso – quando tenerlo, come tenerlo se non addirittura perché tenerlo – i ministri del governo Gentiloni vengono a Napoli per parlare di politica con i fratelli coltelli di Mdp. Il mitico dibattito lo fanno loro, insomma, con i democratici napoletani assenti (ma presente Antonio Bassolino). I temi sono i diritti, la costituzione e l’antifascismo, il mezzogiorno e il regionalismo, l’ambientalismo e le violenze sulle donne, le mafie e la scuola. Ci sono, insomma, tutte le parole con le quali si è costituita in Italia l’identità storica della sinistra: c’è persino il dibattito sul «nuovo umanesimo», che si trova già declinato nel manifesto dei valori del partito democratico. Quelli di Mdp fanno la loro parte, insomma, e provano a sottrarre terreno al Pd e a dire che la sinistra sono loro. E certo è più facile se il Pd, a Napoli, non comincia a dire nuovamente cos’è.

Il tempo per lavorarci adesso, forse, c’è. O almeno ce n’è un po’ di più: dare nettezza alle linee programmatiche; dare forza all’opposizione alla giunta De Magistris, dare peso alle scelte di politica regionale, persino restituire al partito il senso di una comunità si può. A patto però di non ricadere negli antichi vizi, dominati da una distruttiva coazione a ripetere.

(Il Mattino, 28 settembre 2017)

Lo strappo a sinistra

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S. Balkenhol, Man with Green Shirt (1988)

Jeans e camicia fuori dai pantaloni, ai margini della festa di Rimini Roberto Fico intratteneva in un colloquio privato il neo-candidato premier Luigi Di Maio. Che gli stava davanti in giacca e cravatta, tanto lindo e pettinato quanto l’altro era sudato e arruffato. Fico non smetteva di gesticolare, Di Maio rimaneva fermo, quasi immobile, con le mani bene in tasca. Uno sembrava dannarsi a spiegare, l’altro non aveva che da mostrarsi comprensivo. In breve: uno ha perso, l’altro ha vinto. Uno è salito in cima al Movimento, come neocandidato premier, l’altro non è voluto nemmeno salire sul palco.

Vera partita non c’è stata, perché queste primarie si sono rivelate, nei numeri e nei partecipanti, poco più di una mera formalità autorizzativa. Ma per quanto Di Maio abbia assicurato, dopo la proclamazione, che non intende cambiare il Movimento, bensì l’Italia, le cose non stanno più come prima. Nel mescidato brodo culturale dal quale pescano i Cinquestelle c’è, è vero, un po’ di tutto, ma non tutto è rappresentato da tutti: la scelta di Di Maio dà una nuova rimescolata, ed è inevitabile che certi sapori finiranno col sentirsi più di altri.

Il denominatore comune a tutti i grillini – ieri come oggi – è la critica al sistema e il “vaffa” all’establishment. Il carburante rimane l’accusa di disonestà e di corruzione rivolta all’intera classe politica, lorda di immorali privilegi. Ma uno come Fico nel Movimento ha trovato anche un’istanza democraticistica radicale, perfetta per raccogliere la delusione di quelli di sinistra che non hanno più fiducia nei partiti tradizionali. Fico ha quell’anima lì: movimentista, roussoviana, vicina alle esperienze di base che, ora che si sono ridefiniti gli assetti di vertice, rischiano di rimanere soffocate. La linea del Piave dell’ala ortodossa incarnata da Fico, la «grande distinzione» che il Presidente della Commissione di Vigilanza ha tracciato ieri – un conto è il candidato premier, un altro il capo politico del Movimento; Di Maio è stato eletto per fare il primo, non per fare il secondo – non ha molte possibilità di reggere. O per meglio dire: tutto dipenderà ancora una volta dall’unico che può farla valere o revocare, cioè Grillo. Che però non è chiaro quanta voglia abbia di trainare i Cinquestelle anche nella prossima campagna elettorale. Certo è che in tutta la fase che si apre ora non vi è alcuna possibilità che le decisioni politiche fondamentali passino per i volenterosi militanti dei meet up o per una qualche forma di consultazione diretta che non sia, al dunque, un semplice bollino di ratifica.

Di Maio ha ripetuto anche dal palco di Rimini che il Movimento non è né di destra né di sinistra. Ma lui è quello che si è lanciato tutta l’estate nella polemica contro le Ong; Fico non ha detto una sola parola per sostenere una simile campagna. Fico si è esposto, in passato, quando si è trattato di discutere di unioni civili o di diritti dei malati terminali. Fa le battaglie sull’informazione per il ruolo che ricopre, ma non usa certo i toni di Grillo quando si tratta di attaccare la stampa. Fico, per capirci, è uno che votava Bassolino: quanta parte del mondo ideale di uno così può riconoscersi oggi nel contegno sussiegoso di Luigi Di Maio? Di tematiche riconducibili alla sinistra progressista, tra i Cinquestelle, rimane forse solo quella ambientale, ma l’identità del Movimento è sempre meno definita da queste battaglie.

Si tratta in realtà di un’evoluzione (o involuzione) inevitabile, se la scelta non è più quella di aprire le istituzioni come una scatoletta di tonno, come Grillo diceva nel 2013, ma di occuparle con i propri uomini, come si vuol fare nel 2018, presentandosi come forza seria e responsabile. Nella tradizione di questo Paese, non è la prima volta che un movimento politico si amputa di un pezzo alla sua sinistra, al momento di entrare nella partita per il potere. Se uno si va a leggere il manifesto programmatico dei fasci italiani di combattimento, presentato ufficialmente nel 1919, vi trova il solito refrain: non siamo né di destra né di sinistra. Ma dentro c’era anche un certo numero di istanze radicali di riforma: il suffragio universale, l’abolizione del Senato di nomina regia, la gestione operaia delle fabbriche, e via di questo passo. Tutte cose destinate a cadere. Il fascismo al potere farà infatti l’esatto opposto: toglierà di mezzo i partiti e la democrazia, manterrà il Senato e la Corona, si alleerà con il grande capitale.

Si prendano gli esempi per ciò di cui sono esempi. Non sto affatto gridando al pericolo fascista, né considero Di Maio un novello Mussolini. Dopo tutto, non ne ha la mascella. Sto dicendo invece che è normale che un movimento dentro cui c’è stato finora un po’ di tutto cambi natura nel passaggio dalla fase protestataria a quella della proposta di governo. E la proposta dei Cinquestelle si viene sempre più definendo su una base populista e qualunquista, destinata ad espungere da sé gli elementi spuri, che non entrano facilmente nel quadro. O magari nemmeno se la sentono di entrare nel quadro: non salgono sul palco, non si fanno la foto opportunity col nuovo capo, e provano anzi a sostenere, come ha fatto Fico, che non è affatto un capo. Tesi ardua, anche perché i Cinquestelle il capo in realtà l’hanno sempre avuto: quel che hanno adesso, è piuttosto un problema di successione, che in tutte le formazioni non democratiche costituisce sempre la prova decisiva: hic Rhodus, hic salta.

(Il Mattino, 25 settembre 2017)

Di Maio candidato, ma le primarie sono un flop

Game of Chance 1987 by Robert Motherwell 1915-1991

R. Motherwell, Game of chance (1987)

Non proprio un bagno di folla, quello che il popolo cinquestelle riserva a Luigi Di Maio: vota solo un quarto degli iscritti, e Di Maio raccoglie circa trentamila voti su centocinquantamila. In un’elezione dal risultato assolutamente scontato, calano ovviamente l’interesse e la partecipazione: un’investitura annunciata non è un’elezione al fotofinish. Ma i dirigenti del Movimento si aspettavano comunque numeri più consistenti. La festa non è stata guastata dalle polemiche interne, ma è stata meno festosa di quanto forse ci si aspettava. Il dato politico però c’è tutto: da oggi, il Movimento Cinquestelle ha ufficialmente un nuovo leader. Grillo lo ha sottolineato con tono scherzoso: «da domani il capo politico del M5S non avrà più il mio indirizzo, tutte le denunce arriveranno a te», ha detto volgendosi verso il giovanissimo pupillo. Ma non è uno scherzo: è l’amaro calice che anche i più movimentisti tra i grillini debbono mandar giù, Fico per primo. Che non ha parlato. Che ha vistosamente ignorato Grillo ed evitato di applaudire Di Maio al momento della proclamazione. Ma che si è dovuto tenere per sé tutti i malumori covati in queste ore.

Le denunce arriveranno a Di Maio. E le liste, invece, chi le farà? I posti, i seggi: chi li assegnerà? È chiaro che il passo indietro (di lato, di danza) di Grillo non toglie nulla alla sua presa sul popolo pentastellato e al suo potere: Grillo rimane l’unico che può disdire quello che è già stato detto. Legibus solutus, può revocare domani quello che ha deciso oggi. Ma intanto, oggi, la decisione è presa: il Movimento Cinquestelle si identifica con Luigi Di Maio. Dargli autorevolezza, forza, credibilità è la priorità assoluta.

Lui, peraltro, è stato sempre così ben consapevole che il suo giorno sarebbe arrivato, che ha in realtà lavorato per fare il leader fin da quando si è seduto sullo scranno di vicepresidente della Camera. Lontanissimo, per stile, dallo spontaneismo arruffato e improbabile di tanti militanti e simpatizzanti, Di Maio ha deciso fin dal primo giorno di indossare giacca e cravatta, per lui quasi una seconda pelle. O forse una coperta di Linus: il modo per verificare ogni giorno allo specchio di avere la stoffa giusta per il ruolo che i padri del Movimento, Grillo e Casaleggio, hanno pensato per lui. L’unica cosa che Di Maio non può infatti permettersi, e con lui tutto il Movimento, è di apparire solo una figurina in mani altrui. Perciò l’accentramento delle responsabilità nelle sue mani, che tanto dispiace all’ala ortodossa del Movimento, è inevitabile e, probabilmente, sarà reso anche più evidente di quanto non sia.

Del resto, è abbastanza ridicolo parlare di tradimento delle origini. Alle origini c’è sempre stato un capo. Anzi. Un capo e un’azienda, la Casaleggio Associati, e la cosa ha ben potuto convivere con la retorica democraticista radicale. I Cinquestelle non hanno bisogno di dismettere quella retorica: faranno ancora le primarie online per la scelta dei candidati al Parlamento, indiranno ancora consultazioni online sui grandi temi in agenda (quando ognuno sa, peraltro, che il vero potere sta nel decidere l’agenda) e si riuniranno ancora nell’«agorà» quando si tratterà di far parlare tutti, come in questi giorni di festa a Rimini. Ma come in tutti i congressi di tutti i partiti, le decisioni vere continueranno a essere prese nel retropalco. E lì, da oggi, c’è una specie di strano triumvirato formato dal carisma ancora detenuto da Grillo, dalle chiavi della macchina organizzativa di proprietà di Davide Casaleggio, dalla responsabilità politica assegnata a Luigi Di Maio.

Piuttosto che le frizioni e le tensioni che attraversano il Movimento (e che rimarranno sotto le ceneri a lungo, se non interverranno fatti esterni a riaccendere il fuoco), sarà decisiva la capacità del neo-candidato di presentarsi come la carta nuova e vincente dei CInquestelle dinanzi all’elettorato. È lì, non fra gli iscritti, che si decide il futuro del leader. Non a caso, nel suo primo discorso dopo la proclamazione dei risultati, Di Maio ha detto subito che il suo compito non è cambiare il Movimento, ma cambiare l’Italia. C’è da dire che se lui cambiasse davvero l’Italia, il cambiamento del Movimento verrebbe da sé. Cionondimeno resta vero: gli sforzi saranno d’ora innanzi dedicati tutti alla proposta politica. E per dare il segno di una maturità ormai raggiunta dal Movimento, Di Maio ha ripetuto anche dal palco di Rimini che intorno a lui schiererà una forte squadra di governo, che dia il senso di una vera competenza e, forse, anche quello di uno spostamento di classe dirigente a rinfoltire i ranghi dei Cinquestelle.

In ogni caso, ha assicurato Di Maio, non sarà un governo di destra o di sinistra, il suo, ma fatto solo di «persone capaci». Si tratta di uno slogan che ha attraversato la seconda Repubblica, per dir così, da prima che nascesse: che ha contribuito alla delegittimazione della politica e a ha consentito ai Cinque Stelle di crescere. Anche da questo punto di vista, dunque: nessun tradimento delle origini. Ma come per la leadership una figura preminente non può non emergere nel momento in cui ci si candida alla guida del Paese, così anche sul piano ideologico i nodi debbono venire al pettine, e il populismo acchiappa-voti di qua e di là con cui ha prosperato il Movimento dovrà prendere una figura più determinata, se vorrà farsi programma di governo.

(Il Mattino, 24 settembre 2017)

La resa dei conti è solo rinviata. Decisiva la Sicilia

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F. Clemente, La partenza dell’argonauta (1986)

A Rimini è una festa che s’ha da fare, avrà pensato Grillo nei prepotenti panni di Don Rodrigo del Movimento Cinque Stelle, e dunque Roberto Fico è meglio che non prenda la parola: rischierebbe di rovinare la cerimonia. Ma i malumori che non possono manifestarsi durante l’incoronazione di Di Maio, che domani verrà proclamato candidato premier, rischiano di esplodere al primo intoppo. Si conosce già la casella del calendario dove è piazzata la mina che potrebbe farli saltare fuori: 5 novembre, elezioni regionali siciliane. I Cinquestelle si sono avvicinati a quell’appuntamento convinti di poter arrivare alla vittoria, o almeno a una incollatura dal vincitore. Ma dopo l’ennesimo pastrocchio nelle regionarie, con l’ormai consueta scia di ricorsi, interventi del tribunale e atti di imperio di Grillo per confermare il candidato Cancelleri, tutto si può dire meno che il risultato sia già in tasca.

Prima di quella data, però, Fico non ha spazio per muoversi, per rappresentare un’alternativa politica reale a Luigi Di Maio. In linea di principio lo sarebbe. Fico non è andato né alla City di Londra né a Cernobbio per accreditarsi preso i mercati, come Di Maio. Fico non ha partecipato alla campagna d’estate sui migranti e contro le Ong, come Di Maio. Fico non ha nemmeno baciato l’ampolla contenente il sangue di San Gennaro, come Di Maio. Da ultimo, e soprattutto, Fico non ha condiviso l’ampiezza di mandato che le primarie online consegneranno al vincitore. Invece di avere soltanto un candidato premier, i grillini c’è il rischio che vedano pure Luigi Di Maio associato a Grillo e a Casaleggio nella guida politica del movimento. Un inedito triumvirato, che contraddice abbondantemente lo spirito dei meet up della prima ora, di cui Fico, insieme all’ala cosiddetta ortodossa, vuole essere ancora espressione.

Con sempre maggiore difficoltà, però, visto che sempre più declinano, o si traducono in semplici paramenti esteriori, i miti della trasparenza e della democrazia diretta. E difatti. Queste primarie sono state le più veloci della storia, con soli tre giorni tre di campagna elettorale. I candidati non hanno dovuto presentare un programma, ma una semplice dichiarazione di intenti. La piattaforma che ospitava la votazione si è impallata più volte. I tempi per votare sono stati prolungati a singhiozzo. I risultati sono stati raccolti ma non proclamati ufficialmente. Nessuna certificazione pubblica e verificabile è stata eseguita: tutto è in mano a due notai di cui però non si conosce il nome. La democrazia, ragazzi: quella è un’altra cosa.

Ma i partiti sono associazioni private, e fanno un po’ quello che vogliono. In particolare quando c’è da piegare, se non le regole, almeno la retorica alle esigenze del momento. E questo è il momento di Di Maio, il momento in cui il Movimento deve mostrarsi unito e compatto dietro il novello leader, il momento in cui, dunque, non sono ammesse polemiche interne. Grillo ha la forza per imporre il suo pupillo e tacitare i suoi avversari. Sa che i Cinquestelle hanno bisogno di presentare un candidato che trasmetta non solo il senso di una novità, ma anche quello di un’autorevolezza che è ancora tutta da conquistare. Perciò, va bene che tutti sono uguali, che uno vale uno, che gli incarichi si assumono a rotazione e in Parlamento non ci sono onorevoli ma megafoni dei cittadini, però per Palazzo Chigi il prescelto non può che essere uno solo. Ed è lui, è Luigi Di Maio il Lancillotto. Quanto alla leaderizzazione del candidato, sarà interessante vedere se in campagna eletorale avremo il suo volto in primissimo piano sui manifesti e negli spot, come impone la comunicazione politica oggi, o se campeggeranno soltanto le anonime Cinque Stelle del simbolo (e la barba e la chioma di Grillo, va da sé).

Questa è la strategia: si fa corsa tutti insieme per Di Maio senza aprire una discussione vera. Scordatevi i meet up, non azzardatevi ad organizzarvi come opposizione interna. Ovviamente nessuno ha la forza per contrastare questi piani di battaglia. Di Battista, perciò, si è adeguato subito, Fico invece no. Se le cose in Sicilia andranno bene, anche lui finirà ovviamente col piegare il capo e pure le orecchie. Ma se il centrodestra vincesse? Se il Pd non andasse così male come si prevede, e i Cinquestelle non andassero così bene come fino a poco tempo fa si pensava?

A quel punto la partita potrebbe riaprirsi. Non certo nel senso che Di Maio sarebbe rimesso in discussione, ma nel senso che Grillo potrebbe essere costretto a concedere qualcosa nella composizione delle liste. Sarebbe una novità assoluta, anche se difficilmente si aprirebbe una dialettica politica reale dentro il Movimento. La ragione è semplice: una simile dialettica è incompatibile con la figura dell’insindacabile capo politico che, quale garante,  Grillo continua ad essere. (Ed è impensabile pure che Grillo permetta quello che sempre succede nel Pd, dove non si smette mai di esercitarsi nel logoramento del leader). Più facile allora che all’emergere di malumori, in caso di insuccesso in Sicilia, Grillo reagisca come ha sempre fatto finora: con le fuoriuscite e le espulsioni. Col rischio però che qualcosa si incrini nel rapporto con l’opinione pubblica.

Meglio non pensarci, allora. Oggi è il giorno della grande festa. E siccome del doman non v’è certezza, per ora Fico non parla, il resto si vedrà.

(Il Mattino, 23 settembre 2017)

 

Il solerte Di Maio e la liquefazione del potere

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A. Kiefer, The Red Sea (1985)

“Ossequioso e conformista, egli ragiona più o meno così: sono consapevole del fatto che nessuna verità si nasconde nell’autorità, tuttavia continuo a prendere parte alla messa in scena obbedendole, al fine di non compromettere il corso naturale delle cose”. Naturale o forse sovrannaturale, se sei vicepresidente della Camera e stai assistendo alla liquefazione del sangue di san Gennaro, nel giorno del santo patrono della città. Ma le parole citate non possono riguardare davvero Luigi Di Maio, dal momento che si trovano in un saggio del filosofo sloveno Slavoj Zizek di vent’anni fa. Le ha ripescate però, più di recente, Mauro Magatti, per tratteggiare la figura del trickster, del briccone divino, che nell’interpretazione del sociologo milanese diviene una sorta di “nichilista adattivo”, uno che non crede a niente ma sa adattarsi bene a qualunque situazione. Uno così può partecipare ai vaffa day fin dai suoi esordi ma anche indossare per un’intera legislatura la giacca e la cravatta dell’uomo delle istituzioni e, appena ufficializzata la sua candidatura nelle primarie grilline per la premiership, baciare compunto la teca contenente il sangue del Santo. “Per la prima volta”, confessa Di Maio, come se nessuno se ne fosse accorto che l’anno scorso, e l’anno prima, e quell’altro anno ancora, Di Maio nel Duomo non c’era.

Ma la sfrontatezza, si sa, è una caratteristica del trickster. La sfrontatezza o l’impudenza, insomma la capacità di dire le cose che si vogliono dire, vere o false che siano, con una imbattibile faccia di tolla. A momenti, il Movimento Cinque Stelle sembra tutto intero assumere questa caratteristica. Come quando avanza la proposta del referendum sull’euro (di cui da un certo momento in poi si sono perse le tracce), o come quando sposa le preoccupazioni complottiste e anti-vax, salvo poi infilarsi in una serie di complicate marce indietro.

Da che pulpito, si dirà. Luigi Di Maio che omaggia San Gennaro nei panni mai indossati prima del fedele, non viene dopo Silvio Berlusconi che racconta barzellette ai grandi della Terra, o dopo Renzi che sale al governo annunciando una riforma al mese? Non hanno anche costoro assunto i tratti del trickster? Non hanno indossato maschere, raccontato frottole, inscenato una parte?

Sicuramente. Ed è forse questo che colpisce di più: la presenza di un medesimo tratto su tutto lo spettro della politica italiana. Una cosa che non si riuscirebbe invece ad attribuire alla signora Merkel. La vediamo seria, sempre dignitosa, mai sopra le righe, mai tentata dalla buffoneria o dalla demagogia. Tutto il contrario dei nostri governanti (ma faccio salva la Presidenza della Repubblica, per la fortuna di tutti noi). Quando poi succede che persino due compassati ex Presidenti del Consiglio, Enrico Letta e Romano Prodi, dimenticano l’abituale misura e, intervistati da un comico, quasi si danno di gomito, lasciandosi andare a battutine maligne e un poco rancorose all’indirizzo di Renzi, allora vien fatto di pensare che qualcosa si è guastato in profondità, e che è sempre più difficile tenere compostezza di gesti, di posture, di parole.

Magatti componeva il suo ritratto del trickster anche con altre pennellate. Oltre alla capacità di mescolare disinvoltamente e con un certo cinismo il vero e il falso, il serio e il faceto, l’alto e il basso,  questo disinvolto furbacchione – a volte licenzioso (Berlusconi), a volte sbruffone (Renzi), a volte sussiegoso (Di Maio) –  è privo di un “significante padrone”, cioè di una posizione etica, di una stabile identificazione simbolica, di una parola alla quale legarsi e che si è in grado di mantenere. E qui, in verità, sospetto che c’entri meno il carattere dei singoli e molto di più la frana ideologica della seconda Repubblica, che non ha risparmiato nessun partito politico.

Ancora. Il trickster è affetto da presentismo, vive cioè in un tempo privo di profondità, tanto nella fedeltà al passato quanto nella promessa di futuro. Gioca ogni volta tutta la partita, come se non ci fosse nient’altro. E questo è Berlusconi che fonda un partito o una coalizione a ogni nuova legislatura,  Renzi che sceglie lo slogan “Adesso!”, ma anche i Cinquestelle che non vogliono più di due legislature per i loro parlamentari (vedrete: con le dovute eccezioni), e che soprattutto vogliono fare la rivoluzione domani mattina. Salvo accorgersi, per esempio a Roma, che è maledettamente difficile cambiare anche solo di poco questo Paese.

Al trickster di Magatti manca tuttavia un elemento, che c’è nella tradizione e nel mito. L’albero genealogico del briccone divino comprende infatti divinità come Hermes, e imbroglioni come Pulcinella. E a tutti presta una caratteristica, che è quella di frequentare zone liminari, di confine, dove le regole si fanno più deboli e si infrangono più facilmente, e dove però si fa esperienza non solo della loro sospensione o distruzione, ma pure di una possibile nuova creazione. Trickster è anche il personaggio che, con la sua furbizia o con qualche scorrettezza, fa andare avanti la storia e trova nuove imprevedibili vie. Questa forse sarà l’happy end della seconda Repubblica, se e quando ne saremo venuti fuori. Ma chi o cosa riuscirà nell’impresa, rimettendo in carreggiata il Paese, questo, purtroppo, ancora non si sa.

(Il Mattino, 20 settembre 2017)

La politica debole e le Procure forti

Serra 1984

R. Serra, Malmo Roll (1984)

«La mia esperienza mi dice che quei reati sono difficili da provare»: parola di Antonio Di Pietro. Parola non di oggi, ma del gennaio 2008. Clementa Mastella, ministro della Giustizia del secondo governo Prodi, ha ricevuto un avviso di garanzia per concussione: è accusato di aver esercitato pressioni indebite su Antonio Bassolino, a proposito della nomina di un commissario nella sanità campana. Di Pietro, allora ministro pure lui, vede giusto, ma la sentenza di assoluzione in primo grado è arrivata solo qualche giorno fa: la bellezza di nove anni e mezzo dopo. «Non riesco a immaginare Sandra Mastella che minaccia, concute e fa morire di paura Bassolino», diceva Di Pietro. Lui non ci riusciva, ma i magistrati invece sì, perché Sandra Mastella finisce agli arresti domiciliari, e tutto il partito di Mastella, l’Udeur, viene travolto dallo scandalo. Non rinascerà più. Così come non rinascerà più l’esperienza politica dell’Unione, la maggioranza che portò Prodi a Palazzo Chigi per la seconda volta.

Ma l’intervista di Di Pietro a Repubblica merita di essere citata ancora. Di Pietro non interveniva per esprimere solidarietà a Mastella, ma per prendere le distanze dalle critiche ai magistrati che si era permesso di formulare. Lui, i suoi compagni di partito, tutto il Parlamento che lo aveva applaudito con uno «scrosciante battimano bipartisan». Non si fa. È un atto di eversione democratica. E lo è anche se è perfettamente chiaro, a Di Pietro per primo, che tutto finirà in un nulla di fatto. I magistrati – lo dice lui stesso – hanno «scoperto l’acqua calda», cioè come si fa politica al Sud. E come volete che si faccia? Con logica clientelare e spartitoria, spiega l’ex pm molisano. L’obiettivo diventa allora azionare la legge penale per sradicare questa maniera di fare politica. L’ex-magistrato, il simbolo di Mani Pulite, lo dice a chiarissime lettere: «La difficoltà di individuare un reato per contestare comportamenti lottizzatori e clientelari esiste». Quel che non dice, è perché, in base a quale idea e civiltà del diritto, comportamenti lottizzatori e clientelari debbano essere trasformati ipso facto in reati, piuttosto che essere sanzionati democraticamente alle elezioni. Che qualcosa non quadra è chiaro però pure a lui, visto che aggiunge: «non è affatto detto che tutto debba essere risolto per via giudiziaria».

Non è detto, però viene fatto: le notizie di questi giorni lo dimostrano. Caso Cpl-Concordia. 2015. L’inchiesta riguarda la metanizzazione dell’agro aversano e di Ischia. Il governo in carica è quello di Matteo Renzi. Cosa c’entra Renzi con il gas metano? Fa per caso le vacanze ad Ischia? Non risulta. Ma finisce intercettato lo stesso. Una soffiata – non si sa bene se pilotata o no – spinge infatti gli spaventati dirigenti della cooperativa a cercare di capire perché sono finiti sotto inchiesta. Si rivolgono a un generale. Il generale, per gli inquirenti, è Michele Adinolfi. Vengono disposte le intercettazioni. Il generale parla con Renzi, e le conversazioni finiscono sui giornali, scatenando un putiferio. Del versante giudiziario si son perse le tracce: nessuno sviluppo processuale, nessuna incriminazione per il generale Adinolfi, nessuna rilevanza penale delle parole riportate su tutti i quotidiani nazionali. Ma l’effetto mediatico c’è tutto. Non cade nessun governo, quella volta, ma ora vien fatto di pensare che ciò è dipeso solo dal fatto che il capo della Procura di Modena, Lucia Musti, a cui è trasmessa parte dell’indagine napoletana guidata da John Henry Woodcock, decide di non far esplodere «la bomba» che gli consegnano i carabinieri del Noe, il capitano Scafarto e il suo superiore, Sergio Di Caprio. Per loro, infatti, a Renzi si può arrivare. Loro sì che riescono a immaginarlo, e anzi quasi lo suggeriscono al magistrato. Che nel luglio scorso (due anni dopo), sentita dal Csm presso il quale è aperta un’istruttoria nei confronti di Woodcock, usa parole di fuoco: per gli spregiudicati ufficiali del Noe, e per il Pm chi ne coordina il lavoro: una «informativa terribile, dove si butta dentro qualunque cosa, che poi si manda in tutta Italia.  La colpa è anche di noi magistrati, perché siamo noi a dover dire che le informative non si fanno così». Non si dovrebbero fare, ma intanto si continuano a fare.

Altra inchiesta, e stessa disinvoltura. Spinta anzi fino a un’incredibile spudoratezza. Il caso Consip è un caso di corruzione, che parte da Napoli ma anche in questo caso arriva fino a Roma, fino a Renzi. Anche in questo caso ci sono di mezzo intercettazioni e fughe di notizie. Anche in questo caso a muoversi sono gli uomini del Noe. E in prima fila c’è, su incarico del pm Woodcock, il fidatissimo capitano Scafarto, lo stesso che ha confezionato l’informativa-«bomba» recapitata a Modena. Questa volta la confezione è ancora più esplosiva. Perché la trascrizione delle intercettazioni contiene manipolazioni, che consentono di mettere sotto tiro Tiziano Renzi, e sono arricchite di un capitolo, totalmente infondato, su presunte attività di pedinamento e controspionaggio dei servizi segreti a danno degli investigatori. Se si guarda più da vicino l’intrico imbastito in quelle carte, e il modo in cui han preso a circolare, si trovano elementi in tutto analoghi a quelli del caso Cpl-Concordia. Non solo i protagonisti – a cominciare dal duo Scafarto-Woodcock – ma pure il modus operandi. Al centro del quale ogni volta compaiono fughe di notizie che mettono in allarme le persone coinvolte, fughe che più che danneggiare il lavoro della Procura, sembrano alimentarlo. Sembrano, in poche parole, consentire di estenderne il raggio e di arrivare sempre più su: dal Cardarelli alla centrale di acquisti Consip; dalla centrale di acquisti Consip a Palazzo Chigi – dove investono il fedelissimo del premier Renzi, Luca Lotti, accusato di aver informato i vertici Consip delle intercettazioni ambientali in corso – e a Rignano sull’Arno, dove sulla graticola finisce il padre dell’ex premier. Tutto questo accade prima, ovviamente, che si sappia che la madre di tutte le frasi, quella che avrebbe dovuto inguaiare Tiziano Renzi, era in realtà stata pronunciata non dall’imprenditore napoletano arrestato, Romeo, ma dal suo consulente Italo Bocchino. La cosa prende tutt’altro senso.

Svista? Fretta? Negligenza? Leggerezza? Può darsi. Ma com’è possibile che si proceda con fretta, negligenza o leggerezza in un’indagine che lambisce i massimi vertici istituzionali, che rischia di portare sotto processo il padre del Presidente del Consiglio in carica, e che riguarda appalti di importi miliardari? Quante volte bisognerebbe ricontrollare una frase, prima di metterla a verbale rischiando di provocare un terremoto politico?

Il premier tiene duro, e il governo non cade per mano della Procura. Ma la botta è forte. Questa volta però non ci sono battimani in Parlamento a difesa del premier. La strategia scelta dal partito democratico è quella di abbassare la temperatura dello scontro fra politica e giustizia. Renzi rimane in sella, ma quale sarà il bilancio? La legge sulla responsabilità civile dei giudici? La riduzione dei giorni di ferie dei magistrati? Bilancio piuttosto magro, visto che né l’ordinamento giudiziario è stato in sostanza toccato, né si sono fatti passi avanti sui due punti di maggiore sofferenza: da un lato la disciplina delle intercettazioni, su cui il Ministro della Giustizia ha oggi in mano una delega che difficilmente riuscirà ad attuare; dall’altro la prescrizione, che anzi, per non vanificare il lavoro delle Procure, è stata allungata per i reati contro la pubblica amministrazione, pazienza se un imputato rischia di rimanere sotto processo per corruzione per vent’anni.

In compenso, sono state introdotte nuove figure di reato, come il traffico illecito di influenze, che aumentano l’area di indeterminatezza dell’azione penale, o introdotte modifiche al codice antimafia, sempre in materia di corruzione, che ampliano anziché ridurre l’area dell’intervento cautelare.

Ma forse una riflessione più generale andrebbe fatta sui vagiti di riforma della giustizia spesso soffocati in culla. Appena insediatosi, Renzi aveva annunciato di voler cambiare le regole del Csm. Di quella riforma non c’è traccia. L’impressione è che una politica debole, che si sente vulnerabile alle inchieste delle Procure – ai loro riflessi mediatici, e alla loro durata intollerabilmente lunga – preferisca abbozzare, non svegliare il can che dorme, non attaccare per non essere attaccata. Invece di una riforma, dunque, una tregua. Anche se poi c’è sempre qualche procura che non la rispetta e riapre le ostilità. Così succede che la politica rinunci a riformare la giustizia, mentre la giustizia non rinuncia affatto a riformare la politica. Con i mezzi penali che ha a disposizione, cioè per la via di una criminalizzazione che dovrebbe aprire la via alla grande bonifica morale, e, solo dopo, al lavacro purificatore delle elezioni. Già, perché fra poco si vota: chissà che clima ci sarà, allora.

(Il Mattino e Il Messaggero, 17 settembre 2017)

Le responsabilità e le ipocrisie della sinistra

Ebzo-Cucchi

E. Cucchi, Paesaggio Barbaro (1983)

Un fatto di una gravità istituzionale enorme, secondo il ministro Franceschini. Di una gravità inaudita, secondo il presidente dei senatori Zanda. Ed è difficile dar loro torto. A loro, come agli altri esponenti del partito democratico che hanno preso la parola in queste ore, per denunciare fatti e comportamenti ai limiti dell’eversione, dopo che sono stati diffusi i contenuti delle dichiarazioni rese al Csm dalla procuratrice di Modena Lucia Musti. La quale avrebbe avuto tra le mani, consegnatale dal capitano del Noe Scafarto e dal suo superiore, Sergio De Caprio (il comandante Ultimo), la bomba per far saltare in aria il premier Matteo Renzi, la bomba essendo l’inchiesta napoletana, trasferita per competenza nella città emiliana.
Spregiudicatezza e delirio di onnipotenza dimostravano secondo il magistrato i due ufficiali, nello spingere il capo della Procura modenese a proseguire le indagini sul caso Cpl-Concordia avviate a Napoli. Di quel caso, in realtà, nulla è arrivato a processo. E quanto alla vicenda Consip, che ha avuto gli stessi protagonisti, quel che sappiamo allo stato è che a Matteo Renzi si arrivava, attraverso il padre, manipolando le intercettazioni e inventandosi di sana pianta interventi dei servizi segreti.
Un verminaio, di cui non si vede la fine. Ma di cui si è visto l’inizio solo per l’iniziativa di un’altra Procura, quella di Roma, che ha tolto le indagini al Noe e che – notizia di queste ore – indaga per falso il pm napoletano che al Noe aveva affidato l’inchiesta, John Woodcock, già sotto esame disciplinare al Csm.
E la politica? La politica arriva tardi e con una enorme dose di ipocrisia. Perché le ombre che si allungano sulle istituzioni democratiche vengono da lontano, vengono da un uso distorto della giustizia che si trascina dai tempi di Mani Pulite – ora lo dice persino Di Pietro! –, vengono da una cultura emergenzialista che in nome della lotta alla corruzione consegna una libertà d’azione sempre più ampia e indeterminata ai pubblici ministeri, vengono da uno squilibrio sempre più accentuato fra accusa e difesa, vengono da un’opinione pubblica cresciuta a pane e avvisi di garanzia.
Al partito democratico andrebbe chiesto in queste ore: e l’altro giorno? L’assoluzione di Clemente Mastella, l’altro giorno, non dovrebbe far dire le stesse cose che si dicono oggi, con le rivelazioni del magistrato Musti? Non cadde un governo allora, con le dimissioni del Guardasigilli? Come si fa a non giudicare anche quel fatto di una gravità istituzionale enorme? Lì c’è ormai un’assoluzione, la quale dice chiaro e tondo che i magistrati, presi da furia moralizzatrice, avevano provato a criminalizzare una trattativa politica, a trasformare un fatto politico in un fatto penale. E dunque: come si fa a non vedere che uno schema si ripete, che più delle finalità perseguite allora, come di quelle perseguite ora, quel che deve preoccupare è l’incrinatura profondissima dei rapporti tra i poteri dello Stato, per cui la politica può essere tenuta sotto scacco, e un governo può cadere e un altro essere aggredito da un’inchiesta farcita di manipolazioni quasi senza colpo ferire, se è vero che quel che veniamo a sapere oggi è rimasto per mesi e mesi sottaciuto (anche da Modena, dove la presunta bomba è stata consegnata la bellezza di un anno fa), finché un’altra Procura non si è mossa. Un conflitto tra Procure, in cui la politica è vaso di coccio fra vasi di ferro.
L’ipocrisia sta però in ciò, che senza una riconsiderazione vera delle politiche della giustizia promosse in tutti questi anni, non serve a nulla mandare alti lai solo quando salta fuori quel che si cucina in certi uffici. La vera domanda non è chi c’è dietro, chi ordisce il complotto o chi tira le fila, ma chi ha messo a disposizione la cucina.
Gli storici faranno la storia, risalendo indietro fino a Tangentopoli; intanto, però, facciamo la cronaca. Non più tardi di due mesi fa, il Pd ha approvato modifiche al codice antimafia che estendono le misure cautelari anche ai corrotti. Più ampio, non più limitato, è ora l’intervento della giustizia prima di un qualunque giudicato. Una logica di carattere emergenziale, introdotta in via eccezionale per far fronte ai fenomeni di criminalità organizzata, diviene abituale, ordinaria, e viene estesa anche ad altre fattispecie. Il verso di questi provvedimenti rimane dunque lo stesso: non una cultura delle garanzie e dei diritti, ma il suo preciso opposto. Certo: in nome della lotta alla corruzione, in nome dell’efficacia nel contrasto al crimine, cioè per le migliori intenzioni e in vista dei più alti fini. Ma quelle intenzioni e quei fini sono gli stessi che avranno avuto il capitano Scafarto e il comandante Ultimo nel recarsi a Modena. La spregiudicatezza e il delirio di onnipotenza che la dottoressa Musti dice oggi di aver avvertito nei loro comportamenti è la spregiudicatezza di una consolidata maniera di fare le cose, di inquisire e di indagare, non solo la bizzarria di due individui isolati, schegge impazzite di un sistema che ha i suoi anticorpi.
E no, gli anticorpi non ci sono o non sono più sufficienti. Perché sventare un complotto – se di complotto si tratta –, beh: quello è compito di un’altra procura, ed è quello che sta facendo Roma. Ma riformare la giustizia, ricondurre nel suo letto l’azione inquirente che ormai tracima da tutte le parti: quello è compito della politica. Che non lo ha fatto e non lo sta facendo. E la sinistra, che ha grandi responsabilità nell’aver rotto gli argini al fiume sempre più limaccioso delle indagini, cavalcando per decenni l’ansia giustizialista dell’opinione pubblica, non ha che da battersi il petto e fare mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.

(Il Mattino, 16 settembre 2017)

 

Non è una storia del passato

guttuso

R. Guttuso, Spes contra spem (1982)

Non è in cerca di rivalse, Mastella, dopo l’assoluzione in primo grado nel processo che lo vedeva imputato insieme alla moglie e ad altri esponenti del suo partito. Qualche motivo ce l’avrebbe, a distanza di quasi dieci anni dall’avviso di garanzia che a lui costò il posto di ministro Guardasigilli, alla moglie gli arresti domiciliari e al suo partito l’accusa di essere un centro di affari illeciti. Ma più ancora vi sono motivi per riflettere sulla sua vicenda processuale. Anzitutto per la sua lunga durata: nove anni per arrivare a sentenza sono tanti, troppi. In secondo luogo, perché le contestazioni riguardavano comportamenti di natura politica, nei rapporti all’interno della maggioranza che sosteneva la giunta Bassolino. Mastella era finito sotto accusa, in particolare, per aver ingaggiato un braccio di ferro su una nomina nella sanità campana. Nomina che, per legge, spettava al Presidente della Regione. Nomina politica, dunque, su cui era naturale (come lo è adesso) che i partiti e i loro leader esercitassero la loro attenzione e i loro appetiti. Cosa che accadde ma che la procura, scoperchiando con abbondante uso di intercettazioni la trattativa tra le forze politiche, interpretò come un episodio di concussione, poi rubricato a induzione indebita. Certo, la sanità campana è messa male, ora come allora, e i cittadini hanno tutto il diritto di giudicare più o meno disdicevole il modo in cui viene amministrata. Ma la commissione di un reato è un’altra cosa, e il fatto che sia venuta a cadere la differenza tra le lotte di potere che attraversano il campo della politica e l’ambito di ciò che è penalmente rilevante è ben lungi dall’essere un progresso, un avanzamento della coscienza civile o non so cosa. Al contrario, rappresenta una dichiarazione di resa della democrazia, della sua capacità di vigilanza, di dare e rendere conto delle sue decisioni nei luoghi propri al confronto politico, che sono non le aule dei tribunali ma le elezioni e gli organismi di rappresentanza.

C’è poi un terzo aspetto, su cui vale la pena soffermarsi. Questo processo aveva una vittima, nella persona del presidente della Regione, Antonio Bassolino, fatto oggetto delle pressioni di Mastella e del suo partito. Sarebbe stato dunque doveroso che l’ufficio del pubblico ministero lo sentisse, anche perché la legge richiede al Pm, nella fase delle indagini, non di portare avanti con ogni mezzo la tesi dell’accusa, ma di capire se arrivare o no al processo, e dunque di ricercare anche gli elementi eventualmente a favore dell’indagato. Non pare proprio che sia andata così, e infatti Bassolino è stato chiamato in dibattimento per iniziativa della difesa. Le sue parole sarebbero bastate a far cadere tutto il castello delle accuse, se solo lo si fosse voluto. Ma l’intenzione era evidentemente un’altra, e travalicava il rispetto delle forme e delle garanzie previste.

Ecco perché conviene guardare a questo caso non come a una semplice disavventura giudiziaria, e a Mastella come a un cittadino sfortunato cui però la giustizia ha saputo restituire l’onore, sia pure dopo quasi un decennio. Non si è trattato di questo, ma di un episodio della guerra a bassa intensità condotta da una parte della magistratura contro la classe politica. Con nobili intenti moralizzatori, con l’ambizione di bonificare interi settori della vita pubblica afflitti da tassi endemici di illegalità e corruzione, ma con effetti devastanti sulla tenuta complessiva dell’ordinamento democratico e sulle garanzie di uno Stato di diritto. Un ministro si è dimesso, un governo è caduto: può bastare ricondurre l’esito di una simile vicenda a normale fisiologia processuale? Evidentemente no. Tanto più che non si tratta di una storia del passato, che non può ripetersi oggi, nelle mutate condizioni della giustizia italiana. Le condizioni, infatti, non sono mutate: i tempi della giustizia penale rimangono intollerabilmente lunghi, e peggiore è il clima che soffia nel paese, percorso da ventate populiste che gonfiano i vessilli di un pan-penalismo ormai infiltratosi dappertutto. Col risultato che spesso la giustificazione dell’attività inquirente è cercata non nella legge, ma direttamente nell’opinione pubblica. (Nella conferenza stampa di ieri, Mastella ha chiesto che le fake news circolate sul suo conto siano cancellate. Impresa impossibile, nell’epoca della rete, ma la preoccupazione dell’ex-ministro è comprensibile: la vera condanna è lì, non in tribunale).

Infine è sostanzialmente rimasto uguale l’ordinamento giuridico. Imperniato sull’obbligatorietà dell’azione penale, che si traduce logicamente nella sua irresponsabilità, e su un perdurante squilibrio fra accusa e difesa, sostenuto dall’interdetto verso ogni ipotesi di separazione delle carriere fra giudice e pm. E, in cima a tutto, un consiglio superiore della magistratura irriformabile dalla politica.

Non vi sarebbe materia per una grande battaglia di civiltà? Ma chi è disposto a affrontarla, esponendosi al rischio di vedersi additati come complici di quella politica che vuol mettere la mordacchia alla magistratura?

Ormai qualche secolo fa, l’illuminista napoletano Mario Pagano scriveva: «se per indagare e punire i delitti sciolgansi soverchiamente le mani al giudice, ond’ei molto ardisca e illimitatamente adoperi, la libertà e l’innocenza non saranno giammai sicure». Parlava, Pagano, all’opposto di quelli che dicono che se si è sicuri della propria innocenza non c’è da temere che si sciolgano troppo le mani al magistrato. Questo è il discrimine: o si sta di là, o si sta di qua.

(Il Mattino, 14 settembre 2017)

Primarie bloccate, M5S nel caos

Nostalgic

Komar & Malamid, Stalin and the Muses (1981)

Se davvero non c’è due senza tre, allora il candidato in pectore Luigi Di Maio, che ha sciolto le riserve e attende a giorni la consacrazione, dovrebbe cominciare a tremare. L’anno scorso c’è stato il caso delle comunarie di Genova, annullate d’imperio da Grillo dopo essere state vinte da un nome a lui sgradito, Marika Cassimatis, a cui però il Tribunale ha poi dato ragione, con il caos che ne è conseguito (e la sconfitta alle elezioni). Stavolta è il turno delle regionarie siciliane, sospese dal giudice dopo il ricorso di un candidato escluso, mentre il prescelto, Giancarlo Cancelleri, è già in piena campagna elettorale. Tirerà dritto, ma il danno d’immagine c’è tutto. Le prossime consultazioni convocate dal Movimento per il prossimo 24 settembre riguarderanno invece il futuro candidato premier e, com’è ormai ufficiale, sarà la volta di Di Maio: e se a qualcuno saltasse in testa di appellarsi alla giustizia civile?

Mancano meno di due settimane, ma sulle modalità del voto non c’è ancora chiarezza: non è compromessa in questo modo la possibilità di fare campagna elettorale? Più che una votazione, al momento somiglia a una proclamazione, con cui si ratifica un nome già scrutinato dai capi del movimento, cioè Grillo e Casaleggio. Poco male: sono faccende interne a una formazione politica. Ma se qualche magistrato volesse metterci il becco, cosa succederebbe? E se davvero non c’è due senza tre?

Vi sono, in realtà, due questioni in ballo. Una riguarda i Cinquestelle, l’altra riguarda la legge sui partiti politici, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, di cui si parla di tanto in tanto, ma che al dunque non si fa mai. Su quest’ultima faccenda, non c’è molto da dire. La legge è sempre stata rimandata, per timore di ingerenze nella conduzione dei partiti, a cui, dopo gli anni del fascismo, si voleva lasciare la più ampia autonomia organizzativa. La Costituzione ne fa infatti un perno della vita democratica della nazione, ma non gli riconosce personalità giuridica. Col tempo, però, è emerso con sempre maggiore chiarezza l’interesse pubblico alla natura democratica della vita interna di un soggetto politico, così come la necessità di legare l’accesso a contributi pubblici ad una maggiore trasparenza gestionale, e dunque a una più intensa forma di regolazione giuridica. Quel che accade adesso è però paradossale. Perché da un lato la norma costituzionale rimane molto blanda, né gli statuti dei partiti sono mai stati sentiti come un vincolo giuridico in senso forte, all’interno di associazioni che rimangono di carattere privato; dall’altro però aumentano gli interventi della magistratura, che sembrano fare come se una legge ci fosse già. Non discuto le sentenze e il dato strettamente tecnico-giuridico, ma l’impressione è che i giudici facciano anche in questo caso un’attività di supplenza, aiutati dalla perdurante crisi della rappresentanza che rende facile mettere ogni volta la politica e le sue decisioni sul banco degli imputati. Meglio, allora, fare la legge e mettere ordine, invece di aprire la mattina i giornali per sapere se la campagna elettorale prosegue liscia, senza improvvisi intoppi giudiziari.

L’altra questione riguarda da vicino i grillini, che per principio fondamentale affidano ai cittadini la selezione online delle candidature. Ottimo principio. Ma vuoi per la labilità del tessuto di regole, vuoi per una pulsione assembleare che non si lascia facilmente assorbire, vuoi per la debolezza di una classe dirigente estemporanea (soprattutto in ambito locale), vuoi in ultimo per una certa approssimazione, sta di fatto che il principio a volte viene clamorosamente disatteso dall’alto, per decisione del supremo garante (Grillo), a volte viene invece azionato bruscamente dagli iscritti, per mandare all’aria accordi politici già benedetti a Roma (o a Genova).

Per una formazione che aspira ad essere il primo partito e che si appresta a scegliere il suo candidato a Palazzo Chigi con gli stessi metodi di Genova e Palermo non è un bel vedere. È pur vero che la bandiera della democrazia diretta è l’ultima che venga oggi agitata dai cosiddetti «megafoni» del movimento. Parlano di onestà, corruzione, ambiente, piccola impresa, immigrazione, ma non promettono più la palingenesi democratica: si sono accorti che l’«uno vale uno», lo streaming e la consultazione permanente non stanno in piedi senza una forte direzione politica che faccia da contrappeso. Anzi: ormai c’è solo quella. Basta vedere come si va alla incoronazione di Di Maio: con una ratifica, mica con una competizione vera e aperta.

Solo che qualcuno degli antemarcia, venuto su nei meetup della prima ora, al mito iperdemocraticista fa ancora mostra di crederci. Perciò presenta ricorso, trova un giudice che gli dà retta e cerca di riportare tutti alla casella di partenza. Non può riuscirci, perché i candidati rimangono quelli già decisi. Però: che malinconia.

(Il Mattino, 13 settembre 2017)

Pd, i giochi di potere di un partito smarrito

Donald Judd Untitled 1980

D. Judd, Untitled (1980)

Cosa conviene fare ai democratici, di qui al congresso provinciale: consumare le prossime settimane in un gioco di posizionamenti fra i vari maggiorenti, in cerca di accordi sui diversi livelli di governo del partito – la segreteria provinciale a me, la segreteria regionale a te, i capolista in città a me, i capolista in provincia a te, e così via – oppure spenderle nella ricerca di una linea politica e di un profilo definito? Provate a chiedere in giro che cos’è il partito democratico a Napoli. Gli elementi di riconoscibilità in città sono pochi o nulli: le posizioni all’interno delle istituzioni rappresentano l’unico prova dell’esistenza in vita del partito democratico.

Eppure la materia per fare politica c’è, in abbondanza. Nei suoi anni a Palazzo San Giacomo, il sindaco De Magistris ha cucinato una pietanza nuova, un cibo che ai napoletani è piaciuto per ben due volte, e ora il Pd deve decidere se era davvero una roba commestibile, o se invece conteneva ingredienti adulterati. In quel piatto c’è abbondanza di retorica di una sinistra antagonista e altermondialista, appelli ad un’interpretazione radicale della tradizione democratico-costituzionale, forti iniezioni di una certa napoletanità (quella che culmina nel gigantesco corno scaramantico sul Lungomare «liberato»), esaltazione dello spontaneismo delle culture giovanili, lotta tonitruante alla corruzione come bandiera ideologica, mista però a insofferenza per la fredda razionalità legal-burocratica. Poi c’è la più prosaica attività della giunta arancione, le serissime difficoltà finanziarie in cui versa il Comune, le opere pubbliche al ralenti, la situazione drammatica dei trasporti pubblici, e insomma un’attività amministrativa su cui pure il Pd deve esprimere un giudizio privo di ambiguità. E quale migliore occasione di un congresso del partito?

Ma questa occasione, l’ennesima, il Pd rischia di gettarla al vento. Un po’ perché incombono le elezioni politiche, e il controllo del partito è un pezzo essenziale nella partita per le prossime candidature, un po’ perché non sa nemmeno da dove cominciare. E quando non si sa da dove cominciare, si comincia (e spesso si finisce) col “fare le tessere”. Tutto il resto viene messo tra parentesi.

Intendiamoci: la politica ha le sue necessità, ed è ingenuo pensare che si possa contare solo sui buoni argomenti, sulla forza della persuasione e sullo slancio ideale. Ma è proprio uno sguardo realista e disincantato sulla condizione del partito democratico a Napoli che suggerirebbe di riprendere daccapo il filo della politica. Un partito che conta solo sulle risorse clientelari e le pratiche di sotto governo è destinato a perdere. Non ha capacità di mobilitazione, non ha credibilità, non è in grado di sviluppare un’autonoma progettualità. Non serve a nulla: soltanto a se stesso, alla propria sopravvivenza sempre più residuale.

Non è dunque un atto di generosità che ci si aspetta dai vari De Luca, Casillo, Topo, Cozzolino, ma una presa di coscienza e, di conseguenza, una parola di chiarezza: dove si colloca il Pd? È un partito della sinistra riformista, sì o no? Se lo è, come può confondersi con il populismo cheguevarista di Luigi De Magistris? È il partito democratico il partito che governa a Roma con Gentiloni e a Palazzo Santa Lucia con De Luca? Se sì, come può mettere la sordina all’opposizione a Napoli e nell’area metropolitana? C’è forse una prospettiva politico-amministrativa per l’area metropolitana, che il Pd condivide con Dema e la sinistra radicale? A distanza di sei anni dal primo sventolìo della bandana sul palazzo comunale, la risposta a queste domande non può essere data distrattamente, quasi per sbaglio: deve diventare invece il cuore di una proposta alternativa di governo della città. Solo così il Pd può trovare un’eco nell’opinione pubblica, avvicinare una nuova generazione alla politica, raccogliere energie e intelligenze, recuperare un rapporto con la società, e forse persino fare qualche tessera in più.

Ma forse l’ostacolo principale, per un congresso fatto su grandi opzioni di linea politica e visioni dello sviluppo urbano, piuttosto che sugli organigrammi e gli inciuci, sta nella convinzione che, nell’età della politica personale, un partito vero non serve. Costituisce anzi un freno, un impaccio, una mediazione inutile che può ormai essere saltata. Il fatto è che però non viene affatto saltata; viene anzi mantenuta, sia pure solo fittiziamente, per risultare così il luogo della rappresentazione più deteriore e usurato della politica, fatto di accordi sottobanco, melina sui giornali e una babele di voci che si sovrappongono senza un disegno unitario. L’esito ultimo sappiamo però qual è: il populismo. Grillino a Roma, arancione a Napoli. Sta allora al Pd decidere se intende davvero sfidarlo, o accontentarsi di vivacchiare in cucina, mentre il capopopolo di turno continua a fare il suo show come se fosse a Masterchef.

(Il Mattino, 12 settembre 2017)

Intercettazioni, la finta delle virgolette

Touché

G. Sachs, Touché (1979)

Niente più virgolette, ma solo parafrasi del contenuto delle intercettazioni. È una rivoluzione? Dipende. Se il ministro dello sviluppo economico si lamenta di essere trattata dal compagno come una lavandaia del Guatemala, non si potrà più leggere, tra virgolette: “Mi tratti come una lavandaia del Guatemala!”. Per evitare le virgolette e fare la differenza tra il discorso diretto e il discorso indiretto può, però, bastare una semplice congiunzione. Come il bacio è un apostrofo tra le parole “T’amo”, così la riforma delle intercettazioni rischia di essere solo una congiunzione – “che” – posta, invece dei due punti, tra il verbo “dice” e la frase intercettata: tanto occorre, difatti, per togliere le virgolette alla frase.
Non è questo lo spirito del provvedimento, ovviamente, e anzi il Ministro Orlando si trova ad essere attaccato dalla stampa giustizialista, che lo accusa di voler limitare l’informazione con la scusa della tutela della privacy. Ma questi esercizi di interpretazione, o di stile, cui sarà chiamato il magistrato per inserire nei suoi provvedimenti, rigirandoci attorno, il materiale raccolto tramite le intercettazioni rischiano di accendere una discussione fuorviante. Per i paladini della stampa libera, qualunque filtro o limitazione alla diffusione è da ritenersi, in realtà, un divieto ingiustificabile. E, in effetti, qualche misura in tal senso c’è. La bozza predisposta negli uffici di via Arenula prevede che non possa essere trascritta la telefonata tra l’avvocato e il difensore che fosse stata eventualmente intercettata. Stessa sorte toccherà alle conversazioni che non siano giudicate rilevanti ai fini delle indagini. L’una e l’altra misura vengono ritenute in qualche modo lesive del diritto della pubblica opinione a conoscere vita morte e miracoli dei personaggi pubblici, ai quali non dovrebbe essere riconosciuto un diritto assoluto alla privacy, ma solo un diritto limitato, attenuato, come numerose sentenze delle più alte corti di giustizia italiane ed europee hanno in più circostanze ribadito.
Discussione fuorviante, però: lo ripeto. Per una ragione essenziale: perché non affronta il tema più spinoso, cioè qual genere di strumento siano le intercettazioni, a cosa debbano servire, e dunque entro quali limiti sia bene consentirne l’utilizzo. Anche nell’intervento che il Ministero ha elaborato, a quel che si capisce, pare che l’unico nodo che il legislatore deve affrontare riguardi la diffusione del loro contenuto. È sorprendente allora apprendere che, in base alla bozza, il magistrato potrà  disporre la trascrizione delle intercettazioni in un solo caso, quando “il pm ne valuti la rilevanza per i fatti oggetto di prova”. È sorprendente non perché sarebbe una misura troppo restrittiva, come ritiene il partito giustizialista che vorrebbe poter leggere di tutto e di più, ma perché non è chiaro per quale motivo si dovrebbe fornire la parafrasi di tutte le altre intercettazioni, di quelle cioè che non abbiano rilevanza per i fatti oggetto di prova. Di queste intercettazioni si fornirà, avvolto in circonlocuzioni e parafrasi, il contenuto. Ma la domanda inevasa è: se non sono rilevanti per i fatti da provare, per cosa sono rilevanti? E più in generale, cosa bisognerebbe augurarsi che abbia rilievo per il diritto penale, ai fini dello svolgimento del processo, oltre a quel che riguarda i fatti costituenti reato? In verità, la sfera di questa rilevanza si è di molto ampliata, e da tempo, finendo col riguardare cose come le condotte, l’ambiente, il contesto, la personalità di quanti sono fatti oggetto di indagine. Sempre al fine di restituire meglio la materia su cui un giudice dovrà infine giudicare, ma col risultato che nei faldoni delle inchieste ci può ormai finire la qualunque. Ora c’è (o ci sarebbe) uno stop alle parole espresse, direttamente pronunciate dalle persone intercettate. Ma la qualunque, sia pure parafrasata, rimane la qualunque.
Certo, non è facile tirare una linea. E lo è sempre meno, quanto più ci si è allontanati da una concezione liberale del diritto, in cui si cerca per principio di restringere il più possibile i margini di interpretazione nella  qualificazione giuridica dei fatti, si tende a preferire la certezza all’efficacia, e non si sacrifica il rispetto di tutele e garanzie al perseguimento dei reati.
Ma la cosa riesce ancora più difficile quando le più pensose considerazioni su quale diritto, per quali procedure e quali processi, vengono sostituite dalla brama di fare nero il malcapitato di turno, si arrivi o no a sentenza. Perché questo è troppe volte diventato il vero movente della diffusione del contenuto delle intercettazioni: qualche volta per merito della stampa (il che ci può stare, se e nella misura in cui la stampa mantiene, in democrazia, una funzione di contro-potere), qualche altra volta invece per colpa di certi pm, che, forse per tema di non farcela in tribunale, si prendono intanto la briga di dare avvio al processo sui giornali.
 Il tempo di dare attuazione alla delega non è molto, questo è vero. Ma è auspicabile che, nella fase avviata con questa prima relazione illustrativa fatta circolare negli uffici giudiziari, venga usato nel migliore dei modi. Non per portare a casa un risultato pur che sia, ma per correggere convinzioni e prassi fin qui assai dubbie.
(Il Mattino e Il Messaggero, 9 settembre 2017)

In Rete troppa libertà senza responsabilità

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(E. Baj, Apocalisse, 1978)

La rete metafora della conoscenza, la rete metafora dell’appartenenza, la rete metafora dell’organizzazione: è curioso che non venga mai in mente la rete come metafora della trappola. Eppure nelle reti, da sempre, si rimane anche intrappolati.  I giovani che condividono storie su Instagram – il social più in voga fra i “millennials” – non se ne avvedono, ma la trappola scatta comunque: tu racconti una storia, pubblichi una fotografia, condividi un pettegolezzo, e da quel momento quel brano di vita non ti appartiene più. Hai voglia a cancellarlo, da qualche parte rimane. Qualcuno l’ha salvato, qualcun altro ha fatto lo screenshot, qualcun altro ancora l’ha inoltrato: nulla di ciò che è stato pubblicato scomparirà. Nel Vangelo di Luca, quando Gesù parla della fine dei tempi, e dei segni grandiosi del cielo che la precederanno, per rassicurare i discepoli dice proprio così: se saprete perseverare nella fede, nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. L’apocalisse è dunque quel tempo in cui tutto sarà restituito così com’è stato. L’“una volta” che diviene “per sempre”. Ora quel tempo è venuto, e l’apocalisse si compie sul web: nulla di ciò che viene caricato in rete, infatti, sarà più perduto.

Solo che non è la saggezza e la bontà di un dio a gestire questa enorme massa di dati personali: è, più spesso, la cattiveria o semplicemente l’incoscienza degli utenti, che non si fa più alcuno scrupolo di usarli per divertirsi o per denigrare, per spettegolare o per deridere. Né c’è più alcuna vera privacy. I giovanissimi abituati alle pratiche del social networking trovano del tutto naturale confessare segreti (veri o falsi, non importa) in rete. Ma un conto è affidarli a una parola confidenziale, un altro è mettere quella stessa parola in una chat. La prima vola via, la seconda resta. Resta, e rimbalza e scappa. Resta, e si moltiplica: altro miracolo della rete. E, badate, non resta una sciocchezza qualunque; resta invece lo scatto più pruriginoso, la maldicenza più insinuante, l’insulto più offensivo. E soprattutto rimane affidato alla rete un ruolo da sempre cruciale in ogni modello di socievolezza, che è quello della costituzione dei gruppi primari e delle relazioni informali in cui si formano innanzitutto le nostre identità. Si formano, o si distruggono. Senza che “quelli che c’erano prima” – genitori, educatori, insegnanti, insomma: adulti – ne sappiano più nulla, o quasi.

C’è tuttavia un’aria di ineluttabilità intorno al mondo della comunicazione online. Come se qualunque accorgimento tecnologico fosse vano, e qualunque intervento normativo fosse sbagliato. Ma è falsa sia la l’una cosa che l’altra. E si tratta di falsità interessate, perché i gestori degli spazi online sui quali ciascuno di noi pubblica di tutto e di più traggono profitto dai grandi numeri della rete: da ogni clic, da ogni like, da ogni informazione personale che riversiamo sui social. Traggono profitto: profilano potenziali clienti e vendono spazi pubblicitari. Più sanno di noi, meglio ci bersagliano con le loro proposte commerciali. Più tempo trascorriamo con loro, più sono loro a gestire il nostro tempo.

Ora, nonostante il riferimento all’apocalisse, non è un tono apocalittico quello che vorrei assumere. Vorrei solo che si mettesse da parte un po’ di retorica sulle straordinarie opportunità della rete (ci sono tutte) o sugli spazi di libertà che la rete assicura (pure quelli ci sono, e sono importanti, anzi ormai irrinunciabili). Ma opportunità e libertà devono fare il paio con responsabilità. Non è possibile che un quotidiano abbia mille motivi di rispondere del proprio operato dinanzi alla legge e le piattaforme pochi, o nessuno. Né può essere – per rimanere al caso delle storie di Instagram, o di Snapchat – che basti il loro automatico cancellarsi nel giro di 24 ore a regalare una sorta di extraterritorialità morale e giuridica. Quella roba rimane, altro che se rimane. E prima o poi qualcuno la mette nuovamente in giro. Ma ritenere che l’unico responsabile di una diceria sia il ragazzino che sparla con l’amico è fare dell’ipocrisia. Significa non interrogarsi sul modo in cui quella diceria diviene, a volte, una valanga, in grado di schiacciare e far morire di vergogna qualcun altro, come purtroppo è già accaduto.

Se i social sono oggi (come effettivamente sono, ancor più dei quotidiani) parte importante dello spazio pubblico, della formazione di opinione e dunque anche della salute complessiva di una società, non può esservi a disciplinarli un’unica regola, che ciascuno risponde per sé. Perché in tutti gli altri luoghi pubblici, aperti al pubblico o destinati al pubblico, vigono delle regole che impongono una certa manutenzione di quegli spazi, e qualche controllo sul loro corretto utilizzo. Finché le cose vanno più o meno lisce, funestate solo ogni tanto da qualche triste caso di cronaca, quasi non si avverte, peraltro, il paradosso di un luogo pubblico, ormai indispensabile allo stesso funzionamento della democrazia, tenuto in mani tutte private. Ma quando qualcosa non dovesse più andare per il verso giusto, che si fa? Di nuovo, non è una domanda apocalittica, se non altro perché c’è già adesso un pezzo che sta andando storto: a compromettere – come sta accadendo – la distinzione fra pubblico e privato si compromette, infatti, la democrazia. E allora domando di nuovo: che si fa?

(Il Mattino, 5 settembre 2017)

La violenza e le bugie pietose

GHIRRI

L. Ghirri, Rimini (1977)

Due cose stanno sulle pagine di cronaca dei quotidiani: lo stupro di Rimini, commesso da giovani marocchini, e la campagna di Forza Nuova, la formazione neofascista di Roberto Fiore che va a ripescare un vecchio manifesto della Repubblica di Salò per aizzare l’opinione pubblica contro l’uomo nero che violenta la donna bianca: potrebbe essere tua madre, oppure tua moglie, tua sorella, tua figlia, recita la didascalia, che gioca sulla paura per lo straniero, per l’immigrato, per il selvaggio di colore.

Non v’è chi non veda i tratti xenofobi di questa campagna, che istiga pesantemente all’odio razziale. Ma, per vederli, c’è davvero bisogno di non vedere la realtà, o di camuffarla? La realtà è la seguente: in Italia, sono stati commessi, nei primi sette mesi del 2017, 2333 stupri. Gli italiani accusati del crimine sono 1534, in lieve aumento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (quando furono 1474). Gli stranieri sono invece in leggerissimo calo: 904 nel 2017 contro i 909 del 2016. Questo leggerissimo calo e quel lieve aumento tutto sono meno che significativi. Piccoli scostamenti che non fanno tendenza, che non v’è ragione di ritenere che si confermeranno nei prossimi mesi, che dunque non costituiscono certo il dato statistico più rilevante. Eppure, ci sono agenzie di stampa e giornali che titolano con enfasi: sempre meno stupri sono commessi da stranieri e sempre di più da italiani. Perché lo fanno? Probabilmente per timore di alimentare i pregiudizi verso gli immigrati – specie quelli di colore, specie quelli musulmani – che serpeggiano in settori sempre più ampi dell’opinione pubblica.

Così facendo però, proibiscono di pensare che vi possa essere qualche nesso fra la commissione dello stupro e la condizione in cui vengono a trovarsi gli stranieri in Italia. Attenzione: non ho detto affatto che vi può essere un nesso fra l’essere stranieri e il commettere violenze sessuali. Non voglio essere frainteso, ma nemmeno voglio coprire di facile indignazione retorica un problema drammatico. Ho parlato dunque della “condizione” in cui vengono a trovarsi gli stranieri, soprattutto se irregolari e costretti alla clandestinità. I numeri, nonostante la rassicurante versione ufficiale (quella del calo delle violenze commesse da stranieri e dell’aumento delle violenze commesse da italiani) raccontano un’altra cosa. Perché gli italiani sono più di cinquanta milioni, mentre gli stranieri sono all’incirca cinque milioni: cioè dieci volte di meno. A fronte dei 1574 stupri compiuti da italiani vi dovrebbe stare dunque un numero dieci volte più piccolo di stupri perpetrati da stranieri, e cioè 157. E invece sono 904, quasi sei volte di più. Questo è allora il numero che si tratta di spiegare, questa è la realtà con la quale bisogna fare i conti. Non si fa un buon servizio alla verità – e, io credo, nemmeno alle comunità di immigrati che vivono in Italia – se si omette questa semplice proporzione, e si commenta la notizia dello stupro di Rimini ricordando che, dopo tutto, gli stupri commessi da stranieri sono in calo, mentre aumentato quelli dei nostri connazionali. (Tra parentesi: tutti questi stupri, questa catena orrenda di violenze e abusi che si continua ancora oggi non è tollerabile, e richiede che si faccia di più, molto di più in termini di prevenzione, di educazione, di formazione, di campagne di informazione, di tutela e assistenza alle donne).

Ma se siamo arrivati fin qui, se siamo giunti sino a riconoscere la realtà del problema senza alcun infingimento, non c’è affatto bisogno di gridare all’invasione, come fanno i neofascisti di Forza Nuova, o come, con posizioni appena più sfumate, ripetono Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Se gli stupri sono, in percentuale, più alti fra gli stranieri, non è perché gli stranieri sono più cattivi, o più violenti, ma perché è fallito un progetto di integrazione. Uno stupro è una violenza individuale o di gruppo, ma chiama in causa l’ordine sociale complessivo, i suoi codici culturali, i suoi orizzonti simbolici. Farvi parte, starci dentro – stare dentro una società, comprenderne la cultura, decifrarne i simboli e farne propri i significati – non lo si fa semplicemente mettendovi piede. L’uomo non sta al mondo come la chiave sta nella toppa. E anche il modo di vivere l’essere maschi o femmine dipende da una gran quantità di cose, su cui la società, la cultura, la politica, la religione non smettono di tornare, lasciando sopra i corpi degli uomini e delle donne i segni del loro passaggio. Segni non pacifici e non pacificati, che in condizioni di estraneità, oppure di emarginazione, di distanza culturale o di vera e propria ostilità possono farsi illeggibili, e possono, in certe condizioni, scatenare la violenza. Per rabbia, per risentimento, per frustrazione, per mera rappresaglia. Perché si rimane in guerra col mondo, e la prima e mai cessata guerra che gli uomini combattono, purtroppo, è ancora quella per il dominio del corpo femminile.

Ma, se è così, il primo dovere non è coprire la realtà con pietose bugie, per tema di alimentare le campagne xenofobe e razzistiche, bensì quello di fare ogni sforzo per cambiarla, seguendo modelli effettivi di integrazione. L’immigrazione è una realtà del nostro tempo, ma la nostra responsabilità è molto più grande di quella che pensiamo di avere, riconoscendone il diritto. Il diritto non è mai, da solo e per intero, la vita buona. E nessun uomo e nessuna donna si incontreranno mai per davvero sotto i soli auspici di una norma di legge. Se non si aprono percorsi concreti e tangibili di inclusione degli stranieri, a partire da condizioni di vita accettabili, quella norma, qualunque norma, sarà violata.

(Il Mattino Il Messaggero, 3 settembre 2017)

La storia fatta a pezzi dagli occhi del presente

Warhol

A. Warhol, Cow (1976)

Ora anche il monumento a Cristoforo Colombo che si trova nel cuore di Manhattan, all’angolo sud-occidentale di Central Park, rischia di essere abbattuto. Ieri è stata la volta della decapitazione del busto in gesso del navigatore genovese, a Yonkers, al confine col Bronx; domani potrebbe toccare alla statua di Columbus Circle, fra Broadway e l’Ottava Strada, per volontà dello stesso sindaco della città, l’italo-americano Bill De Blasio, che ha istituito (quale ridicolaggine!) apposita commissione. Tempo novanta giorni, poco meno, e sapremo se la statua potrà rimanere o sarà rimossa. Intanto, sull’altra costa, quella occidentale, a Los Angeles, il Columbus Day è già stato cancellato. Il motivo è uno solo: per rispetto alle vittime di un passato di violenza e sopraffazione, i simboli dell’odio e della violenza razziale devono essere eliminati.

Ma per essere giusti fino in fondo, bisognerebbe cambiare pure i nomi alle cose: perché non sono stati i nativi americani a scegliere il nome del continente in cui essi vivevano prima che arrivassero gli esploratori europei. Se dire ogni volta “America” per noi europei vuol dire celebrare la scoperta, per loro significa invece il ricordo della conquista, e l’inizio del genocidio: è giusto? No, non lo è.

La verità è che la storia è una grande macelleria (anche se non è solo questo), e però non c’è modo di abolirla o di fare come se non fosse stata. Perciò leggere il passato senza alcuna sensibilità per la distanza storica che ci separa da esso è un errore madornale. Il suffragio universale e i diritti umani fondamentali sono conquiste del XX secolo: hanno meno di cento anni. Se noi oggi possiamo considerare ingiusto qualunque regime calpesti quei diritti, o impedisca l’esercizio del voto (alle donne, ai nullatenenti, ai neri, agli ebrei, alle più diverse minoranze etniche o religiose) non possiamo però pretendere di cancellare dalla faccia della terra i segni di una storia che non ha osservato i nostri attuali standard di giustizia. Nulla resterebbe in piedi. Cancelleremmo la storia intera, che è tutta impastata di ingiustizie e violenze, e dove il bene del progresso (se qualcuno è ancora disposto a riconoscerlo) non è separabile da soprusi di ogni genere. Di cosa è memoria il Colosseo? Per rispetto alle vittime degli spettacoli che si tenevano nell’anfiteatro, non dovremmo demolirlo? Com’è possibile, allora, che sia patrimonio dell’umanità, secondo l’Unesco? Ma più in generale: come Roma ha conquistato il mondo, con i fiori o con le armi? E quel che vale per Roma, non vale per tutti gli imperi che si sono succeduti nella storia?

Ma la storia sembra sempre di più solo una voce di Wikipedia: ciascun utente può correggerla, giudicando il passato dall’alto del presente, da cui crede di non dover mai scivolare via. Questo presentismo è veramente una malattia del presente, un regime del tempo da cui il problema della storicità si fa completamente assente. Col risultato che la più avanzata e tecnologica delle società, quella americana, finisce col guardare ai monumenti con gli occhi arcaici dei talebani.

La figura di Cristoforo Colombo è controversa? Certamente. Ma lo è tutta o quasi la storia monumentale:, scritta dai vincitori, eretta dai vincitori. Risarcire i vinti, rendere giustizia ai deboli, agli ultimi, agli offesi, non è possibile senza farla finita con le piramidi, con le cattedrali, con gli archi di trionfo e con le statue equestri. È questo che vogliamo? È questo che renderebbe il mondo più bello o più giusto, o non accadrebbe il contrario, che cioè non vi sarebbe più mondo, una cultura e una storia comune?

(Il Mattino, 2 settembre 2017)

Pd nel guado. Molti accordi, poca credibilità

 

Oldemburg Smoke

C. Oldenburg, Smoke and Reflections (1975)

Nel Pd napoletano si sono prodotti due fatti nuovi nelle ultime settimane. Non si tratta di novità sconvolgenti, in grado di cambiare il volto a un partito che di cambiare volti qualche necessità ce l’avrebbe, però sono fatti nuovi, di cui occorre avere contezza se si vuol capire come il partito democratico si appresti a celebrare il congresso provinciale nella più importante città del Mezzogiorno.

Il primo fatto è il dialogo neanche troppo sotterraneo che un pezzo del Pd ha avviato con il Sindaco De Magistris, mentre un altro pezzo continua imperterrito a fare opposizione in consiglio comunale. Due partiti in uno. All’inizio, questa specie di “entente cordiale” è stata presentata come una nobile forma di sensibilità istituzionale, la quale avrebbe richiesto una qualche assunzione di responsabilità per consentire agli organismi della città metropolitana di funzionare. Che abbiano preso a funzionare rimane molto, molto opinabile. Ma, intanto, quella sensibilità si è tradotta in ben altra cosa, cioè in un accordo sugli staffisti da chiamare in servizio, il che ha francamente il sapore di una lottizzazione vecchia maniera. E il fatto nuovo finisce allora con l’essere per l’appunto il ritorno delle vecchie maniere, quelle degli accordi sotto banco e delle pratiche di sottogoverno. Ora, può darsi che il partito democratico non possa fare tabula rasa di un rapporto con la società napoletana fondato essenzialmente sulla gestione clientelare del potere. Può darsi che questa difficoltà non sia solo del Pd ma più in generale di tutta la politica nel Mezzogiorno, condannata a ripercorrere vecchie strade per non riuscire velleitaria e inconsistente. Così, quelli che vorrebbero mettere fuori gioco i signori delle tessere, i ras delle truppe cammellate, i mister centomila preferenze (come si diceva una volta, ed è vero che le preferenze diminuiscono, ma i mister: quelli rimangono) devono scontrarsi ogni volta con la realtà di un’organizzazione sempre meno comunità politica e sempre più somma di potentati, e rimandare quindi a data da destinarsi i buoni propositi (se li hanno). Certo è che, pure a voler essere realisti fino al cinismo e accettare la spregiudicatezza del gioco politico, non si può non constatare che questa coazione a ripetere rende del tutto incomprensibile il progetto del Pd: chi sono i democratici, a Napoli? Quale idea di città hanno? A quali parti della società si rivolgono? Come pensano di recuperare fiducia, autorevolezza, affidabilità, di reclutare e promuovere nuove energie, nuove intelligenze, formare una nuova classe dirigente? Domande inevase, al momento, che purtroppo non sono nemmeno in molti a porsi, da quelle parti.

L’altro fatto nuovo ha un nome: Vincenzo De Luca. Non è, anche questo, un nome nuovo, ma è nuovo il modo in cui il governatore sta seguendo la fase precongressuale. Non si espone in prima fila, fa muovere i suoi proconsoli, Fulvio Bonavitacola e Nicola Oddati, ma sembra interessato a giocare fino in fondo la partita, mentre in passato si limitava a guardarla quasi da spettatore, e comunque a non legare troppo le sue sorti a quelle del suo partito. Stavolta è diverso. Ci sarà un candidato deluchiano alla segreteria provinciale del Pd napoletano? È presto per dirlo. Di sicuro è cominciato un lavoro di ricucitura a sinistra, fra i rotti frantumi di quello che resta dell’area ex DS, che potrebbe avere un punto di approdo comune. Quale però sarà questo punto di approdo? Un nome che tiene in equilibrio le varie anime del partito (a volte vive, ma più spesso morte), oppure un nome che riesce a rivolgersi anche al resto della città? Un nome autorevole, forte, capace di decidere e di incidere, oppure un esecutore di decisioni prese altrove? Valgono insomma le domande di prima: un congresso che si divide secondo vecchie linee di appartenenza, e che non offre nient’altro che l’ennesima geometria di alleanze, parlerebbe infatti pochissimo alla città, che dai democrats non vuole sapere se sarà rottura o intesa fra gli ex DC di Casillo e Topo e gli ex DS più o meno federati da De Luca, ma che tipo di opposizione si vuol fare a De Magistris, quali sono gli assets sui quali puntare, come si difendono gli interessi di Napoli e del Mezzogiorno nella programmazione nazionale ed europea. Di più: prima ancora di sapere il ‘cosa’, si vuol sapere il ‘come’, perché il Pd a Napoli continua ad avere un enorme problema di credibilità, con l’aggravante che da anni ormai va riducendosi inesorabilmente il bacino elettorale del partito.

De Luca si è infilato nelle schermaglie congressuali napoletane perché teme che un partito in mano a Casillo e Topo condizionerebbe pesantemente il suo lavoro alla Regione. Se strada facendo trovasse qualche ragione in più per fare questa battaglia, allora, forse, si potrebbe produrre finalmente un terzo fatto nuovo, il più importante di tutti: che ad avere contezza dei fatti di queste ultime settimane vi sarebbe motivo per interessare una parte più ampia dell’opinione pubblica. Diversamente, il congresso provinciale del Pd scivolerebbe subito via dalla cronaca, e dalla storia di questa città.

(Il Mattino, 1° settembre 2017)