
D. Judd, Untitled (1980)
Cosa conviene fare ai democratici, di qui al congresso provinciale: consumare le prossime settimane in un gioco di posizionamenti fra i vari maggiorenti, in cerca di accordi sui diversi livelli di governo del partito – la segreteria provinciale a me, la segreteria regionale a te, i capolista in città a me, i capolista in provincia a te, e così via – oppure spenderle nella ricerca di una linea politica e di un profilo definito? Provate a chiedere in giro che cos’è il partito democratico a Napoli. Gli elementi di riconoscibilità in città sono pochi o nulli: le posizioni all’interno delle istituzioni rappresentano l’unico prova dell’esistenza in vita del partito democratico.
Eppure la materia per fare politica c’è, in abbondanza. Nei suoi anni a Palazzo San Giacomo, il sindaco De Magistris ha cucinato una pietanza nuova, un cibo che ai napoletani è piaciuto per ben due volte, e ora il Pd deve decidere se era davvero una roba commestibile, o se invece conteneva ingredienti adulterati. In quel piatto c’è abbondanza di retorica di una sinistra antagonista e altermondialista, appelli ad un’interpretazione radicale della tradizione democratico-costituzionale, forti iniezioni di una certa napoletanità (quella che culmina nel gigantesco corno scaramantico sul Lungomare «liberato»), esaltazione dello spontaneismo delle culture giovanili, lotta tonitruante alla corruzione come bandiera ideologica, mista però a insofferenza per la fredda razionalità legal-burocratica. Poi c’è la più prosaica attività della giunta arancione, le serissime difficoltà finanziarie in cui versa il Comune, le opere pubbliche al ralenti, la situazione drammatica dei trasporti pubblici, e insomma un’attività amministrativa su cui pure il Pd deve esprimere un giudizio privo di ambiguità. E quale migliore occasione di un congresso del partito?
Ma questa occasione, l’ennesima, il Pd rischia di gettarla al vento. Un po’ perché incombono le elezioni politiche, e il controllo del partito è un pezzo essenziale nella partita per le prossime candidature, un po’ perché non sa nemmeno da dove cominciare. E quando non si sa da dove cominciare, si comincia (e spesso si finisce) col “fare le tessere”. Tutto il resto viene messo tra parentesi.
Intendiamoci: la politica ha le sue necessità, ed è ingenuo pensare che si possa contare solo sui buoni argomenti, sulla forza della persuasione e sullo slancio ideale. Ma è proprio uno sguardo realista e disincantato sulla condizione del partito democratico a Napoli che suggerirebbe di riprendere daccapo il filo della politica. Un partito che conta solo sulle risorse clientelari e le pratiche di sotto governo è destinato a perdere. Non ha capacità di mobilitazione, non ha credibilità, non è in grado di sviluppare un’autonoma progettualità. Non serve a nulla: soltanto a se stesso, alla propria sopravvivenza sempre più residuale.
Non è dunque un atto di generosità che ci si aspetta dai vari De Luca, Casillo, Topo, Cozzolino, ma una presa di coscienza e, di conseguenza, una parola di chiarezza: dove si colloca il Pd? È un partito della sinistra riformista, sì o no? Se lo è, come può confondersi con il populismo cheguevarista di Luigi De Magistris? È il partito democratico il partito che governa a Roma con Gentiloni e a Palazzo Santa Lucia con De Luca? Se sì, come può mettere la sordina all’opposizione a Napoli e nell’area metropolitana? C’è forse una prospettiva politico-amministrativa per l’area metropolitana, che il Pd condivide con Dema e la sinistra radicale? A distanza di sei anni dal primo sventolìo della bandana sul palazzo comunale, la risposta a queste domande non può essere data distrattamente, quasi per sbaglio: deve diventare invece il cuore di una proposta alternativa di governo della città. Solo così il Pd può trovare un’eco nell’opinione pubblica, avvicinare una nuova generazione alla politica, raccogliere energie e intelligenze, recuperare un rapporto con la società, e forse persino fare qualche tessera in più.
Ma forse l’ostacolo principale, per un congresso fatto su grandi opzioni di linea politica e visioni dello sviluppo urbano, piuttosto che sugli organigrammi e gli inciuci, sta nella convinzione che, nell’età della politica personale, un partito vero non serve. Costituisce anzi un freno, un impaccio, una mediazione inutile che può ormai essere saltata. Il fatto è che però non viene affatto saltata; viene anzi mantenuta, sia pure solo fittiziamente, per risultare così il luogo della rappresentazione più deteriore e usurato della politica, fatto di accordi sottobanco, melina sui giornali e una babele di voci che si sovrappongono senza un disegno unitario. L’esito ultimo sappiamo però qual è: il populismo. Grillino a Roma, arancione a Napoli. Sta allora al Pd decidere se intende davvero sfidarlo, o accontentarsi di vivacchiare in cucina, mentre il capopopolo di turno continua a fare il suo show come se fosse a Masterchef.
(Il Mattino, 12 settembre 2017)