Archivi del giorno: settembre 23, 2017

La resa dei conti è solo rinviata. Decisiva la Sicilia

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F. Clemente, La partenza dell’argonauta (1986)

A Rimini è una festa che s’ha da fare, avrà pensato Grillo nei prepotenti panni di Don Rodrigo del Movimento Cinque Stelle, e dunque Roberto Fico è meglio che non prenda la parola: rischierebbe di rovinare la cerimonia. Ma i malumori che non possono manifestarsi durante l’incoronazione di Di Maio, che domani verrà proclamato candidato premier, rischiano di esplodere al primo intoppo. Si conosce già la casella del calendario dove è piazzata la mina che potrebbe farli saltare fuori: 5 novembre, elezioni regionali siciliane. I Cinquestelle si sono avvicinati a quell’appuntamento convinti di poter arrivare alla vittoria, o almeno a una incollatura dal vincitore. Ma dopo l’ennesimo pastrocchio nelle regionarie, con l’ormai consueta scia di ricorsi, interventi del tribunale e atti di imperio di Grillo per confermare il candidato Cancelleri, tutto si può dire meno che il risultato sia già in tasca.

Prima di quella data, però, Fico non ha spazio per muoversi, per rappresentare un’alternativa politica reale a Luigi Di Maio. In linea di principio lo sarebbe. Fico non è andato né alla City di Londra né a Cernobbio per accreditarsi preso i mercati, come Di Maio. Fico non ha partecipato alla campagna d’estate sui migranti e contro le Ong, come Di Maio. Fico non ha nemmeno baciato l’ampolla contenente il sangue di San Gennaro, come Di Maio. Da ultimo, e soprattutto, Fico non ha condiviso l’ampiezza di mandato che le primarie online consegneranno al vincitore. Invece di avere soltanto un candidato premier, i grillini c’è il rischio che vedano pure Luigi Di Maio associato a Grillo e a Casaleggio nella guida politica del movimento. Un inedito triumvirato, che contraddice abbondantemente lo spirito dei meet up della prima ora, di cui Fico, insieme all’ala cosiddetta ortodossa, vuole essere ancora espressione.

Con sempre maggiore difficoltà, però, visto che sempre più declinano, o si traducono in semplici paramenti esteriori, i miti della trasparenza e della democrazia diretta. E difatti. Queste primarie sono state le più veloci della storia, con soli tre giorni tre di campagna elettorale. I candidati non hanno dovuto presentare un programma, ma una semplice dichiarazione di intenti. La piattaforma che ospitava la votazione si è impallata più volte. I tempi per votare sono stati prolungati a singhiozzo. I risultati sono stati raccolti ma non proclamati ufficialmente. Nessuna certificazione pubblica e verificabile è stata eseguita: tutto è in mano a due notai di cui però non si conosce il nome. La democrazia, ragazzi: quella è un’altra cosa.

Ma i partiti sono associazioni private, e fanno un po’ quello che vogliono. In particolare quando c’è da piegare, se non le regole, almeno la retorica alle esigenze del momento. E questo è il momento di Di Maio, il momento in cui il Movimento deve mostrarsi unito e compatto dietro il novello leader, il momento in cui, dunque, non sono ammesse polemiche interne. Grillo ha la forza per imporre il suo pupillo e tacitare i suoi avversari. Sa che i Cinquestelle hanno bisogno di presentare un candidato che trasmetta non solo il senso di una novità, ma anche quello di un’autorevolezza che è ancora tutta da conquistare. Perciò, va bene che tutti sono uguali, che uno vale uno, che gli incarichi si assumono a rotazione e in Parlamento non ci sono onorevoli ma megafoni dei cittadini, però per Palazzo Chigi il prescelto non può che essere uno solo. Ed è lui, è Luigi Di Maio il Lancillotto. Quanto alla leaderizzazione del candidato, sarà interessante vedere se in campagna eletorale avremo il suo volto in primissimo piano sui manifesti e negli spot, come impone la comunicazione politica oggi, o se campeggeranno soltanto le anonime Cinque Stelle del simbolo (e la barba e la chioma di Grillo, va da sé).

Questa è la strategia: si fa corsa tutti insieme per Di Maio senza aprire una discussione vera. Scordatevi i meet up, non azzardatevi ad organizzarvi come opposizione interna. Ovviamente nessuno ha la forza per contrastare questi piani di battaglia. Di Battista, perciò, si è adeguato subito, Fico invece no. Se le cose in Sicilia andranno bene, anche lui finirà ovviamente col piegare il capo e pure le orecchie. Ma se il centrodestra vincesse? Se il Pd non andasse così male come si prevede, e i Cinquestelle non andassero così bene come fino a poco tempo fa si pensava?

A quel punto la partita potrebbe riaprirsi. Non certo nel senso che Di Maio sarebbe rimesso in discussione, ma nel senso che Grillo potrebbe essere costretto a concedere qualcosa nella composizione delle liste. Sarebbe una novità assoluta, anche se difficilmente si aprirebbe una dialettica politica reale dentro il Movimento. La ragione è semplice: una simile dialettica è incompatibile con la figura dell’insindacabile capo politico che, quale garante,  Grillo continua ad essere. (Ed è impensabile pure che Grillo permetta quello che sempre succede nel Pd, dove non si smette mai di esercitarsi nel logoramento del leader). Più facile allora che all’emergere di malumori, in caso di insuccesso in Sicilia, Grillo reagisca come ha sempre fatto finora: con le fuoriuscite e le espulsioni. Col rischio però che qualcosa si incrini nel rapporto con l’opinione pubblica.

Meglio non pensarci, allora. Oggi è il giorno della grande festa. E siccome del doman non v’è certezza, per ora Fico non parla, il resto si vedrà.

(Il Mattino, 23 settembre 2017)

 

Il solerte Di Maio e la liquefazione del potere

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A. Kiefer, The Red Sea (1985)

“Ossequioso e conformista, egli ragiona più o meno così: sono consapevole del fatto che nessuna verità si nasconde nell’autorità, tuttavia continuo a prendere parte alla messa in scena obbedendole, al fine di non compromettere il corso naturale delle cose”. Naturale o forse sovrannaturale, se sei vicepresidente della Camera e stai assistendo alla liquefazione del sangue di san Gennaro, nel giorno del santo patrono della città. Ma le parole citate non possono riguardare davvero Luigi Di Maio, dal momento che si trovano in un saggio del filosofo sloveno Slavoj Zizek di vent’anni fa. Le ha ripescate però, più di recente, Mauro Magatti, per tratteggiare la figura del trickster, del briccone divino, che nell’interpretazione del sociologo milanese diviene una sorta di “nichilista adattivo”, uno che non crede a niente ma sa adattarsi bene a qualunque situazione. Uno così può partecipare ai vaffa day fin dai suoi esordi ma anche indossare per un’intera legislatura la giacca e la cravatta dell’uomo delle istituzioni e, appena ufficializzata la sua candidatura nelle primarie grilline per la premiership, baciare compunto la teca contenente il sangue del Santo. “Per la prima volta”, confessa Di Maio, come se nessuno se ne fosse accorto che l’anno scorso, e l’anno prima, e quell’altro anno ancora, Di Maio nel Duomo non c’era.

Ma la sfrontatezza, si sa, è una caratteristica del trickster. La sfrontatezza o l’impudenza, insomma la capacità di dire le cose che si vogliono dire, vere o false che siano, con una imbattibile faccia di tolla. A momenti, il Movimento Cinque Stelle sembra tutto intero assumere questa caratteristica. Come quando avanza la proposta del referendum sull’euro (di cui da un certo momento in poi si sono perse le tracce), o come quando sposa le preoccupazioni complottiste e anti-vax, salvo poi infilarsi in una serie di complicate marce indietro.

Da che pulpito, si dirà. Luigi Di Maio che omaggia San Gennaro nei panni mai indossati prima del fedele, non viene dopo Silvio Berlusconi che racconta barzellette ai grandi della Terra, o dopo Renzi che sale al governo annunciando una riforma al mese? Non hanno anche costoro assunto i tratti del trickster? Non hanno indossato maschere, raccontato frottole, inscenato una parte?

Sicuramente. Ed è forse questo che colpisce di più: la presenza di un medesimo tratto su tutto lo spettro della politica italiana. Una cosa che non si riuscirebbe invece ad attribuire alla signora Merkel. La vediamo seria, sempre dignitosa, mai sopra le righe, mai tentata dalla buffoneria o dalla demagogia. Tutto il contrario dei nostri governanti (ma faccio salva la Presidenza della Repubblica, per la fortuna di tutti noi). Quando poi succede che persino due compassati ex Presidenti del Consiglio, Enrico Letta e Romano Prodi, dimenticano l’abituale misura e, intervistati da un comico, quasi si danno di gomito, lasciandosi andare a battutine maligne e un poco rancorose all’indirizzo di Renzi, allora vien fatto di pensare che qualcosa si è guastato in profondità, e che è sempre più difficile tenere compostezza di gesti, di posture, di parole.

Magatti componeva il suo ritratto del trickster anche con altre pennellate. Oltre alla capacità di mescolare disinvoltamente e con un certo cinismo il vero e il falso, il serio e il faceto, l’alto e il basso,  questo disinvolto furbacchione – a volte licenzioso (Berlusconi), a volte sbruffone (Renzi), a volte sussiegoso (Di Maio) –  è privo di un “significante padrone”, cioè di una posizione etica, di una stabile identificazione simbolica, di una parola alla quale legarsi e che si è in grado di mantenere. E qui, in verità, sospetto che c’entri meno il carattere dei singoli e molto di più la frana ideologica della seconda Repubblica, che non ha risparmiato nessun partito politico.

Ancora. Il trickster è affetto da presentismo, vive cioè in un tempo privo di profondità, tanto nella fedeltà al passato quanto nella promessa di futuro. Gioca ogni volta tutta la partita, come se non ci fosse nient’altro. E questo è Berlusconi che fonda un partito o una coalizione a ogni nuova legislatura,  Renzi che sceglie lo slogan “Adesso!”, ma anche i Cinquestelle che non vogliono più di due legislature per i loro parlamentari (vedrete: con le dovute eccezioni), e che soprattutto vogliono fare la rivoluzione domani mattina. Salvo accorgersi, per esempio a Roma, che è maledettamente difficile cambiare anche solo di poco questo Paese.

Al trickster di Magatti manca tuttavia un elemento, che c’è nella tradizione e nel mito. L’albero genealogico del briccone divino comprende infatti divinità come Hermes, e imbroglioni come Pulcinella. E a tutti presta una caratteristica, che è quella di frequentare zone liminari, di confine, dove le regole si fanno più deboli e si infrangono più facilmente, e dove però si fa esperienza non solo della loro sospensione o distruzione, ma pure di una possibile nuova creazione. Trickster è anche il personaggio che, con la sua furbizia o con qualche scorrettezza, fa andare avanti la storia e trova nuove imprevedibili vie. Questa forse sarà l’happy end della seconda Repubblica, se e quando ne saremo venuti fuori. Ma chi o cosa riuscirà nell’impresa, rimettendo in carreggiata il Paese, questo, purtroppo, ancora non si sa.

(Il Mattino, 20 settembre 2017)