Archivi del mese: ottobre 2017

Il fuoco delle piccole patrie cova ancora sotto la cenere

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J. Mirò, Painting (Barcellona, 1933)

Una buona affluenza in Veneto, decisamente più bassa in Lombardia, dove però non era previsto il quorum. Maroni è stato più prudente di Zaia, ma è chiaro che ha fornito all’elettorato un motivo in meno per andare a votare. E la percentuale raggiunta non permette certo alla Lega di cantare vittoria: a volere più autonomia è meno della metà dei lombardi.

Vi era però un altro, più consistente motivo per non passare per le urne, e stava nel fatto che il percorso verso un regionalismo differenziato, previsto dal titolo quinto della Costituzione, poteva e può essere avviato senza indire alcun referendum. Così ha fatto ad esempio l’Emilia Romagna, che si è accontentata di una delibera del Consiglio Regionale. Ma l’Emilia Romagna è a guida democratica, e dunque non aveva interesse ad accentuare il tema in contrapposizione al governo centrale. Lombardia e Veneto sono invece a guida leghista: sono anzi il cuore dell’originario progetto della Lega, che prevedeva soluzioni federaliste e, ai tempi belli di Bossi, il Senatùr tonitruante, persino la secessione. A un certo punto è stato messo su persino un farlocco Parlamento del Nord, di cui in seguito si sono perse le tracce, per minacciare una proclamazione di indipendenza, che per la verità non c’è mai stata. Divenuto segretario, Matteo Salvini ha compiuto una brusca inversione di rotta in senso nazionalista, mettendo la sordina alle posizioni più estremiste dei leghisti in tema di rottura dell’unità nazionale. È bene però averne memoria, non solo perché viviamo in queste settimane tutta la drammaticità della crisi catalana – che i promotori dei referendum nostrani hanno spergiurato di non voler prendere ad esempio – ma anche perché vàlli a leggere i quesiti proposti: quelli ammessi dalla Consulta sono ben dentro le regole della Costituzione, ma ce n’era anche uno, bocciato dalla Corte, che prevedeva, in aggiunta al maggiore autonomismo, l’indizione di un referendum per l’indipendenza del Veneto. Oggi si parla di tasse, di autonomia fiscale, di minori trasferimenti allo Stato centrale, ma domani chissà: non è mica detto che le cose rimangano dentro i percorsi politici e istituzionali previsti dalla legge. O almeno: non è detto che l’energia politica accumulata su questi temi sia tenuta in riserva e rimanga inutilizzata a lungo. A chi gli faceva osservare che un referendum consultivo non serve a gran che, non vincola nessuno e non produce conseguenze giuridicamente vincolanti, Roberto Maroni ha infatti  risposto così: “Dicono che un voto consultivo come quello di domenica sia inutile? Anche la Brexit è passata atraverso un referendum consultivo, e mi pare che la cosa abbia avuto qualche conseguenza”.

Non ha tutti i torti. Ma forse uno ce l’ha: l’affluenza non esaltante, che fa del sentimento autonomista non il sentimento magioritario, ma quello di una minoranza ben organizzata.

Se il bersaglio più grosso si allontana, non vuol dire però che non si diano effetti più ridotti e più ravvicinati. I primi effetti il referendum li produce all’interno della stessa Lega.  Salvini è saldissimo in sella, avendo portato il partito dai minimi storici toccati nel 2013 a percentuali a due cifre, stando ai sondaggi. Ma la conversione sovranista della Lega ha comunque lasciato scoperto il fianco originale delle rivendicazioni territoriali. Quello è il fianco che Maroni e Zaia, come leader del Nord, si propongono di presidiare, perché il sentimento “nordista” non è affatto estinto e può essere rinfocolato. L’affluenza non è stata così ampia da mettere il vento nelle vele della Lega, ma fa comunque di Maroni, e soprattutto di Zaia, un polo di identificazione del popolo leghista.

Poi ci sono gli effetti all’interno del centrodestra. A Berlusconi sta riuscendo un’altra volta quello che gli è già riuscito in precedenti occasioni: di riunire il centrodestra. Per la Lega, avere proprie bandiere da sventolare significava marcare una posizione distinta e autonoma, e cercare i modi per farla pesare. La Lega nazionalista e di destra, una volta tolta dal tavolo la pretesa di uscire unilateralmente dall’euro, è infatti più facilmente acclimatabile dentro il centrodestra di quanto non lo sia la Lega nordista e separatista delle origini. Ma questo significa anche che, al contrario, più la Lega ha bisogno di non cedere all’abbraccio moderato di Forza Italia, più sarà tentata di rispolverare il refrain dell’autonomia. Il referendum di ieri mantiene il fuoco sotto la cenere e preserva questa possibilità, anche se non la avvicina.

Infine ci sono gli effetti che si producono su tutto lo spettro politico. Una Lega ringalluzzita sarebbe un osso duro per tutti. Basti pensare che se l’Italia ha oggi un pasticciato titolo V della Costituzione, è per via del vento federalista che la Lega ha saputo sollevare, e da cui tutti gli altri partiti si son fatti trascinare. Grazie principalmente alla Lega, la questione meridionale è diventata in questi anni sinonimo di lagna assistenzialista. Né l’argomento della distribuzione delle risorse, delle tasse del Nord che rimangono al Nord, è argomento puramente retorico. Né infine le strutture dello Stato nazionale godono di così buona salute da essere al riparo da scossoni. Che la giornata di ieri non sia stata una grandiosa festa di popolo, in grado di cambiare il clima nel Paese, è un dato di fatto. Ma questo non vuol dire che l’iter avviato si arresterà. Il sì canta vittoria lo stesso. Non riportz un successo eclatanre, ma neanche una sconfitta bruciante. I giochi restano aperti, e sarà compito del prossimo Parlamento chiuderli, per il bene della sua unità, ma anche della indispensabile solidarietà fra Nord d Sud del Paese.

(Il Mattino, 23 ottobre 2017)

Uexküll, l’etologo folle e geniale che scelse Napoli e Capri

Escher Still Life with Spherical Mirror 1934

M. C. Escher, Still Life with Spherical Mirror (1934)

«Vitalista tra i vitalisti, feroce idealista, kantiano – in realtà un nemico della scienza naturale. Ma, con quella doppia vita che spesso hanno i naturalisti di impostazione idealista, in fisiologia egli è anche il più preciso sperimentatore che si possa immaginare. Testardo fino a essere leggermente folle, geniale fino alla punta dei capelli», questo era, nel giudizio dell’amico Konrad Lorenz, padre dell’etologia contemporanea, il barone estone Jakob von Uexküll, che a lungo svolse la sua attività scientifica in Germania, ma poi anche nella Stazione Zoologica di Napoli, per spendere infine gli ultimi anni della sua vita a Capri. Il suo capolavoro (Biologia Teoretica, a cura di Luca Guidetti, Quodlibet, € 32, pp. 284) è stato presentato ieri alla Federico II di Napoli, che gli ha dedicato un impegnativo seminario. Al centro del pensiero di Uexküll è l’idea che ogni essere vivente ha il suo specifico ambiente: il mondo della zecca, o del riccio di mare, non è lo stesso di quello del mammifero, o dell’uomo. Ogni specie ha il “suo” spazio e il “suo” tempo. Ne veniva l’idea di una perfetta integrazione fra l’animale e il suo mondo che cozzava con l’evoluzionismo dominante, respingendone in particolare gli aspetti riduzionistici e meccanicistici. Ma ne veniva anche una interpretazione ricchissima della vita animale come fenomeno semiotico, che trova oggi nuovo interesse, soprattutto negli studi di etologia del comportamento animale.

Ma c’è un altro motivo di interesse per i lavori di Uexküll. Nella sua prospettiva, tutti gli esseri viventi sono “soggetti”, ma il loro mondo è un mondo “chiuso”. Se il primo punto ha un significato pluralistico, antispecista, il secondo sottrae a quel pluralismo la possibilità di vivere in un mondo comune. Uexküll, che negli anni Venti aveva scritto una Staatsbiologie dal carattere fortemente conservatore e antidemocratico, dovette comprenderne qualcosa se, dopo una sua prima adesione al nazionalsocialismo, si accorse negli anni successivi del “misero materialismo” delle dottrine naziste sulla razza. Oggi che la biopolitica è tornata al centro del lavoro teorico, è bene allora accedere qualche faro, e ricordarsi che la direzione che queste ricerche possono prendere non è affatto univoca.

(Il Mattino, 22 ottobre 2017)

Un azzardo che spariglia il gioco dei 5 Stelle

Picasso MInotauromachia 1935

P. Picasso, Minotauromachia (1935)

Un sasso nello stagno? Qualcosa di più, a giudicare dalle reazioni che la mozione parlamentare su Bankitalia presentata dal Pd ha scatenato. Non solo i più alti vertici istituzionali, ma anche esponenti democratici di primo piano – come il capogruppo al Senato Zanda, o come Walter Veltroni – hanno giudicato severamente la mossa del segretario: «deplorevole», «incomprensibile», «incommentabile». A giudicare dall’onda sollevata, il minimo che si possa dire è che Matteo Renzi questa volta è stato assai improvvido. Malaccorto. Per qualcuno, per giunta, non si tratta nemmeno della prima volta, ma anzi della riprova di quanto sia divisivo e contundente il modo di procedere del segretario del Pd.

Ma le acque in cui è caduto il sasso scagliato da Renzi non erano (e non sono) affatto stagnanti: sono anzi uno dei mari preferiti in cui nuotano i Cinque Stelle. Che della critica al sistema bancario italiano e a Bankitalia hanno fatto uno dei loro cavalli di battaglia. Ancor prima dello scandalo di Banca Etruria, con cui hanno tirato dentro la Boschi e il giglio magico. La polemica contro la finanza speculatrice che affama piccole e medie imprese è da sempre uno degli argomenti preferiti dei partiti populisti, ad ogni latitudine. Non a caso, la mozione del Pd è arrivata dopo la mozione presentata in Parlamento dai grillini, che impegnava l’Esecutivo ad «escludere l’ipotesi di proporre la conferma del Governatore in carica». Una mozione dello stesso tenore era stata presentata anche dalla Lega, il che rappresentava un chiaro segnale di quali munizioni i due partiti stessero accumulando in vista della campagna elettorale. Quali saranno gli argomenti su cui si giocherà il voto del 2018? I migranti, sicuramente. Poi l’Europa, probabilmente. Ma sui temi dell’economia la legislatura si chiude con i primi segnali positivi di ripresa, che sono venuti consolidandosi negli ultimi mesi del governo Gentiloni. Se su questo terreno riuscisse allora ai Cinquestelle di spostare tutta l’attenzione sulle nefande responsabilità in tema di banche, addossandole tutte al Pd, il più sarebbe fatto. La tempesta perfetta: paura dei migranti, impopolarità dell’Unione europea, rabbia contro gli affamatori del popolo. Il tutto, con il solito contorno giustizialista.

Con la mozione su Visco e Bankitalia, Renzi prova a sparigliare il gioco. Ed evita di rimanere con il cerino acceso in mano. Perché non c’erano solo le mozioni di Lega e Cinque Stelle. C’era anche l’astensione di Mdp sulla mozione grillina – il che non ha impedito a Bersani di giudicare «fuori da ogni logica» la mozione firmata dai democratici. E c’era lo stesso giochetto dentro Forza Italia: Brunetta ha giudicato «ipocrita e ignobile» la presa di posizione del partito democratico in Aula, ma questo non ha impedito a Berlusconi – che pure era Presidente del Consiglio quando fu nominato Visco – di criticare la Banca d’Italia per «non avere svolto il controllo che ci si attendeva».

In queste condizioni, con il nervo ancora scoperto di Banca Etruria, a Matteo Renzi proprio non andava giù di rimanere a fare solo soletto il palo dinanzi a Palazzo Koch. Del resto il suo giudizio su questa stagione Renzi lo aveva già consegnato nel libro uscito di recente: «abbiamo seguito quasi totalmente le indicazioni della Banca d’Italia, è stato un errore».  Dopo l’atto di indirizzo presentato alla Camera, Renzi si copre il fianco dalle critiche che sarebbero inevitabilmente piovute su di lui e sul Pd se la nomina fosse andata liscia e senza scossoni. Il Segretario sarebbe rimasto intrappolato nella Casta, proprio adesso che, con la campagna elettorale alle porte e senza la responsabilità diretta del governo, gli conviene tornare ad assumere i panni del rottamatore.

Certo, due argomenti possono ancora essere sollevati contro l’azzardo. Il primo: non si finisce in questo modo per inseguire i Cinquestelle, per andargli appresso scimmiottandone le mosse? Non è la trappola in cui il Pd è già caduto, con Renzi e prima di Renzi, su temi come la corruzione o il finanziamento della politica? Il secondo: non aveva detto Renzi che il Pd rappresenta l’unico argine al populismo? Con la mozione contro Bankitalia non si finisce con lo scavalcare a piè pari quell’argine? Critiche legittime, così come fondate sono le preoccupazioni di ordine istituzionale. Ma guardiamo al risultato: più che inseguire, ora il Pd sulle banche è inseguito da tutti gli altri. Fin qui era la comoda posizione tenuta dai Cinquestelle; ora, almeno sulle banche, non lo è più. E quanto a populismo, c’è del vero: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Tutte le leadership che si sono fronteggiate in questi anni ne hanno assunto qualche tratto. Ma è anche vero che fare una sinistra senza popolo non si può. Che Renzi provasse anche lui a riacchiapparlo da qualche lato è il minimo che ci si potesse aspettare, dopo l’anno di purgatorio seguito alla sconfitta referendaria. Del resto, la partita elettorale Renzi se la gioca contro Grillo e contro Berlusconi: non so se mi spiego.

(Il Mattino, 20 ottobre 2017)

 

Se l’Europa sdogana le destre

Sironi L'Italia corporativa 1936

M. Sironi, L’Italia corporativa (1936)

Sebastian Kurz, il nuovo cancelliere austriaco, è la materializzazione di tutto ciò da cui la storia politica europea del secondo dopoguerra ha voluto guardarsi: un’alleanza delle forze popolari di centro con la destra nazionalista e populista, che ha trovato il suo comune denominatore in un programma politico fondato sulla chiusura intransigente verso l’immigrazione proveniente dai paesi islamici. Niente musulmani, niente rifugiati: frontiere chiuse e tolleranza zero.

Dopo la seconda guerra mondiale, le democrazie europee sono state ricostruite sulla base dell’esclusione dall’area di governo delle formazioni politiche di estrema destra, che implicitamente o esplicitamente si richiamavano ai regimi fascisti o nazisti del Novecento. La conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti non era altrettanto insuperabile, dal momento che ne ha consentito il progressivo avvicinamento verso l’area di governo e le regole della democrazia parlamentare: basti pensare alla partecipazione dei comunisti francesi al primo esecutivo Mitterand, in Francia, o al governo della non sfiducia in Italia, a metà degli anni Settanta.

Dopo la caduta del muro di Berlino, lo scenario, però, è radicalmente mutato. Sul piano culturale, si è imposta una lettura della storia europea che insisteva più sulle somiglianze che non sulle differenze fra i totalitarismi del ‘900, con un effetto opposto: l’ideologia comunista finiva nella pattumiera della storia, il nazionalismo post-fascista si faceva sempre più presentabile. Ma sono state la gravissima crisi finanziaria del 2008, le difficoltà delle istituzioni europee di farvi fronte in una cornice di solidarietà condivisa, e l’imponente fenomeno migratorio, ad alimentare nuove paure e ingenerare nuove insicurezze, dando fiato alle destre. Prima, accadeva che l’avanzata della destra estrema venisse respinta da ampi fronti costituzionali. Il caso francese è stato a lungo paradigmatico: sia Jean Marie Le Pen, nel 2002, che la figlia Marine, lo scorso maggio, si sono visti sbarrare il passo da candidati sostenuti da un largo arco di forze che si richiamava ai valori della République, e che comprendeva anche i moderati di centro. Nel 2002 il gollista Chirac rifiutò qualunque confronto pubblico con Le Pen; nel 2017, il centrista Fillon si è schierato nel ballottaggio dalla parte di Macron, contro il pericolo lepenista. Le elezioni austriache dimostrano invece che può ormai accadere il contrario, e che partiti tradizionalmente collocati nell’area di centro si spostino verso destra, per intercettare gli umori di un elettorato sempre più scontento della guida politica ed economica assicurata finora dalle élites demoratiche europeiste, e sempre più sensibile al richiamo sovranista e nazionalista.

È un pericolo? Sì, lo è. Lo dimostra la reazione della Cancelliera Merkel, che si è affrettata a prendere le distanze dal progetto politico di un esecutivo con l’estrema destra sotto la guida del giovanissimo leader dei popolari austriaci. Certo, il risultato può anche essere letto in maniera opposta: non si tratterebbe tanto di uno spostamento a destra della politica austriaca, quanto del tentativo di riassorbire le pulsioni estremiste che si agitano nella pancia del Paese. Un po’ come avvenne in Italia nel 1994, quando Berlusconi sdoganò Gianfranco Fini, portandolo al governo, e favorendo così la trasformazione del vecchio Movimento sociale in un partito di destra liberale, Alleanza Nazionale. I numeri, però, sono assai diversi. Nel ’94, il partito di Fini prese il 13%, esattamente la metà dei voti raccolti in Austria dall’estrema destra di Heinz Christian Strache, leader del partito della libertà. Ma diversa è soprattutto la direzione di marcia che l’Europa ha imboccato: non solo in Austria, ma in tutta l’Europa centro-orientale. Sia o no il caso di considerare minacciati gli istituti della democrazia rappresentativa, sfibrati dall’onda populista e nazionalista, certo è che la fisionomia della destra sta cambiando: a mobilitarne l’elettorato non è l’ideale liberal-democratico della società aperta, l’integrazione, la fiducia nel futuro e un ottimismo rassicurante, ma il progressivo ritirarsi dentro confini nazionali chiusi, la diffidenza nei confronti dello straniero, e la richiesta di risposte forti, venate di autoritarismo.

Il fatto che tutto questo si faccia sentire così fortemente in Austria desta qualche motivo di preoccupazione. Nell’immediato, per via della difficoltà supplementari nella gestione dei flussi migratori che sarebbero provocate da un atteggiamento intransigente dell’Austria lungo il confine con l’Italia. Su un piano più generale, e simbolico, per ciò che ha significato la finis Austriae, il tramonto di quel «mondo di ieri», raccontato da Stefan Zweig, al cui collasso sono seguiti in Europa le più immani tragedie. Se però si guarda alla realtà dei rapporti politici sul continente, si trova che la più grande differenza rispetto al passato sta proprio in ciò che ci siamo abituati a criticare e svalutare: in quell’Unione che per alcuni è causa, con il suo immobilismo istituzionale e le sue politiche di austerity, dello scivolamento a destra del continente, ma che per altri si presenta come il più importante argine contro il completo deragliamento delle politiche nazionali nei Paesi in cui sempre più forte si fanno sentire le parole d’ordine del sangue e del suolo.

(Il Mattino, 17 ottobre 2017)

I democratici nell’era proporzionale

The Beached Margin 1937 by Edward Wadsworth 1889-1949

E.  Wadsworth, The Beached Margin (1937)

Fra i grandi vecchi che intervennero ad Orvieto nel 2006, nel seminario di studi che precedette la nascita del partito democratico, prese la parola anche Alfredo Reichlin. Cominciò da lontano, dal movimento operaio, dal quale provenivano quelli come lui, e parlò del disagio del cattolicesimo democratico che confluiva nel nuovo partito con il timore che l’egemonia sarebbe rimasta saldamente nelle mani degli ex comunisti, ma anche del malessere della sinistra, che temeva dal canto suo di stingersi in un nuovo contenitore non ancorato saldamente nella tradizione del socialismo europeo. Poi però accorciò le distanze, guardando ai compiti ai quali il nuovo partito era chiamato – crisi della democrazia, diritti di cittadinanza, ricostruzione della politica, europeismo – ed aggiunse: «l’identità di un grande partito non è l’ideologia, ma la sua funzione storica reale». Parole sante, a dar retta alle quali la si finirebbe in un sol colpo di chiedersi quanto è di sinistra, o di centrosinistra, il partito democratico, a dieci anni dalla sua fondazione.

Quel che davvero conta non sono i richiami identitari, tantomeno le medianiche evocazioni dello spirito originario, ma quale funzione in concreto il Pd abbia esercitato, e quale funzione pensi ancora di esercitare. Certo, il contesto è cambiato: la democrazia competitiva nella quale il nascente partito democratico doveva inserirsi non c’è più. Non c’è il maggioritario, ma una legge che, faute de mieux, rimette in campo le coalizioni, o qualcosa che prova a rassomigliarci. La partita a due, centrosinistra versus centrodestra, è diventata una partita a tre, o a quattro: maledettamente più complicata. Così che la crisi della democrazia, di cui ragionavano ad Orvieto i partecipanti al seminario, è ben lungi dall’essere alle nostre spalle. La partecipazione politica continua a calare, il virus populista si è grandemente diffuso, la risposta immaginata in termini di riforme costituzionali è naufragata: la salute complessiva del sistema politico, insomma, non è gran che migliorata. Quando dunque Renzi oggi dice che senza il Pd viene giù tutto, non usa solo un argomento da campagna elettorale, ma rivendica quella funzione nazionale di cui parlava Reichlin, e che ha portato i democratici ad occupare a lungo posizioni di governo. Caduto Berlusconi, il Pd ha sostenuto prima Monti, poi Letta, poi il governo del suo segretario Renzi, adesso Gentiloni. In nessuna di queste esperienze di governo il Pd ha governato da solo, o con i soli alleati di centrosinistra: non ve ne sono mai state le condizioni, ed è difficile anche che vi siano nel prossimo futuro.

Di tutte le riflessioni che il Pd è oggi chiamato a fare, questa è forse la più urgente: come si attrezza un partito nato con l’ambizione veltroniana della vocazione maggioritaria, dentro una congiuntura che quella vocazione ha abbondantemente smentito, ridimensionando anzi sempre di più le forze maggiori. Basta guardare al di là delle Api quel che succede alla socialdemocrazia tedesca, o al socialismo francese, per convincersene.

Quanto al suo profilo programmatico, il Pd ha sempre rivendicato il carattere di una forza progressista, riformista, europeista. Non sempre però è stato chiaro a tutti, dentro il Pd, di cosa riempire queste parole. Basti pensare che ad Orvieto era nientedimeno che D’Alema a chiedere «una nuova cultura politica che andasse oltre il vecchio schema socialdemocratico». Si voleva andare al di là, e si è ricaduti al di qua. Quella nuova cultura politica, che veniva identificata con la terza via, con il New Labour di Blair, o il Neue Mitte di Schroeder è proprio ciò che il D’Alema di oggi, quello che ha mollato il Pd da sinistra, mai prenderebbe ad esempio. Ma più che la contraddizione palese, o la credibilità dei suoi interpreti, conta politicamente il fatto che con questa giravolta è rispuntata quella sinistra identitaria, radicalizzata, che il Pd aveva cercato di riassorbire.

Certo, di mezzo c’è stata la grande crisi economica e finanziaria del 2008: il Pd ha avuto la sventura di nascere con il vento contro, mentre finiva la spinta euforica della globalizzazione, e la marea, ritirandosi, lasciava riaffiorare tutti i problemi rimasti aperti: le diseguaglianze crescenti, l’erosione delle classi medie, le precarietà diffuse, le insicurezze e le paure non governate. Ma, anche così, la funzione storica del Pd non è cambiata di molto, tra ancoraggio europeo e prospettive di riformismo sociale ed economico dentro una solida cultura di governo. Questo è, o dovrebbe essere, il Pd, una cosa riconoscibilmente diversa dalla destra nazionalista di Lega e Fratelli d’Italia, dal populismo giustizialista dei Cinquestelle, dal centrismo moderato di Forza Italia.

Nessuna mutazione genetica è dunque in corso. Altra storia è se, in questa fase, in cui il mondo sembra un’altra volta finire fuori dai cardini, sia abbastanza essere una forza tranquilla – come diceva il Mitterand che saliva per la prima volta all’Eliseo – o se invece non prevalgano passioni e umori più forti, al cui confronto il riformismo appare una pietanza scipita. Le elezioni non sono lontane, e fra poco questo interrogativo verrà sciolto dalle urne.

(Il Mattino, 15 ottobre 2017)

Come non ripetere gli errori e tornare a parlare alla città

Magritte time Transfixed 1938

R. Magritte, Time transfixed (1938)

Il bello comincia adesso, ora che ci sono i nomi dei candidati alla segreteria provinciale del partito democratico napoletano: Nicola Oddati, Massimo Costa, Tommaso Ederoclite. Il primo è sostenuto dall’area ex Ds, compreso il governatore De Luca; il secondo dall’area ex Margherita; il terzo dal Comitato Trenta, di quelli che hanno provato a non intrupparsi né con gli uni né con gli altri. Sarà congresso vero, con vinti e vincitori: le soluzioni unitarie sono naufragate, le mediazioni saltate, e da ultimo pure i comitati di saggi sono rimasti un pio desiderio. (Ma quando mai un partito è stato messo in mano a un comitato di saggi?).

Il bello comincia adesso, perché la vita interna del partito democratico napoletano non è stata, negli ultimi anni, un fulgido esempio di fair play politico. Il timore che anche questa volta il meccanismo si inceppi da qualche parte, e il congresso finisca per ricorsi e commissariamenti, è forte. Ma è pur vero che non si esce da uno stato di minorità politica se non per le vie politiche. E il congresso rimane la via maestra. I democratici hanno buon gioco a dire che sono ormai l’unico partito a celebrarli, a queste latitudini: hanno ragione. Resta però che di una celebrazione deve trattarsi, e non di una zuffa condotta senza esclusione di colpi. Altrimenti la scelta congressuale si rivelerà un micidiale boomerang per il partito.

Il bello comincia adesso anche perché è inedito se non il profilo dei fronti che si contrappongono, almeno uno dei protagonisti. Si deve certo cominciare col dire che da una parte stanno i Casillo e i Topo e le Armato, e dall’altra i Cozzolino e i Marciano e le Valente, democristiani gli uni e diessini gli altri, e tutti di lungo corso, ma la partita politica vede in campo un altro attore, non proprio l’ultimo della compagnia: Vincenzo De Luca, che finora non si era mai fatto tanto accosto al partito napoletano. Questa volta è andata diversamente: prima ha suggerito ipotesi unitarie, poi ha provato a favorirle, cercando la convergenza su un nome da lui stesso proposto; infine ha sostenuto la scelta di Oddati, che tra tutti i nomi circolati tra gli ex ds è sicuramente l’uomo a lui più vicino, oltre che quello di maggior peso. Tanto attivismo si spiega solo in un modo: De Luca non vuol subire il condizionamento crescente del partito napoletano, che rischia di mettere un’ipoteca sul futuro del governo regionale, non tanto in questa legislatura quanto nella prossima. Non fare la battaglia significa già perderla, lasciando il Pd in mano ai suoi avversari interni. E De Luca lo sa: per quanto non abbia mai lesinato le critiche al suo partito, ne ha sempre voluto mantenere ferreamente il controllo, nella sua Salerno. Forse non gli è servito molto per vincere le elezioni, ma gli è sicuramente utile per non avere sassi nelle scarpe. E che Napoli possa diventare per lui non un sasso, ma un macigno, se non prova a entrarci dentro, beh: quello è sicuro.

Il bello comincia adesso perché i numeri non sono così netti, da assicurare a tavolino la vittoria all’uno o all’altro. Ancora una volta c’è il rischio che gli organi di garanzia avranno parecchio lavoro da fare. A bocce ferme, gli ex della Margherita sono convinti di avere in mano la maggioranza del partito, ma si tratta di un margine esiguo, ed è possibile che alla fine si riveli essenziale la scelta della minoranza orlandiana. Che al momento sembra stare con Casillo e Topo, ma che ha sicuramente, in diversi suoi esponenti, maggiori affinità culturali, oltre che un retroterra comune di provenienza, con Nicola Oddati. Qualcosa, dunque, potrebbe spostarsi.

Il bello, e il difficile, comincia adesso, va detto infine pure questo, perché se per tre quarti un congresso è già deciso al momento del tesseramento, c’è almeno un ultimo quarto che si gioca fuori, tra i cittadini e con le parti della società a cui si vuol tornare a parlare. Dopo le primarie annullate, i ricorsi e i commissariamenti, i lanciafiamme mai usati, e il minimo storico toccato alle ultime elezioni comunali, o il partito democratico riprende a macinare iniziative, a costruire un progetto politico vero, a attirare nuove energie intellettuali, a recuperare credibilità tra i giovani, oppure non c’è candidato né governatore che tenga. E questo sarebbe un errore imperdonabile, in una fase in cui il clima politico comincia a cambiare, e la stella di De Magistris non manda più una luce pura e senza sbavature sull’orizzonte del lungomare liberato. Né tra i molti che, anzi, si affannano a capire da che parte bisogna voltarsi per rimettere in sesto la città.

(Il Mattino, 14 ottobre 2017)

Il partito trasversale dei guastatori a tutti i costi

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Afro, Demolizioni (1939)

Volano parole grosse. È oltre i limiti della democrazia, protesta preoccupatissimo Roberto Speranza, per conto di Mdp. Solo Mussolini aveva fatto cose simili, urla Di Battista. Così che davvero l’ordinamento democratico della Repubblica pare messo in pericolo dall’iniziativa del Pd, fatta propria dal governo, di mettere la fiducia sul testo della nuova legge elettorale all’esame della Camera. Una decisione politicamente impegnativa, che arriva sul finale della legislatura, ma che non piomba sul Parlamento come un fulmine improvviso scagliato da un dio iroso, bensì come l’ultima possibilità di dare all’Italia un sistema di voto accettabile, essendo naufragati tutti i tentativi esperiti finora. Prima l’incostituzionalità del porcellum, poi l’incostituzionalità dell’italicum, quindi il naufragio del tedeschellum (o teutonicum, che dir si voglia), in mezzo i propositi variamente assortiti, e tutti abortiti, di tornare al mattarellum: tutta questa profusione di latinorum dimostra senza dubbio alcuno la difficoltà del Parlamento italiano di dare un assetto stabile, convincente e soprattutto condiviso alle regole elettorali.

Se spingessimo più indietro lo sguardo, non daremmo un giudizio diverso. La famosa legge-truffa, fortemente osteggiata dal partito comunista, passò, a suo tempo, col voto di fiducia. E a metterlo quella volta non fu il Duce, come forse pensa Di Battista, ma un certo Alcide De Gasperi. Passano gli anni, e sul finire della prima Repubblica torna alla ribalta la questione elettorale. Ma a dare la scossa non fu certo il Parlamento, bensì un referendum popolare, quello promosso da Mario Segni sulla preferenza unica. Insomma, è giusto rivendicare il carattere squisitamente parlamentare della materia elettorale, ma è onesto riconoscere la difficoltà sempre incontrata all’interno del Parlamento, dalle proposte legislative di riforma in questa materia. Così come sarebbe altrettanto onesto rilevare che il rosatellum attualmente in discussione, l’ultimo latinorum della serie, ha un appoggio politico ampio. Anche se per ovvie ragioni né Berlusconi né Salvini voteranno la fiducia al governo, c’è intesa sulla legge. Il che non era, e non è, affatto scontato.

Questo significa che, oltre ai centristi, tre fra le maggiori forze politiche, di maggioranza e di opposizione, condividono l’impianto della legge. La quarta, i Cinquestelle, è invece sulle barricate. Ma come si fa a dimenticare che hanno qualche responsabilità nel naufragio del precedente tentativo, questa estate, di approvare una legge elettorale sul modello tedesco? Grillo, sul sacro blog, difendeva l’accordo, ma la base ribolliva di rabbia contro quella “cagata di legge elettorale”. E così, alla prova dell’Aula, con la consueta gragnuola di emendamenti, l’accordo non ha retto, e i voti grillini sono mancati. Il solito palleggio di responsabilità tra maggioranza e opposizione ha in seguito intorbidato le acque, ma a nessuno è parso, nelle settimane successive, che Grillo e compagni volessero rimettere mano alla legge. Tutt’al contrario. Ai Cinquestelle il sistema proporzionale partorito con le decisioni della Consulta sta più che bene, perché non gli mette al collo il cappio della coalizione. Posizione legittima, ma che difficilmente può tirare il Paese fuori dalle secche. Promette anzi di lasciarcelo chissà per quanto.

La situazione, vista dal lato del partito democratico, è invece la seguente: assumersi la responsabilità di approvare il rosatellum ricorrendo alla fiducia per evitare l’ennesimo fallimento, oppure alzare bandiera bianca, e consegnare definitivamente il Paese all’ingovernabilità?

Certo, le alternative non si presentano mai così nettamente. Hanno le loro sfumature. È chiaro che il ricorso alla fiducia punta a bypassare malumori e dissensi che attraversano sia il Pd che Forza Italia. È vero pure che anche il rosatellum non garantisce maggioranze stabili: la quota uninominale prevista difficilmente porterà l’uno o l’altro schieramento fino al 50,1%. Ma cosa c’è dall’altra parte? Che cosa motiva il rifiuto della legge da parte dei Cinquestelle, o da parte di Mdp? C’è, da parte loro, l’indicazione di un’alternativa praticabile? Allo stato, no. Allo stato, c’è solo la marea montante della polemica, portata spesso al di sopra delle righe, e condotta non in nome dell’interesse generale, ma dell’interesse proprio. Per quale motivo, infatti, non sarebbe nell’interesse generale del Paese introdurre un terzo di collegi uninominali che spingono le forze politiche a coalizzarsi fra loro, gli altri due terzi rimanendo proporzionali? Non si capisce. Mentre si capisce benissimo perché né i grillini, né quelli di Mdp vogliono il rosatellum: perché non fa al caso loro (mentre fa al caso di quegli altri).

Ora, ci si può dolere che la disputa sulla legge elettorale non si elevi dalla contingenza politica del momento. Ma questa doglianza riguarda tutti i partiti, nessuno escluso. Resta però che col rosatellum si fa almeno un passo in avanti nel senso della governabilità, e soprattutto si produce una legge forte del più largo consenso finora disponibile in Parlamento. Né ce n’è un altro. E, di questi tempi, trovare una maggioranza larga che assume su di sé il peso di una decisione politica per tirare il Paese fuori dallo stallo in cui si è cacciato dopo la bocciatura del referendum costituzionale, non è cosa da poco. Anzi è tanto, e sarebbe sbagliato buttarlo via.

(Il Mattino, 11 ottobre 2017)

Il meridionalismo dell’orgoglio terrone

Kandinsky Intorno al cerchio 1940

V. Kandinsky, Intorno al cerchio (1940)

Chissà dove un nuovo meridionalismo potrà attingere, per ripensare la questione meridionale. Lo scorso anno, Gianfranco Viesti e Carlo Trigilia hanno provato a mettere in fila gli effetti che la crisi ha avuto sull’economia del Mezzogiorno: un calo del Pil doppio di quello del Centro Nord, la caduta degli investimenti; il forte ridimensionamento del settore manifatturiero; l’ulteriore emorragia di occupazione; la crescita della povertà delle famiglie; la riattivazione dei flussi emigratori; il calo demografico per effetto di un abbassamento del tasso di natalità.

Lo scenario completo, ricordavano gli autori, deve però tenere in conto anche i segnali positivi: la forte crescita del turismo, la vivacità imprenditoriale nel settore delle start up, i settori industriali che realizzano performance positive anche negli anni più bui della crisi, la stessa tenuta degli equilibri sociali, non facile agli attuali livelli di disoccupazione.

A questo quadro vanno ad aggiungersi ora i dati confortanti che l’Istat ha fornito sulla produzione industriale nell’ultimo anno, con la Campania che cresce più della media nazionale e del Centro Nord. La direzione presa dalle politiche pubbliche, a livello nazionale e regionale, sembra insomma che stia dando i primi frutti.

A leggere però il racconto che del Meridione fornisce «Attenti al Sud», il libro che raccoglie le testimonianze di quattro scrittori meridionali («il pugliese Pino Aprile, il napoletano Maurizio De Giovanni, il calabrese Mimmo Gangemi, il lucano Salvatore Nigro») sembra che la questione meridionale non sia una questione legata alle strategie di sviluppo economico di queste terre, bensì soltanto una questione di identità. O, peggio ancora, che sia solo la questione di come sia distorta la rappresentazione più o meno stereotipata che di questa identità viene offerta nei media nazionali, nella pubblicistica corrente, da ultimo magari nelle serie televisive in stile Gomorra.

Così i quattro autori provano a raccontare un Sud diverso: Nigro sceglie di mostrare quanto sia da riscoprire la tradizione letteraria meridionale, e in particolare lucana, di cui si sa ancora troppo poco; Gangemi spiega che la Calabria è terra di ‘ndrangheta, ma questo non vuol dire affatto che tutti i calabresi siano ‘ndranghetisti; De Giovanni sostiene che i meridionali questa benedetta identità se la vedono appiccicata addosso dagli altri e finiscono col subirla; Aprile infine prova a sostenere che al mondo nessuno può essere orgoglioso della sua storia e della sua cultura più del popolo meridionale. Non solo, ma «Mentre il Nord sta dissanguando il paese, per tenere in piedi le cattedrali di una religione perduta, ovvero quella industriale, il Sud, con una scarpa e una ciabatta (come dicono a Roma), sta reinventando il mondo».

Nientemeno! Quest’ultima tesi è francamente assai ardita, ma è la più indicativa di una certa maniera di affrontare il tema del divario fra Nord e Sud sulla base di tre, caratteristiche inconfondibili, e ricorrenti in certa saggistica “sudista”, che si ritrovano anche in questo agile libretto. La prima consiste nell’insistere esclusivamente sui torti e le ingiustizie subite dal Mezzogiorno, nel corso della sua storia post-unitaria (chissà poi perché ingiustizie e torti i governanti pre-unitari non ne commettessero); la seconda consiste nell’accumunare enfaticamente la sorte del Meridione d’Italia a quella di tutti i Sud del Mondo; la terza, infine, nel ricercare percorsi di modernizzazione inediti, alternativi a quelli imposti dall’Europa e dall’Occidente, lungo i quali l’arretratezza del Sud si ritrova all’improvviso ad essere non più un handicap, ma anzi un vantaggio e, quasi, un motivo di fierezza.

Le tre caratteristiche suddette si ritrovano nitidamente esposte solo nel testo di Pino Aprile, che insiste in particolare, come in tutti i suoi libri, sulla colonizzazione del Mezzogiorno da parte del Nord. Ma si possono riconoscere anche negli altri contributi: nell’elogio della intemporale bellezza partenopea di De Giovanni, ad esempio, o nella difesa dell’Aspromonte non contaminato dall’industrializzazione di Gangemi: ogni volta, il Sud appare come una specie di miracolo, reso possibile dall’essersi tenuto in disparte dal corso principale della modernità e dalle sue brutture. E siccome i meridionali sono vittime del pregiudizio che li vuole corrotti, delinquenti o sfaticati, in tutto questo libretto non si troverà una sola parola sui loro vizi, ma solo sulle loro virtù: letterarie o morali, umane o artistiche.

Ma è poi dei vizi o delle virtù di un popolo, che si tratta? È questa la questione meridionale: una questione antropologica, scritta nei costumi, nei dialetti e nelle tradizioni del Sud? Ed è da lì che deve ripartire il nuovo meridionalismo? È lecito dubitarne. L’impressione è anzi che si commetta l’errore opposto: alla caricatura anti-meridionalista si replica infatti con una calorosa professione di fede meridionale, come se bastasse rivendicare storia e memoria per superare le contraddizioni reali che frenano lo sviluppo del Mezzogiorno. Come se la questione meridionale fosse solo una questione di orgoglio ferito, e la letteratura fosse chiamata solo a riscattare questo orgoglio: questa sarebbe la sua missione civile. Ho paura che sia il contrario, che questa riscoperta delle proprie radici, per tanti aspetti meritoria, funga solo come consolazione ai propri mali: come spesso è stato nella storia d’Italia, usa a celebrare, a volte persino a mitizzare il proprio glorioso patrimonio, per nutrire speranze future, tenendosi però alquanto discosti dalla prosaicità del presente.

(Il Mattino, 10 ottobre 2017)

 

I buoni, i cattivi e l’umiltà della giustizia

Rothko Antigone 1941

M. Rothko, Antigone (1941)

La descrizione della realtà criminale campana, offerta dal procuratore capo Gianni Melillo nella sua prima uscita pubblica, è assolutamente realistica: la camorra non è un fatto puramente criminale, privo di addentellati con la realtà circostante. La «cantilenante e rassicurante narrazione» che la riduce a mera devianza è ben lungi dal cogliere i fenomeni nella loro natura reale. Ben lungi anche dal descrivere la dimensione dei blocchi sociali che si coagulano intorno ad attività criminali. Questi blocchi – ha spiegato Melillo – assumono sempre più una forma reticolare che coinvolge soggetti, forze, strutture fra loro anche molto distanti, e che possono persino ignorarsi, ma che tuttavia si trovano ad essere collegate da una medesima, robusta trama di interessi.

Se questa analisi è corretta, è evidente la difficoltà a indicare dove finisce l’economia legale e dove comincia invece l’economia illegale, a stabilire fin dove la rete delle imprese o delle professioni, o degli stessi poteri pubblici locali, si mantiene al riparo dall’influenza camorristica. L’attuale complessità dell’organizzazione sociale ed economica sembra portare piuttosto una realtà a stingersi nell’altra, il lecito a confondersi con l’illecito, soprattutto in determinati contesti – come quello campano – caratterizzati da una presenza radicata della delinquenza organizzata, che permea di sé ampi settori della società.

In un quadro così problematico e sfuggente, lo Stato non può certo rinunciare all’azione repressiva: deve anzi aggiornare sempre meglio i suoi strumenti per stare al passo con l’evoluzione dei fenomeni criminosi. Ma è evidente che quanto più si riconosce l’incidenza sociale delle mafie, tanto più si riconosce l’insufficienza di una risposta puramente penale. Non si raddrizza una società con i soli strumenti del diritto penale, insomma, per quanto ampi possano essere i successi riportati nella lotta alla criminalità organizzata. Lo ha ricordato indirettamente lo stesso procuratore: negli ultimi venticinque anni sono stati conseguiti risultati straordinari, ha detto, ma questo non vuol dire affatto che ci siamo liberati dalla camorra. Ovviamente non vuol dire nemmeno che la camorra, come la mafia, non possa essere vinta. Ma la storia dell’Italia mafiosa è intrecciata con la storia economica, sociale e politica del Paese di maniera tale che è nelle linee del suo sviluppo, nell’evoluzione della società, nella sua crescita civile e culturale che va individuato il terreno ultimo sul quale quella lotta va condotta. È accettabile allora che l’ordinamento penale venga sovraccaricato di aspettative improprie, per arrivare là dove non può arrivare, senza stravolgere il sistema di garanzie che dovrebbe costituirne l’anima?  No, non è accettabile. Non è questo un patto che si possa stringere: cedere un po’ sul terreno dei principi dello Stato di diritto, per avere più vigore e forza di penetrazione sul piano dell’azione di contrasto. Al contrario, la vicenda recentissima dell’approvazione delle modifiche al codice antimafia ha purtroppo avuto proprio questo segno, con un’abnorme inflazione di misure preventive, mai così estese nella storia della Repubblica. Indagini come quella di Appaltopoli dimostrano invece un’altra grave stortura dell’attuale sistema: le risultanze investigative danno quel che possono dare, compreso il clamore che suscitano, nella fase preliminare, dopodiché però svaporano nel processo, ridotto quasi ad un’appendice secondaria. La foga di criminalizzare quelle zone grigie della società in cui si annidano collusioni, connivenze e complicità non viene trattenuta entro le regole del diritto, ma sostenuta e anzi surriscaldata dall’indiscutibile esigenza morale di fare giustizia. La distorsione si misura facilmente da ciò, che quando l’indagine viene archiviata o l’imputato assolto, l’opinione pubblica (e qualche infallibile magistrato), pensa non che sia innocente, ma che semplicemente l’ha fatta franca. Il marchio di colpevolezza, così, lo raggiunge comunque: invece di condanne effettive, che non si riescono a comminare, gli si affibbia almeno una condanna morale, per giunta di grande effetto mediatico.

Forte di una esperienza pluridecennale, sia nelle indagini di criminalità organizzata che come cabo gabinetto al ministero della giustizia, tutte queste cose Melillo le sa, le ha viste e le ha conosciute. Ma non tutto il sistema della giustizia, e non tutti gli uffici della procura napoletana le tengono sempre presenti. Nel suo capolavoro, «Viaggio al termine della notte», Céline scriveva: «non sarebbe tanto male, se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi». Qualcosa c’è, in realtà, ed è il diritto, anche se non arriva a rispondere agli interrogativi metafisici posti lungo quel viaggio. Ma è al diritto che affidiamo la distinzione che separa se non proprio i buoni dai cattivi, almeno il lecito dall’illecito. Solo che, per non correre il rischio di spingere un buono tra i cattivi, accettiamo (o dovremmo accettare) che a volte un cattivo rimanga nella compagnia dei buoni. È inefficienza? Certo, ma è anche la misura giuridica che assicura agli individui, e protegge, la loro libertà.

(Il Mattino, 8 ottobre 2017)

Un tribunale internazionale per prevenire le guerre

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P. Mondrian, New York City I (1942)

È possibile prevenire la guerra con lo strumento del diritto? È possibile che le controversie internazionali non siano più decise con le armi, ma affidate a, e risolte da, un tribunale internazionale permanente? È possibile che l’aggressione militare a uno Stato straniero sia non solo contemplata tra i crimini sui quali abbia competenza un simile tribunale, ma anche effettivamente scoraggiata dalle conseguenze penali di una simile azione? Il progetto cosmopolitico di una giustizia penale internazionale prova a rispondere affermativamente a queste domande. E non solo a queste, ma a tutte quelle che sono legate all’obiettivo ultimo di perseguire legalmente, sulla base di quegli stessi principi di giustizia che sostengono la repressione penale negli Stati liberaldemocratici, l’esercizio del potere che si macchia di crimini di guerra, crimini contro l’umanità, crimini contro la pace. A questo progetto è dedicato l’importante libro, davvero imprescindibile sull’argomento, di Daniele Archibugi e Alice Pease, Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali (Castelvecchi, p. 334, € 25). Diviso in tre parti, il libro affronta anzitutto l’evoluzione e gli scopi della giustizia penale internazionale in una prospettiva storica; presenta quindi, con dovizia di particolari e finezza di analisi, alcuni dei più clamorosi processi svoltisi negli ultimi vent’anni a carico di leader politici e capi di Stato come Augusto Pinochet, Slobodan Milosevic, Saddam Hussein: offre infine una valutazione assai informata sul futuro possibile di una giustizia penale internazionale.

Gli autori non si nascondono nessuna delle difficoltà che un tale progetto presenta: difficile recidere il cordone ombelicale che lega le corti di giustizia internazionali agli Stati o alle organizzazioni che le hanno istituite; difficile mettere le corti nella condizione di esercitare effettivamente la loro giurisdizione; difficile predisporre un tessuto autonomo di norme e di procedure sulla cui base operare; difficile perseguire tutti i crimini perpetrati, e difficile dunque che l’azione penale non appaia orientata in maniera parziale e altamente discrezionale. Tutte queste difficoltà non intervengono tanto sul piano teorico, quanto su quello pratico, per la resistenza che oppongono gli Stati (e i loro governanti) a farsi giudicare da un giudice terzo, accettando così una limitazione della loro potestà monocratica. Basti pensare anche solo al fatto che l’attuale Corte penale internazionale, operante già da un quindicennio, ha l’adesione di più di centoventi Paesi, ma non della Cina, dell’India, della Russia e degli Stati Uniti: chi comanda il mondo, non vuole essere giudicato. È la perenne lezione del realismo politico.

La prospettiva di ricerca di Archibugi e Pease si situa lungo il prolungamento di una linea cosmopolitica, che al potere sovrano dello Stato (il più gelido di tutti i mostri, diceva Nietzsche) vorrebbe in realtà tagliare le unghie. Le sue stelle polari si trovano nel progetto di pace perpetua di Immanuel Kant e nell’internazionalismo giuridico di Hans Kelsen. Ma si prova ad andare anche oltre: finché infatti, scrivono gli autori, “la giurisdizione universale è esercitata da magistrature statali, e i tribunali internazionali sono il risultato di complesse negoziazioni intergovernative” sarà illusorio pensare di costruire “un autentico contropotere rispetto alle istituzioni statali”. Invece però di rassegnarsi di fronte all’illusione, Archibugi e Pease sostengono la necessità di accompagnare il processo verso una giustizia internazionale più giusta dal basso, attraverso la costruzione di una opinione pubblica orientata in tal senso.

Illusione anche questa? Può darsi. Però resta una domanda, che dal processo di Norimberga ad oggi rimane decisiva: dati tutti i limiti, le insufficienze e finanche le ipocrisie della giustizia internazionale, preferite che questa trama giuridica si spezzi del tutto, che non vi siano più corti internazionali, che i criminali di guerra non vengano giudicati (ma sommariamente giustiziati o sbrigativamente amnistiati), o vi augurate invece che si rafforzi e si ampli la giurisdizione internazionale? Non sarà realistico prendersi anche quel poco che queste corti sono finora riuscite a fare, per provare ad ampliarlo un po’ di più?

(Il Mattino, 7 ottobre 2017)

 

La sindrome dei fratelli coltelli

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P. Picasso, Primi passi (1943)

È finita come non poteva non finire: a sinistra del partito democratico non c’è una formazione, ce ne sono (almeno) due. Una lavora per costruire un nuovo Ulivo, un centrosinistra allargato, un campo progressista: qualcosa – la si chiami come si vuole – che non sta politicamente in piedi senza il partito democratico; l’altra lavora invece per costruire un’alternativa di sinistra alla maggioranza che ha governato in questa legislatura: un’alternativa al Pd, dunque, che viene accusato di essere solo nominalmente un partito di centrosinistra. L’atto di maggior rilievo politico di questa fine di legislatura è la legge di stabilità: i parlamentari di Mdp vicini a Bersani e D’Alema non lo condividono; i parlamentari vicini a Pisapia invece sì. La spaccatura non potrebbe essere più fragorosa. Si può imbellettare come si vuole questa conclusione, si possono usare perifrasi e circonlocuzioni, ma il dato politico è questo: a sinistra gli uni non ne vogliono sapere di Renzi e del Pd, gli altri invece provano a lavorarci assieme. I primi considerano sbagliato cercare un terreno di intesa, almeno in questa fase e fino alle prossime elezioni; i secondi, invece, provano a fare esattamente questo, in vista di una possibile alleanza.

Chi volesse capire com’è possibile che a pochi mesi dalla nascita della nuova formazione politica – anzi: ancor prima di ritrovarsi in un unico partito – bersaniani e pisapiani si separino su un atto così importante come la nota al documento di economia e finanza (necessaria alla presentazione della legge di stabilità), non ha bisogno – io credo – di scomodare la storia lunghissima di divisioni, scissioni e lacerazioni che attraversa tutta la storia della sinistra. Che non è tutta uguale, peraltro: un conto è la scissione di Livorno fra socialisti e comunisti, nei primi decenni del Novecento; un altro la spaccatura dentro Rifondazione comunista, negli anni Novanta. Una cosa sono Gramsci o Bordiga; un’altra Bertinotti o Turigliatto. Se proprio si vogliono fare paragoni, questa vicenda somiglia al triste epilogo della stagione ulivista, o, più in generale, a tutto quello che è accaduto a sinistra dall’89 in poi: da una parte la spinta maggioritaria a costruire un partito che superasse antichi steccati ideologici e si proponesse come forza di governo; dall’altra i contraccolpi identitari, e minoritari, che producevano micropartitini a iosa, o si riducevano ad essere scialuppe di salvataggio per personale politico in disuso.

C’entra la storia, la coazione a ripetere sempre gli stessi errori? C’entri o no, sicuramente ha contato di più la valutazione su come presentarsi alle prossime elezioni. Questione cruciale per i fuoriusciti del Pd, che si rendono conto di non poter giustificare la propria esistenza in vita se non proponendosi come alternativi alla formazione dalla quale hanno preso in maniera così dirompente le distanze. Pisapia, Bersani e gli altri (pochi, in verità) non hanno fatto solo una battaglia di minoranza all’interno del Pd, hanno ritenuto che non ci fossero le condizioni minime per restare dentro un partito che giudicavano snaturato rispetto alle motivazioni originarie: con quale coerenza potrebbero ora pensare di fare un tratto di strada insieme? Più prosaicamente ancora: come possono rendersi visibili all’opinione pubblica, e appetibili a sinistra, senza rompere col Pd? Dunque: niente Pd, almeno finché c’è Renzi. Un problema di coerenza però ce l’hanno comunque, perché questa sinistra dura e pura è la stessa che votava con Forza Italia prima il governo Monti e poi il governo Letta. L’onorevole Speranza, che non ce la fa a votare la nota al Def perché giudica insoddisfacente le risposte sul lavoro o sul sociale del ministro Padoan, è lo stesso che faceva il capogruppo alla Camera con Letta a Palazzo Chigi e Saccomanni (non proprio un comunista) al Tesoro. E Filippo Bubbico, che oggi si dimette da viceministro dell’Interno, era viceministro già allora, in quel governo Letta che, al posto di Minniti, aveva Angelino Alfano (anche lui: non proprio un marxista-leninista). D’Alema soleva dire: il capotavola è dove sono seduto io. Di fatto, è come se ora provasse a dire, insieme a Bersani e ai suoi: la sinistra è dove ci siamo noi. Solo che, a furia di fare la guerra agli altri, quel “noi” si è molto rattrappito: è rimasto il capotavola, ma un tavolo comune non c’è più.

Tutte queste circonvoluzioni ruotano in realtà attorno a un punto, anzi a un nome: Matteo Renzi. C’è poco da fare: gliel’hanno giurata. Dopodiché è vero che in politica non contano (solo) le motivazioni personali. Ma per il modo in cui Mdp è nata non c’è altra traiettoria da intraprendere che non si prolunghi in una linea di fuga dal Pd.

Pisapia invece non ha bisogno di prendere cappello. Per lui, anzi, si è sempre trattato di aggiungere, non di sostituire. Nel giudizio dell’ex sindaco di Milano il Pd rimane tuttora una forza di centrosinistra: se non è sufficiente, si costruirà un campo più largo, per riorientare le politiche del governo. Ma non si butterà tutto a mare. Mdp è interessata solo alla pars destruens; Pisapia sta provando a fare la pars costruens: le due cose, evidentemente, non riescono a stare insieme.

Naturalmente tutto può essere. Persino che insieme ci rimangano, per mere ragioni di opportunità. Ma, politicamente parlando la storia di Mdp-Campo progressista è finita prima ancora di cominciare: si può già scommettere, anzi, che la sinistra che entrerà in Parlamento nella prossima legislatura uscirà, al suo termine, diversa da come vi è entrata, divisa e rimescolata ancora una volta. Com’è sempre stato, del resto, in tutte le legislature della Seconda Repubblica.

(Il Mattino, 4 ottobre 2017)

Le necessità e i ricatti morali

Job 1944 by Francis Gruber 1912-1948

F. Gruber, Job (1944)

Forse le cose stanno proprio come le dice il senatore Falanga, che al ddl sull’abusivismo edilizio tiene molto e non vuol credere che si fermi proprio in dirittura d’arrivo: «È un provvedimento portato avanti da noi del centrodestra e dal Pd». Se è così, come non farsi venire il dubbio che a pochi mesi dalle elezioni non sia il miglior biglietto da visita, per i democratici, quello di approvare una legge sugli immobili abusivi insieme a Verdini e Berlusconi? Nel partito democratico – lo spiegava bene, l’altro giorno, Bruno Discepolo su questo giornale – è confluita, fin dalla sua nascita, una componente ambientalista che non si trova certo a suo agio con il provvedimento all’esame del Parlamento. Del resto, se tu, mentre adotti per legge criteri per stabilire un ordine di priorità negli abbattimenti, permetti anche che sfuggano alla demolizione le costruzioni già ultimate, sulle quali non sia già stata pronunziata una sentenza di primo grado, di fatto introduci un condono almeno parziale, e spingi anzi i proprietari a completare le opere in tutta fretta. In un Paese funestato dall’abusivismo edilizio, dal territorio fragilissimo e da rischi idrogeologici assai consistenti, non è proprio un bel segnale. Ma non lo è nemmeno lo “stop and go” di quest’ultima coda di legislatura, e i ripensamenti che si addensano attorno ad ogni singola mossa parlamentare. I democratici giocano sulla difensiva anche questa partita: se votiamo il ddl Falanga, dobbiamo spiegare al Paese perché riteniamo che sia un provvedimento ragionevole e di buon senso. Ma mentre faticosamente spieghiamo e ragioniamo, i Cinque Stelle grideranno che stiamo dalla parte dei furbi, che facciamo strame della legalità, che inciuciamo con il centrodestra. Loro faranno ancora una volta la figura degli onesti, a noi ci trasformeranno ancora una volta nel partito dei ladri e dei corrotti.

Ma la legge risponde effettivamente a un’esigenza di assoluto buon senso. Se le sentenze di demolizione si contano, in tutta Italia, a centinaia di migliaia (settantamila solo in Campania), se è da escludere realisticamente che a questa montagna di sentenze si possa dar seguito in tempi brevi, se di fatto gli abbattimenti procedono a singhiozzo, senza alcuna reale programmazione, secondo disponibilità di mezzi e risorse che variano da regione a regione, da comune a comune, ma che variano anche a seconda delle diverse sensibilità e volontà di magistrati, politici e pubblici ufficiali, non è ragionevole che il legislatore indichi almeno delle priorità, che si ponga il problema di stabilire cosa è più urgente? È davvero da mettere sullo stesso piano l’ecomostro sorto in un’area sottoposta a vincolo assoluto, e la prima casa tirata su da una famiglia a basso reddito? Io vedo, in realtà, una stretta analogia con un altro tema, che pure viene affrontato in maniera ideologica, e intorno al quale si è formato allo stesso modo un austero partito dell’intransigenza morale. Mi riferisco al tabù dell’obbligatorietà dell’azione penale, difeso con la nobile idea che tutti i reati, tutte le violazioni della legalità vanno ugualmente perseguite, ma che, nell’impossibilità di farlo effettivamente, consegna alle procure la più ampia discrezionalità, senza che la politica possa assumersi la responsabilità di indicare priorità.

In realtà, problemi sociali di così ampia portata come quello dell’abusivismo edilizio richiederebbero anzitutto che su di essi si esprimesse una chiara volontà politica. Pensare che tutto possa scaricarsi sui sindaci è illudersi, e non porta ad alcuna soluzione. L’ex sindaco di Licata, Cambiano, balzato mesi fa agli onori della cronaca per le minacce ricevute e le proteste dei suoi concittadini contro le demolizioni, ha mostrato bene il cappio che si stringe intorno agli amministratori: in certi territori, se dici che intendi demolire non prendi i voti e non sei eletto. Se invece mostri di voler riconoscere il problema della casa, passi subito dalla parte dell’illegalità. Per spezzare un simile circolo vizioso si può fare in due modi: tutti e due, però, richiedono una decisione politica, non un atteggiamento pilatesco. E dunque: o si dice che i voti non servono, si sospende la democrazia, si manda l’esercito e si procede manu militari; oppure si fa una legge che dia forza agli amministratori locali, che venga incontro almeno alle condizioni di maggiore difficoltà, se non proprio di necessità, e magari provi a cambiare gradualmente le cose, cominciando dai casi più macroscopici, e avviando al contempo una diversa politica della casa e del territorio. (E, certo, anche una diversa educazione alla legalità).

Il ddl sceglie questa seconda via. Il partito democratico l’aveva imboccata, lavorando ad aspetti migliorativi della legge (e, forse, si poteva lavorare di più). Ora però sembra prevalere nuovamente la paura di fare regali ai grillini, e il voto favorevole non è più scontato. Il merito del provvedimento si allontana, schiacciato dal peso di orientamenti puramente ideologici, e da considerazioni di politica politicienne: può il Pd votare questa legge con Forza Italia, oppure rischia di perdere la faccia di fronte a certi settori dell’opinione pubblica?  Domanda: ma il Pd non è nato per farla finita con questi insopportabili ricatti morali?

(Il Mattino, 3 ottobre 2017)

 

La nuova scommessa bipolare

Ligabue 1945 Lotta di galli

A. Ligabue, Lotta di galli (1945)

All’ultima curva, prima di imboccare il rettilineo finale della legislatura, la legge elettorale torna ad essere tema di confronto politico e parlamentare, e si torna a parlare di una sua possibile approvazione.

Difficile, però, fare previsioni: sulla carta, le forze politiche che sostengono il Rosatellum bis – così è stata ribattezzata la nuova proposta – avrebbero i numeri per farla passare. Ma da qui al voto finale ci sono un’ottantina di voti segreti, e la partita è così delicata che incidenti sono sempre possibili.

In realtà, la nuova versione del Rosatellum non risolve i problemi di governabilità del Paese, ma per quello ci vorrebbe un doppio turno alla francese che non è nel novero delle cose possibili. La legge in discussione si limita a distribuire per due terzi i seggi su base proporzionale, e per il terzo rimanente assegna i seggi in collegi uninominali dove i singoli candidati possono essere sostenuti, anziché da liste singole, da una coalizione. Chi può investire sulla costruzione di coalizioni plaude alla legge; chi non ha alcun potere coalizionale la avversa.

A preoccuparsi sono quindi, innanzitutto, i Cinque Stelle, che non saprebbero a chi sommare i loro voti nella parte uninominale. E infatti il fuoco di sbarramento è cominciato subito: il neo candidato premier Di Maio ha avuto parole durissime contro quello che ha definito “un attentato alla volontà popolare”, con argomenti che in verità varrebbero per qualunque legge che abbia effetti disproporzionali. Dopodiché in Parlamento hanno piazzato una mina, nella forma di un emendamento contra personam, che non consente di indicare come “capo della forza politica” chi non può essere eletto in Parlamento. Leggi: Berlusconi. E leggi pure il tentativo di pescare su questa norma voti a sinistra per far saltare l’accordo sulla legge.

Ma di che genere di accordo si tratta? Detto che, se passasse, questa legge elettorale penalizzerebbe i grillini, chi, viceversa, se ne avvantaggerebbe? Guardando tra gli emendamenti presentati, si capisce qualcosa guardando la proposta di rimettere l’indicazione del futuro leader alla forza politica della coalizione che ha preso più voti. L’emendamento è a firma Forza Italia, ma avrebbe anche il favore della Lega. Il che significa che la competizione per la leadership si trasferirebbe dentro la legge elettorale, invece di stare nelle primarie che fin qui Salvini chiedeva e che Berlusconi non aveva nessuna voglia di concedere. Ma significa anche che le distanze nel centrodestra si sono accorciate, e che il Cavaliere comincia a pensare di avere tutto l’interesse a calarsi nuovamente in uno schema bipolare. Assisteremmo così ad una nuova piroetta: dopo essere stato, per tutta la seconda Repubblica, il campione della democrazia maggioritaria, Berlusconi si era convertito al proporzionale, e in lunghe e pensose interviste aveva spiegato come il proporzionale fosse ormai l’unico abito confacente al sistema politico italiano. Ora, invece, complice forse i sondaggi siciliani che danno il centrodestra avanti a tutti, Berlusconi cambia di nuovo: vada per la coalizione con Salvini, e per un voto che in qualche modo la sancisca e leghi le mani per il dopo voto.

Ma le lega veramente? In primo luogo, va detto che l’emendamento è ai limiti, se non oltre il dettato costituzionale. Perché nessuna formula sulla scheda elettorale può limitare il potere del Presidente della Repubblica di nominare il Presidente del Consiglio: cosa dunque comporti indicare il “capo della forza politica” non è chiaro. In secondo luogo, e soprattutto, queste coalizioni, che esistono solo su un terzo dei seggi, ben difficilmente raggiungeranno il 51%, con gli attuali rapporti di forza: e allora come si farà? Ci sarà un inciampo in più per la formazione di maggioranze parlamentari diverse da quelle indicate nella parte uninominale della legge. La qual cosa può forse essere persino apprezzata, almeno da chi non ama il carattere parlamentare della nostra Repubblica. Ma senze vere maggioranze popolari emergenti dalle urne il risultato sarebbe: nessuna maggioranza.

Il rischio è alto, insomma. E l’impressione è che l’emendamento sia una spia del ricompattamento che si sta producendo nel centrodestra, piuttosto che una strada realmente percorribile.

A meno che la cosa non piaccia pure a Renzi, che sarà sicuramente, a sinistra, quello che prenderà più voti. Ma un conto è il singolo emendamento, un altro è l’impianto complessivo della legge. Lì la partita sembra essere un’altra, perché questo tema delle coalizioni è stato gettato tra i piedi del Segretario da chi, dentro il partito democratico, lo considera ormai un ostacolo alla costruzione di un nuovo centrosinistra, di un nuovo Ulivo o di quel che sarà. Franceschini non perde infatti occasione per ripetere che la coalizione s’ha da fare, col che evidentemente sottintende che se, per dialogare con Mdp, fosse necessario mettere da parte Renzi, ci sarebbe chi, nel Pd, farebbe da sponda.

Questo è, alla fine, il nodo decisivo: la legge è studiata per contenere i Cinquestelle, ma non dà affatto garanzie di governabilità, promette intanto di rimescolare le carte nel centrosinistra, e, forse, di dare una mano al centrodestra. E però è firmata dal Pd, come se Renzi scommettesse sul fatto che, alla fine, prevarrà comunque la sua forte leadership nel partito. Ce n’è abbastanza per considerare i giochi tutti aperti.

(Il Mattino, 30 settembre 2017)

 

I democratici e il garantismo del “vorrei ma non posso”

Nancy Dwyer Big Ego 1990

N. Dwyer, BIG EGO (1990)

Ci sono, da un lato, gli umori dell’opinione pubblica; c’è, dall’altro, il difficile equilibrio politico fra alleati di governo. Dell’una e dell’altra cosa non è possibile non tenere conto: ci vogliono realismo e senso di responsabilità. Ma il risultato sono l’approvazione della riforma del codice antimafia e il rinvio della legge sullo ius soli. Il partito democratico – o almeno la maggioranza che ha sostenuto la candidatura di Renzi a segretario del partito – sembrava fino a poco tempo fa non volere la prima e non volere il secondo. Ma il risultato è l’opposto: i nuovi articoli del codice antimafia sono divenuti legge, mentre lo ius soli sembra ormai soltanto una ingombrante zavorra della quale liberarsi. A margine, si leggono dichiarazioni di autorevolissimi dirigenti del Pd che vanno in senso opposto: il ministro Graziano Del Rio sostiene che per la legge sulla cittadinanza c’è ancora spazio; il presidente del Pd, Matteo Orfini, ha dichiarato che è «un cedimento a una visione giustizialista del diritto» estendere alla corruzione il trattamento che in materia di prevenzione il codice riserva ai reati di mafia. Ma di nuovo: il risultato è che il cedimento c’è stato, mentre lo ius soli si è allontanato.

Questo finale di legislatura si sta giocando tutto sulla scomodissima posizione in cui si trova il Pd. Costretto a portare il peso del governo, mentre gli avversari sparano contro e gli alleati minacciano di smarcarsi su questo o su quello. Ci sono finalmente numeri col segno positivo davanti, a cominciare dall’occupazione e dal PIL, ma non sono sufficienti a cambiare di segno l’agenda politica del Paese. Le leggi che si devono o non si devono fare sembrano dettate al partito democratico dalle campagne di stampa, piuttosto che da un progetto politico coerente, di cui l’esecutivo Gentiloni dovrebbe sistemare gli ultimi tasselli prima di andare al voto e chiedere il giudizio degli italiani. Questo progetto, diciamo la verità, si è smarrito dopo il referendum del 4 dicembre. Da quel momento il Pd, e Renzi in particolare, è costretto a giocare sulla difensiva, in un perenne «vorrei, ma non posso». Vorrei fare la legge sullo ius soli, ma il mio alleato di centro, Alfano, non me lo fa fare. Vorrei fermare la riforma aspramente securitaria del codice antimafia, ma ci sono i Cinquestelle che strepiterebbero come matti e ci accuserebbero di stare dalla parte dei corrotti, per cui debbo mandarlo giù. Si arriva al paradosso che il voto sul codice arriva proprio nelle stesse ore in cui il partito organizza una cordiale iniziativa sulla terrazza del Nazareno, con Ferrara e Violante, per denunciare il clima di giustizialismo imperante e la mancanza di coraggio della politica su questi argomenti! Come dire: sul piano ideale sono garantista; nei fatti, non posso permettermelo.

Ma è molto complicato reggere una simile divaricazione fra teoria e pratica. Si finisce con l’essere attaccati su un versante e sull’altro. Quelli che considerano lo ius soli un inaccettabile regalo allo straniero mettono ormai il Pd sotto accusa comunque, faccia o no questa benedetta legge. E quanto alla lotta alla corruzione, non basteranno mai le prove che il Pd fornirà in Parlamento, tant’è vero che i Cinque Stelle hanno votato contro la legge, perché non è abbastanza severa, abbastanza dura. Bontà loro.

Se poi si allarga lo sguardo alla politica internazionale ci si trova dinanzi allo stesso impasse. Il partito democratico è o deve essere il partito dell’Europa. Ma quanto è oggi convinto il suo europeismo? E soprattutto: quanta parte della sua identità e del suo futuro il Pd è disposto a giocarsela su questo tema? Quanta parte della futura campagna elettorale verrà condotta rivendicando le ragioni dell’Europa? In Francia lo ha fatto Macron, in Germania lo ha fatto la Merkel. Il voto in Francia ha premiato la sfida di Macron, mentre ha penalizzato la Merkel, che rimane tuttavia alla guida del primo partito e del Paese. Ma per l’uno e per l’altra la partita decisiva rimane la sfida ai nazionalismi, ai populismi e ai sovranismi che minacciano la costruzione europea. Minaccia che sempre più rischia di diventare una minaccia all’ordine democratico: mica una cosa da ridere. Domanda: è così pure per il partito democratico o anche in questo caso si metterà una sordina, quasi vergognandosi di dover condividere le politiche di Bruxelles o di Francoforte, di andare ai vertici europei o di difendere l’euro?

Nel capolavoro di Jean Paul Sartre, «L’essere e il nulla», la malafede viene definita in modo un po’ diverso da come la si considera abitualmente. È in malafede non chi mente e inganna l’altro, ma chi inganna se stesso, chi sa la verità con tanta più precisione quanta più ne occorre per nasconderla vergognosamente a se stessi. Malafede non è la menzogna spudorata, ma è non credere veramente a ciò in cui si crede, senza tuttavia saperlo confessare a se stessi, e dunque facendolo, paradossalmente, in buona fede. Ebbene, sembra proprio questo il paradosso in cui rischia di cacciarsi il Pd, e con esso le cose in cui crede. Ma quel che l’analisi del fenomeno dimostra è che «una volta realizzato questo modo d’essere, è altrettanto difficile uscirne come svegliarsi», dice Sartre. È difficile, ma forse è davvero ora che Renzi provi a svegliarsi, e a suonare nuovamente la sveglia al Pd.

(Il MattinoIl Messaggero, 29 settembre 2017)