Archivi del giorno: ottobre 23, 2017

Il fuoco delle piccole patrie cova ancora sotto la cenere

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J. Mirò, Painting (Barcellona, 1933)

Una buona affluenza in Veneto, decisamente più bassa in Lombardia, dove però non era previsto il quorum. Maroni è stato più prudente di Zaia, ma è chiaro che ha fornito all’elettorato un motivo in meno per andare a votare. E la percentuale raggiunta non permette certo alla Lega di cantare vittoria: a volere più autonomia è meno della metà dei lombardi.

Vi era però un altro, più consistente motivo per non passare per le urne, e stava nel fatto che il percorso verso un regionalismo differenziato, previsto dal titolo quinto della Costituzione, poteva e può essere avviato senza indire alcun referendum. Così ha fatto ad esempio l’Emilia Romagna, che si è accontentata di una delibera del Consiglio Regionale. Ma l’Emilia Romagna è a guida democratica, e dunque non aveva interesse ad accentuare il tema in contrapposizione al governo centrale. Lombardia e Veneto sono invece a guida leghista: sono anzi il cuore dell’originario progetto della Lega, che prevedeva soluzioni federaliste e, ai tempi belli di Bossi, il Senatùr tonitruante, persino la secessione. A un certo punto è stato messo su persino un farlocco Parlamento del Nord, di cui in seguito si sono perse le tracce, per minacciare una proclamazione di indipendenza, che per la verità non c’è mai stata. Divenuto segretario, Matteo Salvini ha compiuto una brusca inversione di rotta in senso nazionalista, mettendo la sordina alle posizioni più estremiste dei leghisti in tema di rottura dell’unità nazionale. È bene però averne memoria, non solo perché viviamo in queste settimane tutta la drammaticità della crisi catalana – che i promotori dei referendum nostrani hanno spergiurato di non voler prendere ad esempio – ma anche perché vàlli a leggere i quesiti proposti: quelli ammessi dalla Consulta sono ben dentro le regole della Costituzione, ma ce n’era anche uno, bocciato dalla Corte, che prevedeva, in aggiunta al maggiore autonomismo, l’indizione di un referendum per l’indipendenza del Veneto. Oggi si parla di tasse, di autonomia fiscale, di minori trasferimenti allo Stato centrale, ma domani chissà: non è mica detto che le cose rimangano dentro i percorsi politici e istituzionali previsti dalla legge. O almeno: non è detto che l’energia politica accumulata su questi temi sia tenuta in riserva e rimanga inutilizzata a lungo. A chi gli faceva osservare che un referendum consultivo non serve a gran che, non vincola nessuno e non produce conseguenze giuridicamente vincolanti, Roberto Maroni ha infatti  risposto così: “Dicono che un voto consultivo come quello di domenica sia inutile? Anche la Brexit è passata atraverso un referendum consultivo, e mi pare che la cosa abbia avuto qualche conseguenza”.

Non ha tutti i torti. Ma forse uno ce l’ha: l’affluenza non esaltante, che fa del sentimento autonomista non il sentimento magioritario, ma quello di una minoranza ben organizzata.

Se il bersaglio più grosso si allontana, non vuol dire però che non si diano effetti più ridotti e più ravvicinati. I primi effetti il referendum li produce all’interno della stessa Lega.  Salvini è saldissimo in sella, avendo portato il partito dai minimi storici toccati nel 2013 a percentuali a due cifre, stando ai sondaggi. Ma la conversione sovranista della Lega ha comunque lasciato scoperto il fianco originale delle rivendicazioni territoriali. Quello è il fianco che Maroni e Zaia, come leader del Nord, si propongono di presidiare, perché il sentimento “nordista” non è affatto estinto e può essere rinfocolato. L’affluenza non è stata così ampia da mettere il vento nelle vele della Lega, ma fa comunque di Maroni, e soprattutto di Zaia, un polo di identificazione del popolo leghista.

Poi ci sono gli effetti all’interno del centrodestra. A Berlusconi sta riuscendo un’altra volta quello che gli è già riuscito in precedenti occasioni: di riunire il centrodestra. Per la Lega, avere proprie bandiere da sventolare significava marcare una posizione distinta e autonoma, e cercare i modi per farla pesare. La Lega nazionalista e di destra, una volta tolta dal tavolo la pretesa di uscire unilateralmente dall’euro, è infatti più facilmente acclimatabile dentro il centrodestra di quanto non lo sia la Lega nordista e separatista delle origini. Ma questo significa anche che, al contrario, più la Lega ha bisogno di non cedere all’abbraccio moderato di Forza Italia, più sarà tentata di rispolverare il refrain dell’autonomia. Il referendum di ieri mantiene il fuoco sotto la cenere e preserva questa possibilità, anche se non la avvicina.

Infine ci sono gli effetti che si producono su tutto lo spettro politico. Una Lega ringalluzzita sarebbe un osso duro per tutti. Basti pensare che se l’Italia ha oggi un pasticciato titolo V della Costituzione, è per via del vento federalista che la Lega ha saputo sollevare, e da cui tutti gli altri partiti si son fatti trascinare. Grazie principalmente alla Lega, la questione meridionale è diventata in questi anni sinonimo di lagna assistenzialista. Né l’argomento della distribuzione delle risorse, delle tasse del Nord che rimangono al Nord, è argomento puramente retorico. Né infine le strutture dello Stato nazionale godono di così buona salute da essere al riparo da scossoni. Che la giornata di ieri non sia stata una grandiosa festa di popolo, in grado di cambiare il clima nel Paese, è un dato di fatto. Ma questo non vuol dire che l’iter avviato si arresterà. Il sì canta vittoria lo stesso. Non riportz un successo eclatanre, ma neanche una sconfitta bruciante. I giochi restano aperti, e sarà compito del prossimo Parlamento chiuderli, per il bene della sua unità, ma anche della indispensabile solidarietà fra Nord d Sud del Paese.

(Il Mattino, 23 ottobre 2017)

Uexküll, l’etologo folle e geniale che scelse Napoli e Capri

Escher Still Life with Spherical Mirror 1934

M. C. Escher, Still Life with Spherical Mirror (1934)

«Vitalista tra i vitalisti, feroce idealista, kantiano – in realtà un nemico della scienza naturale. Ma, con quella doppia vita che spesso hanno i naturalisti di impostazione idealista, in fisiologia egli è anche il più preciso sperimentatore che si possa immaginare. Testardo fino a essere leggermente folle, geniale fino alla punta dei capelli», questo era, nel giudizio dell’amico Konrad Lorenz, padre dell’etologia contemporanea, il barone estone Jakob von Uexküll, che a lungo svolse la sua attività scientifica in Germania, ma poi anche nella Stazione Zoologica di Napoli, per spendere infine gli ultimi anni della sua vita a Capri. Il suo capolavoro (Biologia Teoretica, a cura di Luca Guidetti, Quodlibet, € 32, pp. 284) è stato presentato ieri alla Federico II di Napoli, che gli ha dedicato un impegnativo seminario. Al centro del pensiero di Uexküll è l’idea che ogni essere vivente ha il suo specifico ambiente: il mondo della zecca, o del riccio di mare, non è lo stesso di quello del mammifero, o dell’uomo. Ogni specie ha il “suo” spazio e il “suo” tempo. Ne veniva l’idea di una perfetta integrazione fra l’animale e il suo mondo che cozzava con l’evoluzionismo dominante, respingendone in particolare gli aspetti riduzionistici e meccanicistici. Ma ne veniva anche una interpretazione ricchissima della vita animale come fenomeno semiotico, che trova oggi nuovo interesse, soprattutto negli studi di etologia del comportamento animale.

Ma c’è un altro motivo di interesse per i lavori di Uexküll. Nella sua prospettiva, tutti gli esseri viventi sono “soggetti”, ma il loro mondo è un mondo “chiuso”. Se il primo punto ha un significato pluralistico, antispecista, il secondo sottrae a quel pluralismo la possibilità di vivere in un mondo comune. Uexküll, che negli anni Venti aveva scritto una Staatsbiologie dal carattere fortemente conservatore e antidemocratico, dovette comprenderne qualcosa se, dopo una sua prima adesione al nazionalsocialismo, si accorse negli anni successivi del “misero materialismo” delle dottrine naziste sulla razza. Oggi che la biopolitica è tornata al centro del lavoro teorico, è bene allora accedere qualche faro, e ricordarsi che la direzione che queste ricerche possono prendere non è affatto univoca.

(Il Mattino, 22 ottobre 2017)

Un azzardo che spariglia il gioco dei 5 Stelle

Picasso MInotauromachia 1935

P. Picasso, Minotauromachia (1935)

Un sasso nello stagno? Qualcosa di più, a giudicare dalle reazioni che la mozione parlamentare su Bankitalia presentata dal Pd ha scatenato. Non solo i più alti vertici istituzionali, ma anche esponenti democratici di primo piano – come il capogruppo al Senato Zanda, o come Walter Veltroni – hanno giudicato severamente la mossa del segretario: «deplorevole», «incomprensibile», «incommentabile». A giudicare dall’onda sollevata, il minimo che si possa dire è che Matteo Renzi questa volta è stato assai improvvido. Malaccorto. Per qualcuno, per giunta, non si tratta nemmeno della prima volta, ma anzi della riprova di quanto sia divisivo e contundente il modo di procedere del segretario del Pd.

Ma le acque in cui è caduto il sasso scagliato da Renzi non erano (e non sono) affatto stagnanti: sono anzi uno dei mari preferiti in cui nuotano i Cinque Stelle. Che della critica al sistema bancario italiano e a Bankitalia hanno fatto uno dei loro cavalli di battaglia. Ancor prima dello scandalo di Banca Etruria, con cui hanno tirato dentro la Boschi e il giglio magico. La polemica contro la finanza speculatrice che affama piccole e medie imprese è da sempre uno degli argomenti preferiti dei partiti populisti, ad ogni latitudine. Non a caso, la mozione del Pd è arrivata dopo la mozione presentata in Parlamento dai grillini, che impegnava l’Esecutivo ad «escludere l’ipotesi di proporre la conferma del Governatore in carica». Una mozione dello stesso tenore era stata presentata anche dalla Lega, il che rappresentava un chiaro segnale di quali munizioni i due partiti stessero accumulando in vista della campagna elettorale. Quali saranno gli argomenti su cui si giocherà il voto del 2018? I migranti, sicuramente. Poi l’Europa, probabilmente. Ma sui temi dell’economia la legislatura si chiude con i primi segnali positivi di ripresa, che sono venuti consolidandosi negli ultimi mesi del governo Gentiloni. Se su questo terreno riuscisse allora ai Cinquestelle di spostare tutta l’attenzione sulle nefande responsabilità in tema di banche, addossandole tutte al Pd, il più sarebbe fatto. La tempesta perfetta: paura dei migranti, impopolarità dell’Unione europea, rabbia contro gli affamatori del popolo. Il tutto, con il solito contorno giustizialista.

Con la mozione su Visco e Bankitalia, Renzi prova a sparigliare il gioco. Ed evita di rimanere con il cerino acceso in mano. Perché non c’erano solo le mozioni di Lega e Cinque Stelle. C’era anche l’astensione di Mdp sulla mozione grillina – il che non ha impedito a Bersani di giudicare «fuori da ogni logica» la mozione firmata dai democratici. E c’era lo stesso giochetto dentro Forza Italia: Brunetta ha giudicato «ipocrita e ignobile» la presa di posizione del partito democratico in Aula, ma questo non ha impedito a Berlusconi – che pure era Presidente del Consiglio quando fu nominato Visco – di criticare la Banca d’Italia per «non avere svolto il controllo che ci si attendeva».

In queste condizioni, con il nervo ancora scoperto di Banca Etruria, a Matteo Renzi proprio non andava giù di rimanere a fare solo soletto il palo dinanzi a Palazzo Koch. Del resto il suo giudizio su questa stagione Renzi lo aveva già consegnato nel libro uscito di recente: «abbiamo seguito quasi totalmente le indicazioni della Banca d’Italia, è stato un errore».  Dopo l’atto di indirizzo presentato alla Camera, Renzi si copre il fianco dalle critiche che sarebbero inevitabilmente piovute su di lui e sul Pd se la nomina fosse andata liscia e senza scossoni. Il Segretario sarebbe rimasto intrappolato nella Casta, proprio adesso che, con la campagna elettorale alle porte e senza la responsabilità diretta del governo, gli conviene tornare ad assumere i panni del rottamatore.

Certo, due argomenti possono ancora essere sollevati contro l’azzardo. Il primo: non si finisce in questo modo per inseguire i Cinquestelle, per andargli appresso scimmiottandone le mosse? Non è la trappola in cui il Pd è già caduto, con Renzi e prima di Renzi, su temi come la corruzione o il finanziamento della politica? Il secondo: non aveva detto Renzi che il Pd rappresenta l’unico argine al populismo? Con la mozione contro Bankitalia non si finisce con lo scavalcare a piè pari quell’argine? Critiche legittime, così come fondate sono le preoccupazioni di ordine istituzionale. Ma guardiamo al risultato: più che inseguire, ora il Pd sulle banche è inseguito da tutti gli altri. Fin qui era la comoda posizione tenuta dai Cinquestelle; ora, almeno sulle banche, non lo è più. E quanto a populismo, c’è del vero: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Tutte le leadership che si sono fronteggiate in questi anni ne hanno assunto qualche tratto. Ma è anche vero che fare una sinistra senza popolo non si può. Che Renzi provasse anche lui a riacchiapparlo da qualche lato è il minimo che ci si potesse aspettare, dopo l’anno di purgatorio seguito alla sconfitta referendaria. Del resto, la partita elettorale Renzi se la gioca contro Grillo e contro Berlusconi: non so se mi spiego.

(Il Mattino, 20 ottobre 2017)